"Tempo Perso - Alla ricerca di senso nel quotidiano"

Il ritorno dei vecchi saggi
di Vittorio Zucconi

Eutanasia di una guerra. Come togliere la spina al disastro in Iraq senza ammetterlo. Non è una terapia, quella offerta dal documento bipartitico scritto da dieci vecchi "saggi" della politica americana repubblicana e democratica per un annaspante Bush, perché il paziente Iraq è ormai incurabile, è un´accettazione della realtà. La novità vera di questo piano conosciuto da giorni, in una Washington che perde personale, documenti e indiscrezioni come sempre accade quando il potere centrale è allo sbando, non è nelle indicazioni pratiche, piuttosto sibilline e ambigue.È nella constatazione che sono finalmente tornati al centro dell´elaborazione strategica e politica americana gli adulti, richiamati in servizio per rimediare ai guasti degli ideologi esaltati che avevano pilotato Bush dopo lo choc dell´11 settembre. Il ritorno degli adulti in casa è una buona notizia, fra tante cattive, per gli Stati Uniti, e per noi che apparteniamo al campo delle democrazie occidentali e siamo costretti ad ammettere una sconfitta ma non possiamo permettere che essa appaia come una vittoria per i demoni che l´America ha moltiplicato nell´illusione di annientarli. Come ha riconosciuto davanti al Senato degli Stati Uniti Robert Gates, l´ex capo della Cia chiamato a sostituire il massimo architetto della catastrofe, Donald Rumsfeld, questa è una guerra che l´America non sta vincendo, ma che non può perdere. È naturale che da un dilemma così spaventoso, che ricorda quei paradossi teologici insegnati nelle scuole rabbiniche dove si chiede se Dio onnipotente possa costruire una trappola dalla quale non sa poi come uscire, non esistano via di fuga rettilinee, facili e accettabili. Se fossero esistite, dopo una guerra durata ormai più del Secondo Conflitto mondiale, questa amministrazione l´avrebbe già imboccata. Infatti neppure il "panel" dei dieci "wise men", dei dieci re magi convenuti attorno alle rovine della dottrina Bush l´ha indicata. La commissione Baker, dal nome di uno dei due copresidenti accanto al democratico Lee Hamilton, non aveva la pretesa di sostituirsi a un governo e a un Parlamento che hanno il compito costituzionale di condurre la politica estera e militare degli Stati Uniti. Il suo scopo e il suo senso, ben dichiarati, erano di offrire una copertura bipartitica, una foglia di fico consensuale, dietro le quali il governo avrebbe potuto prendere le amarissime decisioni che ora dovrà prendere, senza temere le pugnalate alle spalle dell´opposizione. E di tutte le scelte indicate, nessuna è più indigesta e insieme inevitabile per Bush che quell´invito a trattare con gli "stati canaglia", con i regimi confinanti, compresa quell´Arabia Saudita che tiene, nel proprio portafoglio e nella propria ambiguità, le chiavi di molti misteri e di molte soluzioni. Era stato proprio James Baker, già segretario di Stato con papà Bush e avvocato della famiglia che pilotò la vittoria del figlio Bush fra i tribunali fino alla Corte Suprema nel 2000, a dire la scorsa estate quella verità ovvia che soltanto la ubriacatura ideologica poteva far apparire clamorosa: «È con i nemici che si negozia, non con gli amici». Questa banalità apparve scandalosa perché contraddiceva e contraddice il fondamento di tutta la cosiddetta dottrina Bush che non era la imbarazzante caccia a moscacieca delle armi di Saddam o l´inseguimento del sempre liberissimo «sceicco del terrore», ma era il dogma dell´effetto domino virtuoso. Era la assoluta certezza, espressa con cieca fede ideologica dai promotori, il vice presidente Dick Cheney e il suo governo ombra in testa, che cambiare il regime in Iraq, spazzare via l´orrido Saddam e organizzare un´elezione popolare con grande fanfara pubblica, avrebbero contagiato l´intera regione, provocando la sollevazione dei popoli vicini oppressi dai turbanti dell´islamofascista o dai despoti del petrolio. L´avvento di un Medio Oriente democratico sarebbe stata la migliore assicurazione contro la metastasi del terrorismo. E, cadute le "canaglie", anche l´insoluto e ignorato (da Bush) rompicapo del conflitto fra palestinesi e israeliani si sarebbe naturalmente, quasi spontaneamente risolto, nella sicurezza raggiunta da Israele non più circondato da autocrati e ceffi fanatici. Cinque anni più tardi, non soltanto quei regimi non sono crollati, e la questione palestinese, che gli "adulti" risollevano finalmente, ma si sono fatti più che mai aggressivi e temibili. Iran e Siria muovono sfacciatamente le proprie marionette nel teatro dell´horror iracheno, minacciano la sola vera democrazia nata in quella zona, il Libano, millantando prossimi arsenali nucleari e seminando la paura in quel regno Saudita che si regge sul precario trespolo della propria immensa ricchezza e del doppio gioco tra fondamentalismo estremista e petrodollari. Non sono stati dunque i regimi da cambiare a cedere, ma è l´America che dovrebbe - che forse già deve, sotto banco - scendere a patti con coloro che aveva promesso di rovesciare. Si capisce bene, dunque, perché Bush sia turbato da questo rapporto che soltanto chi ha vissuto nell´isolamento della propria corte può giudicare "molto duro". Questa sarebbe per lui molto più della seconda sconfitta militare nella storia degli Stati Uniti, dopo il Vietnam. Lasciare l´Iraq al proprio destino, in balia della forze barbariche che ogni giorno lo insanguinano, significherebbe lasciare il nostro mondo meno sicuro di come fu trovato da lui, accettare una disfatta che il terrorismo pretenderà essere globale e non soltanto territoriale, come fu in Indocina. L´Iraq è diventato, e non lo era, quel nido di terroristi, quel campo di addestramento per tagliatori di teste e kamikaze, che prima non c´era e che Washington aveva promesso di annientare. Allora, si barcamena il rapporto Baker-Hamilton, ci si deve ritirare, ma senza ritirarsi, fidarsi dell´imbelle governo iracheno senza davvero fidarsi, armare sul serio l´esercito di Bagdad sospettando però che quelle stesse armi americane potranno domani sparare contro gli americani, trattare con le canaglie senza ammettere di trattare con le canaglie, mandare altre truppe ma chiuderle dentro i forti americani come le giubbe blu lungo i sentieri del vecchio West, creare scadenze temporali per misurare i tempi del ritiro ma senza dire di avere creato scadenze temporali e sperare, "hope against all hope", speranza contro ogni speranza, che siano i "malvagi" a mostrarsi più responsabili dei «buoni», permettendo una ritirata che non sembri una ritirata al nemico americano e tenendo a freno i propri agenti di terrore. Non poteva perciò essere una commissione di onorabili esperti bipartisan, costretti a tenere i piedi in tutte le scarpe, a trovare la via di uscita sicura dalla trappola nella quale il signore della Casa Bianca si cacciò, quando ignorò i consigli del padre, che si era fermato sulla via di Bagdad prevedendo esattamente quello che sarebbe accaduto, per mostrasi migliore di lui. Gli adulti si sono limitati a dire cose di buon senso, a suggerire scelte, non dogmi, e a confermare la realtà che ogni presidente americano, democratico o repubblicano, interventista o isolazionista, sempre incontra. Tutti salgono alla Casa Bianca persuasi o di poter ignorare il mondo o di cambiarlo a proprio piacere. E alla fine è il mondo che irrompe da oltre gli oceani e cambia loro.

 testo integrale pubblicato da  "La Repubblica" -  7 dicembre 2006