"Tempo Perso - Alla ricerca di senso nel quotidiano"
AFRICA
Un continente intero nella «trappola della povertà» Dai sogni infranti dello sviluppo postcolonìale al tracollo economico e i programmi di aggiustamento sociale. Storia economica dell'Africa, e qualche spiraglio. di Irene PanozzoLa
povertà in Africa sub sahariana è molto più diffusa che in altre
regioni sottosviluppate. Ciò che è peggio è che è cronica e in crescita.
La percentuale del 46% della popolazione che vive sotto la
soglia di un dollaro al giorno è più alta oggi di quanto non fosse negli
anni Ottanta e Novanta. E questo nonostante i significativi miglioramenti
nella crescita del Pil africano negli ultimi anni. Il fatto che
i tassi di povertà del continente africano siano rimasti sostanzialmente
stabili negli ultimi vent'anni, diversamente da quanto accaduto in
altre regioni del mondo, e che la disoccupazione nel continente
sia tra le più alte al mondo (superata solo da quella del Nord
Africa e del Medio Oriente) significa in termini reali che oggi
gli africani che soffrono la fame sono almeno 61 milioni in più
rispetto al 1990. Con questi desolanti dati si apre il Rapporto economico
sull'Africa del 2005, preparato dalla Commissione economica per
l'Africa delle Nazioni Unite. Dati che preoccupano. Cosa non ha
funzionato? Governi, istituzioni internazionali, economisti
continuano a chiederselo, in un dibattito sempre aperto e molto acceso.
Dare una risposta non è quindi nelle nostre possibilità. Ma e
possibile tracciare le linee lungo le quali le economie africane si sono
mosse dal l'indipendenza a oggi. Le
speranze post-indipendenza. Al momento dell'accesso all'indipendenza
nazionale del maggior numero dei paesi dell'Africa sub sahariana,
all'inizio degli anni Sessanta, le speranze che i nuovi stati
fossero in grado in breve tempo di risolvere i loro problemi di
sottosviluppo e garantire ai propri cittadini migliori standard di
vita erano grandi. E sembravano essere anche fondate. Durante il
deceunio precedente le economie africane avevano vissuto un vero e
proprio boom, trainate dal forte aumento dei prezzi mondiali delle
materie prime necessarie alla ricostruzione postbellica. Seguendo la scia
degli anni Cinquanta, quasi tutti i nuovi governi dei “soli delle
indipendenze” adottarono strategie di sviluppo finalizzate a dare
un forte impulso alla produzione di materie prime per l'esportazione, fossero
queste prodotti agricoli o minerari. Le entrate provenienti dalla
loro vendita sui mercati internazionali dovevano servire per diversificare
la produzione economica e investire in istruzione, sanità,
infrastrutture e altri servizi. Per
buona parte degli anni Sessanta, la strategia adottata ha dato
dei risultati, anche se non eccelsi come in molti speravano. Il crollo
era però dietro l'angolo ed è arrivato puntuale con la crisi
dei prezzi del petrolio all'inizio degli anni Settanta. I programmi
di modernizzazione e industrializzazione che buona parte dei paesi africani
avevano adottato nel deceunio precedente dipendevano in
larghissima parte dalla disponibilità di energia a prezzi
accessibili. Nell'arco di pochi anni quindi i trend di sviluppo
subirono un arresto prima e un'inversione di tendenza poi. A sud del
Sahara, solo Nigeria, Gabon, Congo Brazzaville e Angola già
producevano petrolio in proprio. Ma neanche questi paesi rimasero
completamente immuni dall'effetto negativo della crisi. Anche perche
la fase depressiva che colse tutta l'economia mondiale fece diminuire la domanda
e quindi i prezzi delle altre materie prime, quelle sulla cui
esportazione l'Africa viveva. Il
tracollo degli anni Settanta. Ai problemi più stretta mente
economici sì aggiunsero in molti casi difficoltà politiche molto
serie: colpi di stato, corruzione ampiamente diffusa, focolai di conflitti
o vere e proprie guerre civili hanno spesso impedito di dare
continuità ai programmi adottati, provocando allo stesso tempo
una continua emorragia di risorse. A peggiorare ulteriormente la
situazione, durante gli ami Settanta diveune evidente che molti paesi
non riuscivano a sfamare la propria popolazione, dovendo così spendere
parte delle entrate derivanti dalle esportazioni per importare generi
alimentari. La crisi alimentare era dovuta essenzialmente a tre
motivi: la crescita esponenziale della popolazione, la scarsa o
nulla attenzione data negli anni Sessanta allo sviluppo dell'agricoltura,
soprattutto quella diretta al consumo interno e in alcune regioni
come il Sahel o il Corno d'Africa ricorrenti fattori climatici
negativi. Aggiustamento
strutturale. Nel 1979, la svolta. Secondo le statistiche di
quell'anno, venticinque paesi dell'Africa subsahariana erano tra gli stati
più poveri al mondo e avcvano un reddito annuale pro capite tra i
110 e i 370 dollari. In quello stesso anno il Senegal riceve un
prestito dalla Banca Mondiale, il primo nell'intero continente a
prevedere anche un programma di aggiustamento strutturale (Pas). Da
allora, i Pas sono rimasti per più di vent'anni il principale
strumento di intervento delle istituzioni finanziarie internazionali
in Africa. Imponendo così a vari paesi misure congiunturali di
austerità (taglio della spesa pubblica, aumento delle imposte) e
misure strutturali come privatizzazioni e liberalizzazioni. «Per
pareggiare il bilancio in breve tempo», sottolinea Aminata Traorè,
ex ministro della cultura del Mali, nel suo L'immaginario
violato, «questi paesi sono costretti a sacrificare investimenti
a lungo termine, il che condiziona le loro possibilità di
progresso, mentre le loro economie poco competitive sono esposte alla
concorrenza dei paesi più sviluppati». La
critica di Traoré, diventata una dei leader della lotta africana contro
la globalizzazione e dei Forum sociali mondiali, all'operato di Banca
Mondiale e Fondo Monetario Internazionale non è isolata. E’ anzi
condivisa da molti economisti e politici, che raramente
aderiscono all'opposizione di Traoré alla globalizzazione e al liberismo.
«All'alba del ventunesimo secolo», fa notare Nicolas van de
Walle, professore di scienze politiche alla Michigan State
University e autore di African economies and the politics of permanent
crisis, 1979-1999, «la maggior parte dei paesi dell'Africa
subsahariana non ha ancora superato i deficit fiscali e commerciali
che hanno compromesso la loro stabilità economica fin dalla prima
crisi petrolifera». La tesi di van de WaIle è che parte della
colpa del fallimento delle riforme imposte dall'esterno ai paesi
africani sia da ascrivere direttamente al carattere «neopatrimoniale» di
questi stati, fatti di clientelismo dilagante, particolari dinamiche
di esercizio del potere e debolezza delle istituzioni. «I programmi
di riforma delle politiche economiche non hanno alterato i problemi
profondi che minano la crescita e gli investimenti, dal limitato
potere dello stato e la corruzione endemica al serio
deterioramento delle infrastrutture pubbliche». Anzi, se possibile
hanno fatto peggio, contribuendo di fatto a mantenere lo status quo. La
nuova fase di crescita economica del continente, iniziata a partire
circa dal 2000, non ha posto fine al dibattito sul ruolo degli aiuti
e dei programmi di riforma, come anche quello sugli strumenti da
adottare per uscire dall'impasse. Anche perché, nonostante le
statistiche rignardanti il Pil, la maggior parte dei paesi africani
si trova ancora impantanata nella «trappola della povertà». testo integrale tratto da "Il Riformista" - 29 agosto 2006 |