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AFRICA 5/7/2003 2:25 |
IL
RIFIUTO DELLO SVILUPPO E LE RESPONSABILITÀ DELL’OCCIDENTE
di
Giulio Albanese
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Culture, Standard |
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Mi
è capitato di leggere in questi giorni un libro di una sociologa
camerunese, Axelle Kabou. Lo scritto, dal titolo più che
emblematico, ‘E se l’Africa rifiutasse lo sviluppo?’, risale
al 1991, ma per anni è rimasto nel cassetto. Gli editori
consideravano le tesi della studiosa troppo provocatorie e
spregiudicate rispetto alle attese del ‘mercato’. Per Kabou non
sarebbero stati gli antichi colonizzatori e il sistema
politico-economico internazionale a mettere in ginocchio l’Africa,
ma i leader africani che sono sempre pronti a dare la colpa al Fondo
monetario internazionale (Fmi) o alla Banca mondiale (Bm) perché
non erogano i prestiti di cui i loro governi hanno bisogno. Ma il
ragionamento va ben oltre e si spinge nella polemica aperta contro i
‘terzomondisti’ e i sostenitori ad oltranza della ‘mentalità
tradizionale africana’. "L’Africa è sottosviluppata e
stagnante – scrive la studiosa - perché rifiuta con tutte le sue
forze lo sviluppo. L’Africa non muore: si suicida in una sorta di
ebbrezza culturale apportatrice solo di gratificazioni morali. Le
iniezioni massicce di capitali non possono farci niente.
Occorrerebbe prima di tutto disintossicare le mentalità, rimettere
gli orologi a posto e soprattutto porre gli individui di fronte alle
loro ineluttabili responsabilità". In sostanza , l’Africa
rifiuterebbe di capire quali siano le cause dei drammi che sono
tutti i giorni sotto i nostri occhi, le vicissitudini passate che
hanno segnato la storia del continente e quei fattori culturali e
istituzionali ‘ad intra’ che hanno fatto sì che essa risultasse
perdente. La Kabou pone un interrogativo: perché il Giappone non fu
colonizzato? Forse perché l’universo nipponico è stato capace di
resistere alla penetrazione straniera. A differenza dell’Africa,
l'Impero del Sol Levante avrebbe preteso lo sviluppo, riuscendo a
mutuare da altre civiltà gli elementi utili per il proprio
sviluppo. E il giudizio dell’intellettuale camerunese sconfessa la
tesi che l’Africa pre-coloniale fosse un paradiso incontaminato.
Un mito, lei dice, a cui nessuno che abbia buon senso può credere
più. Il libro della Kabou, a parte un linguaggio a volte
eccessivamente duro, ha certamente il merito d’esprimere
un’autocritica che mira ad abbattere le presunzioni
paternalistiche di chi vorrebbe questo continente sempre dipendente
dalla beneficenza altrui. Il rischio in agguato però, per certi
studiosi del calibro della Kabou, è sempre e comunque quello di
semplificare uno scenario a dir poco complesso. È vero, l’Africa
non può piangersi addosso e l’avvertimento di ‘rimboccarsi le
maniche’, lanciato dall’autrice ben dodici anni fa non è stato
sufficientemente ascoltato, soprattutto da parte delle classi
dirigenti locali. Molti presidenti che avrebbero dovuto segnare il
passaggio a una nuova mentalità politica hanno fallito: primo fra
tutti l’ugandese Yoweri Museveni che dal 1986 non pare abbia mai
avuto l’intenzione di mollare lo scettro. Lo stesso vale per
l’eritreo Isayas Afeworki che ha trasformato il suo Paese in un
regime totalitario. Non solo: la pratica della circoncisione
femminile, legittimata da non poche culture, rappresenta un
impedimento allo sviluppo in non pochi Paesi. Ciò non toglie, che
le responsabilità dell’Occidente sono sotto il cielo africano da
mattina a sera. Troppe volte gli interessi economici, primo fra
tutti il controllo delle immense risorse minerarie del continente,
hanno condizionato la vita degli africani causando morte e
distruzione. La drammatica guerra esplosa il 2 agosto del 1998 nella
Repubblica Democratica del Congo, la dice lunga. Insomma, se una
donna come la Kabou ha il coraggio di criticare gli africani,
trattandosi della propria gente, ha il sacrosanto diritto e dovere
di farlo. Ma l’Occidente non può esimersi da un ‘mea culpa’
servendosi delle sue tesi col pretesto, più o meno dichiarato, di
giustificare le proprie malefatte.
di padre Giulio Albanese
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dal sitto ww.misna.it |