"Tempo Perso - Alla ricerca di senso nel quotidiano"
Il
ritorno dei vecchi saggi Eutanasia di una guerra. Come togliere la
spina al disastro in Iraq senza ammetterlo. Non è una terapia, quella
offerta dal documento bipartitico scritto da dieci vecchi
"saggi" della politica americana repubblicana e democratica per
un annaspante Bush, perché il paziente Iraq è ormai incurabile, è un´accettazione
della realtà. La novità vera di questo piano conosciuto da giorni, in
una Washington che perde personale, documenti e indiscrezioni come sempre
accade quando il potere centrale è allo sbando, non è nelle indicazioni
pratiche, piuttosto sibilline e ambigue.È nella constatazione che sono
finalmente tornati al centro dell´elaborazione strategica e politica
americana gli adulti, richiamati in servizio per rimediare ai guasti degli
ideologi esaltati che avevano pilotato Bush dopo lo choc dell´11
settembre. Il ritorno degli adulti in casa è una buona notizia, fra tante
cattive, per gli Stati Uniti, e per noi che apparteniamo al campo delle
democrazie occidentali e siamo costretti ad ammettere una sconfitta ma non
possiamo permettere che essa appaia come una vittoria per i demoni che l´America
ha moltiplicato nell´illusione di annientarli. Come ha riconosciuto
davanti al Senato degli Stati Uniti Robert Gates, l´ex capo della Cia
chiamato a sostituire il massimo architetto della catastrofe, Donald
Rumsfeld, questa è una guerra che l´America non sta vincendo, ma che non
può perdere. È naturale che da un dilemma così spaventoso, che ricorda
quei paradossi teologici insegnati nelle scuole rabbiniche dove si chiede
se Dio onnipotente possa costruire una trappola dalla quale non sa poi
come uscire, non esistano via di fuga rettilinee, facili e accettabili. Se
fossero esistite, dopo una guerra durata ormai più del Secondo Conflitto
mondiale, questa amministrazione l´avrebbe già imboccata. Infatti
neppure il "panel" dei dieci "wise men", dei dieci re
magi convenuti attorno alle rovine della dottrina Bush l´ha indicata. La
commissione Baker, dal nome di uno dei due copresidenti accanto al
democratico Lee Hamilton, non aveva la pretesa di sostituirsi a un governo
e a un Parlamento che hanno il compito costituzionale di condurre la
politica estera e militare degli Stati Uniti. Il suo scopo e il suo senso,
ben dichiarati, erano di offrire una copertura bipartitica, una foglia di
fico consensuale, dietro le quali il governo avrebbe potuto prendere le
amarissime decisioni che ora dovrà prendere, senza temere le pugnalate
alle spalle dell´opposizione. E di tutte le scelte indicate, nessuna è
più indigesta e insieme inevitabile per Bush che quell´invito a trattare
con gli "stati canaglia", con i regimi confinanti, compresa
quell´Arabia Saudita che tiene, nel proprio portafoglio e nella propria
ambiguità, le chiavi di molti misteri e di molte soluzioni. Era stato
proprio James Baker, già segretario di Stato con papà Bush e avvocato
della famiglia che pilotò la vittoria del figlio Bush fra i tribunali
fino alla Corte Suprema nel 2000, a dire la scorsa estate quella verità
ovvia che soltanto la ubriacatura ideologica poteva far apparire
clamorosa: «È con i nemici che si negozia, non con gli amici». Questa
banalità apparve scandalosa perché contraddiceva e contraddice il
fondamento di tutta la cosiddetta dottrina Bush che non era la
imbarazzante caccia a moscacieca delle armi di Saddam o l´inseguimento
del sempre liberissimo «sceicco del terrore», ma era il dogma dell´effetto
domino virtuoso. Era la assoluta certezza, espressa con cieca fede
ideologica dai promotori, il vice presidente Dick Cheney e il suo governo
ombra in testa, che cambiare il regime in Iraq, spazzare via l´orrido
Saddam e organizzare un´elezione popolare con grande fanfara pubblica,
avrebbero contagiato l´intera regione, provocando la sollevazione dei
popoli vicini oppressi dai turbanti dell´islamofascista o dai despoti del
petrolio. L´avvento di un Medio Oriente democratico sarebbe stata la
migliore assicurazione contro la metastasi del terrorismo. E, cadute le
"canaglie", anche l´insoluto e ignorato (da Bush) rompicapo del
conflitto fra palestinesi e israeliani si sarebbe naturalmente, quasi
spontaneamente risolto, nella sicurezza raggiunta da Israele non più
circondato da autocrati e ceffi fanatici. Cinque anni più tardi, non
soltanto quei regimi non sono crollati, e la questione palestinese, che
gli "adulti" risollevano finalmente, ma si sono fatti più che
mai aggressivi e temibili. Iran e Siria muovono sfacciatamente le proprie
marionette nel teatro dell´horror iracheno, minacciano la sola vera
democrazia nata in quella zona, il Libano, millantando prossimi arsenali
nucleari e seminando la paura in quel regno Saudita che si regge sul
precario trespolo della propria immensa ricchezza e del doppio gioco tra
fondamentalismo estremista e petrodollari. Non sono stati dunque i regimi
da cambiare a cedere, ma è l´America che dovrebbe - che forse già deve,
sotto banco - scendere a patti con coloro che aveva promesso di
rovesciare. Si capisce bene, dunque, perché Bush sia turbato da questo
rapporto che soltanto chi ha vissuto nell´isolamento della propria corte
può giudicare "molto duro". Questa sarebbe per lui molto più
della seconda sconfitta militare nella storia degli Stati Uniti, dopo il
Vietnam. Lasciare l´Iraq al proprio destino, in balia della forze
barbariche che ogni giorno lo insanguinano, significherebbe lasciare il
nostro mondo meno sicuro di come fu trovato da lui, accettare una disfatta
che il terrorismo pretenderà essere globale e non soltanto territoriale,
come fu in Indocina. L´Iraq è diventato, e non lo era, quel nido di
terroristi, quel campo di addestramento per tagliatori di teste e
kamikaze, che prima non c´era e che Washington aveva promesso di
annientare. Allora, si barcamena il rapporto Baker-Hamilton, ci si deve
ritirare, ma senza ritirarsi, fidarsi dell´imbelle governo iracheno senza
davvero fidarsi, armare sul serio l´esercito di Bagdad sospettando però
che quelle stesse armi americane potranno domani sparare contro gli
americani, trattare con le canaglie senza ammettere di trattare con le
canaglie, mandare altre truppe ma chiuderle dentro i forti americani come
le giubbe blu lungo i sentieri del vecchio West, creare scadenze temporali
per misurare i tempi del ritiro ma senza dire di avere creato scadenze
temporali e sperare, "hope against all hope", speranza contro
ogni speranza, che siano i "malvagi" a mostrarsi più
responsabili dei «buoni», permettendo una ritirata che non sembri una
ritirata al nemico americano e tenendo a freno i propri agenti di terrore.
Non poteva perciò essere una commissione di onorabili esperti bipartisan,
costretti a tenere i piedi in tutte le scarpe, a trovare la via di uscita
sicura dalla trappola nella quale il signore della Casa Bianca si cacciò,
quando ignorò i consigli del padre, che si era fermato sulla via di
Bagdad prevedendo esattamente quello che sarebbe accaduto, per mostrasi
migliore di lui. Gli adulti si sono limitati a dire cose di buon senso, a
suggerire scelte, non dogmi, e a confermare la realtà che ogni presidente
americano, democratico o repubblicano, interventista o isolazionista,
sempre incontra. Tutti salgono alla Casa Bianca persuasi o di poter
ignorare il mondo o di cambiarlo a proprio piacere. E alla fine è il
mondo che irrompe da oltre gli oceani e cambia loro. testo integrale pubblicato da "La Repubblica" - 7 dicembre 2006 |