Guardando
alle sciagure che segnano penosamente il nostro pianeta, la crisi di
governabilità è quella che forse meriterebbe una particolare
considerazione, in riferimento soprattutto alle vicende africane. Il
forum di ieri ad Addis Abeba sul dramma della fame, in quello che è
peraltro il continente più povero del mondo, e l’apertura odierna
nella capitale etiopica del vertice annuale dei capi di Stato e di
governo dell'Unione Africana (Ua), offrono alcuni spunti di
riflessione su un fenomeno sintomatico della disagevole condizione
d’interdipendenza planetaria che ha frantumato non poche sovranità
statuali. Il caso della Repubblica democratica del Congo è
certamente il più emblematico se si pensa agli appetiti suscitati
dalle immense risorse minerarie che si celano nel sottosuolo. Gli
effetti sono sotto gli occhi di tutti: diffusione della
conflittualità armata, tentazioni autoritarie di élite senza
scrupoli e insicurezza generalizzata a trecentosessanta gradi. Il
penoso risultato è poi acuito dalle ambiguità della politica
internazionale. L’Unione Europea da una parte sostiene le economie
nel segno dei diritti umani, mentre poi i singoli Stati, Francia e
Regno Unito in particolare, non rinunciano al controllo delle loro
rispettive aree d’influenza, retaggio dell’epoca coloniale. È
sotto gli occhi di tutti, ad esempio, il legame di Parigi con alcune
oligarchie africane, quali ad esempio quelle del congolese Denis
Sassou Nguesso, del camerunese Paul Biya, o del gabonese Omar Bongo.
Non v’è dubbio però che anche gli Stati Uniti abbiano acuito non
poco le tensioni, soprattutto nella nevralgica Regione dei Grandi
Laghi facendo di personaggi del calibro del ruandese Paul Kagame o
dell’ugandese Yoweri Museveni alfieri d’interessi geopolitici ed
economici targati Usa. Le contraddizioni fin qui brevemente
accennate determinano inevitabilmente meccanismi strutturali
d’ingiustizia che penalizzano fortemente i Paesi del Sud del
mondo. Il fatto che Washington s’opponga alla ratifica del
trattato di Roma per un Tribunale penale internazionale dimostra
palesemente che quando si tratta di progredire sul cammino giuridico
della pace, l’interesse nazionale della superpotenza non pare
affatto coincidere col progresso e lo sviluppo globale. La mancanza
d’attenzione a politiche solidaristiche, coerenti con i valori
della democrazia e della libertà, esprime l’incapacità dei Paesi
industrializzati a comprendere il comune destino dei popoli. Occorre
pertanto insistere nella creazione di un ordine di pace duraturo,
fondato sulla giustizia sociale ed economica. Purtroppo, fin quando
i governi occidentali continueranno a smantellare stato sociale e
stato assistenziale, nonostante l’evidenza dei fatti attesti che
il liberalismo economico non è in grado di assicurare - neppure nel
lungo periodo – benessere e lavoro per tutti, dovremo continuare a
registrare catastrofi ben peggiori di quella che insanguina il lembo
di terra compreso tra il Tigri e l’Eufrate.
Ma
al di là del cumulo di tragedie che pesano sul ‘villaggio
globale’, occorre intravedere segnali di speranza, del buono e del
giusto, per costruire un ordine che tenga conto davvero di tutti.
Non v’è dubbio, infatti, che l’unica superpotenza in grado di
contrastare il monopolio dei centri di potere ‘mondocratici’ sia
la società civile. Si tratta di una realtà eterogenea che và ben
al di là delle etichette elargite da certa stampa genericista quali
‘no global’, ‘new global’ o ‘living democracy movement’.
Si tratta di organismi non governativi, gruppi, associazioni,
movimenti e sindacati, ma anche comunità ecclesiali e altre
espressioni religiose, in quanto coscienze critiche disseminate nel
Nord e nel Sud del mondo. A queste componenti vitali del nostro
pianeta va affidato il ruolo di animare l’areopago della politica
in un’ottica di ‘governance solidale’ e non di ‘governance
corporate’, come nel caso del Nepad, il nuovo partenariato per lo
sviluppo africano. Basterebbe soffermarsi sulle sezioni e
sottosezioni del quarto capitolo del documento programmatico per
capire che tra ricette, istruzioni, raccomandazioni e riferimenti a
organismi internazionali (come, per esempio, il Fondo monetario
internazionale) questo "accordo societario", sotto le
belle parole, nasconda ancora insidie che possono contenere i semi
di una sorta di neo-colonialismo sia economico sia culturale. Ecco
perché s’impone l’esigenza di una società civile rappresentata
ai massimi livelli, in sede Onu come anche a livello regionale o di
unione. Ad essa il compito di agire per rendere efficace la
diplomazia preventiva, la cooperazione multilaterale, la giustizia
penale internazionale, nei casi estremi le operazioni di polizia
internazionale, a condizione che queste non mascherino azioni di
guerra, ma vengano attuate per decisione e sotto controllo delle
Nazioni Unite, per finalità non omicide e nel rigoroso rispetto del
diritto internazionale. Tornando all’Africa, sarebbe davvero
auspicabile che ai summit dell’Ua vi fosse una rappresentanza
permanente della società civile che ha profuso in questi anni non
poche energie nel promuovere i processi di pace in varie parti del
continente. Sono necessarie persone ‘libere’ che, oltre che a
credere nei valori, siano sufficientemente competenti di
trasfonderli nelle istituzioni politiche ed economiche. A pensarci
bene, se nel processo di riconciliazione in fase di risoluzione in
Sudan, tra i ribelli di John Garang e il governo di Khartoum - dove
peraltro si continua a combatte alacremente nel Darfur - la società
civile, Chiese in testa, fosse riconosciuta come interlocutore
privilegiato, le garanzie di pacificazione sarebbero maggiori. Lo
stesso vale per l’ex Zaire dove la spartizione del potere tra i
signori della guerra ha fatto sì che la pace, quella vera, resti un
miraggio.
(di
padre Giulio Albanese)