FONTE: MISNA
AFRICA  6/7/2004 2:15

UNIONE AFRICANA E SOCIETÀ CIVILE, UN CAMMINO POSSIBILE?

di padre Giulio Albanese

 

Peace/Justice, Standard

Guardando alle sciagure che segnano penosamente il nostro pianeta, la crisi di governabilità è quella che forse meriterebbe una particolare considerazione, in riferimento soprattutto alle vicende africane. Il forum di ieri ad Addis Abeba sul dramma della fame, in quello che è peraltro il continente più povero del mondo, e l’apertura odierna nella capitale etiopica del vertice annuale dei capi di Stato e di governo dell'Unione Africana (Ua), offrono alcuni spunti di riflessione su un fenomeno sintomatico della disagevole condizione d’interdipendenza planetaria che ha frantumato non poche sovranità statuali. Il caso della Repubblica democratica del Congo è certamente il più emblematico se si pensa agli appetiti suscitati dalle immense risorse minerarie che si celano nel sottosuolo. Gli effetti sono sotto gli occhi di tutti: diffusione della conflittualità armata, tentazioni autoritarie di élite senza scrupoli e insicurezza generalizzata a trecentosessanta gradi. Il penoso risultato è poi acuito dalle ambiguità della politica internazionale. L’Unione Europea da una parte sostiene le economie nel segno dei diritti umani, mentre poi i singoli Stati, Francia e Regno Unito in particolare, non rinunciano al controllo delle loro rispettive aree d’influenza, retaggio dell’epoca coloniale. È sotto gli occhi di tutti, ad esempio, il legame di Parigi con alcune oligarchie africane, quali ad esempio quelle del congolese Denis Sassou Nguesso, del camerunese Paul Biya, o del gabonese Omar Bongo. Non v’è dubbio però che anche gli Stati Uniti abbiano acuito non poco le tensioni, soprattutto nella nevralgica Regione dei Grandi Laghi facendo di personaggi del calibro del ruandese Paul Kagame o dell’ugandese Yoweri Museveni alfieri d’interessi geopolitici ed economici targati Usa. Le contraddizioni fin qui brevemente accennate determinano inevitabilmente meccanismi strutturali d’ingiustizia che penalizzano fortemente i Paesi del Sud del mondo. Il fatto che Washington s’opponga alla ratifica del trattato di Roma per un Tribunale penale internazionale dimostra palesemente che quando si tratta di progredire sul cammino giuridico della pace, l’interesse nazionale della superpotenza non pare affatto coincidere col progresso e lo sviluppo globale. La mancanza d’attenzione a politiche solidaristiche, coerenti con i valori della democrazia e della libertà, esprime l’incapacità dei Paesi industrializzati a comprendere il comune destino dei popoli. Occorre pertanto insistere nella creazione di un ordine di pace duraturo, fondato sulla giustizia sociale ed economica. Purtroppo, fin quando i governi occidentali continueranno a smantellare stato sociale e stato assistenziale, nonostante l’evidenza dei fatti attesti che il liberalismo economico non è in grado di assicurare - neppure nel lungo periodo – benessere e lavoro per tutti, dovremo continuare a registrare catastrofi ben peggiori di quella che insanguina il lembo di terra compreso tra il Tigri e l’Eufrate.

Ma al di là del cumulo di tragedie che pesano sul ‘villaggio globale’, occorre intravedere segnali di speranza, del buono e del giusto, per costruire un ordine che tenga conto davvero di tutti. Non v’è dubbio, infatti, che l’unica superpotenza in grado di contrastare il monopolio dei centri di potere ‘mondocratici’ sia la società civile. Si tratta di una realtà eterogenea che và ben al di là delle etichette elargite da certa stampa genericista quali ‘no global’, ‘new global’ o ‘living democracy movement’. Si tratta di organismi non governativi, gruppi, associazioni, movimenti e sindacati, ma anche comunità ecclesiali e altre espressioni religiose, in quanto coscienze critiche disseminate nel Nord e nel Sud del mondo. A queste componenti vitali del nostro pianeta va affidato il ruolo di animare l’areopago della politica in un’ottica di ‘governance solidale’ e non di ‘governance corporate’, come nel caso del Nepad, il nuovo partenariato per lo sviluppo africano. Basterebbe soffermarsi sulle sezioni e sottosezioni del quarto capitolo del documento programmatico per capire che tra ricette, istruzioni, raccomandazioni e riferimenti a organismi internazionali (come, per esempio, il Fondo monetario internazionale) questo "accordo societario", sotto le belle parole, nasconda ancora insidie che possono contenere i semi di una sorta di neo-colonialismo sia economico sia culturale. Ecco perché s’impone l’esigenza di una società civile rappresentata ai massimi livelli, in sede Onu come anche a livello regionale o di unione. Ad essa il compito di agire per rendere efficace la diplomazia preventiva, la cooperazione multilaterale, la giustizia penale internazionale, nei casi estremi le operazioni di polizia internazionale, a condizione che queste non mascherino azioni di guerra, ma vengano attuate per decisione e sotto controllo delle Nazioni Unite, per finalità non omicide e nel rigoroso rispetto del diritto internazionale. Tornando all’Africa, sarebbe davvero auspicabile che ai summit dell’Ua vi fosse una rappresentanza permanente della società civile che ha profuso in questi anni non poche energie nel promuovere i processi di pace in varie parti del continente. Sono necessarie persone ‘libere’ che, oltre che a credere nei valori, siano sufficientemente competenti di trasfonderli nelle istituzioni politiche ed economiche. A pensarci bene, se nel processo di riconciliazione in fase di risoluzione in Sudan, tra i ribelli di John Garang e il governo di Khartoum - dove peraltro si continua a combatte alacremente nel Darfur - la società civile, Chiese in testa, fosse riconosciuta come interlocutore privilegiato, le garanzie di pacificazione sarebbero maggiori. Lo stesso vale per l’ex Zaire dove la spartizione del potere tra i signori della guerra ha fatto sì che la pace, quella vera, resti un miraggio.

(di padre Giulio Albanese)

 dal sito www.misna.org