"Tempo Perso - Alla ricerca di senso nel quotidiano"

CHIESA

Una Cei 

più collegiale 

di Giancarlo Zizola 

Il cambio del presidente della Conferenza Episcopale Italiana, con la nomina pontificia del 7 marzo dell'arcivescovo di Genova Angelo Bagnasco al posto occupato per sedici anni dal Cardinale Camillo Ruini, è stato presentato da alcuni fra i maggiori media italiani come un prodotto del classico gatto­pardismo ecclesiastico, secondo cui «si cambia affinché tutto resti come prima». In molti articoli è ricorso un paradigma conservatore della «continuità» e una tendenza a ridurre il significato della nomina ad una sostanziale ripetizione della linea precedente, se non a una subalternità, persino nella riproduzione dell'equivoco fra Chiesa pubblica (nel senso di soggetto a pieno titolo partecipe del dibattito pubblico su beni pubblici essenziali) e Chiesa politica (nel senso di un soggetto che invade l'autonomia del politico dettando o elaborando le leggi dello Stato). 

Una lettura più indipendente avrebbe forse portato ad intravedere, come in ogni fase di passaggio, elementi insieme di novità e di continuità. Per la Chiesa cattolica in Italia si tratta di continuare a essere presente nel dibattito pubblico del Paese e al tempo stesso di trovare nuove modalità per recuperare il dialogo con le coscienze delle persone. Molti hanno percepito nella scelta di Bagnasco una qualificazione pastorale che costituisce una garanzia per questo ruolo formativo della Chiesa nello sviluppo complessivo della società italiana, al di là di interessi più corti. 

Del resto, non si potrebbe ignorare che la tradizione della Chiesa è costituita certo da fedeltà al deposito della Fede ma non è esente da discontinuità e svolte nell' ordine delle mediazioni storiche, anzi spesso si è verificato nella storia della Chiesa che le innovazioni di oggi sono le tradizioni di domani, nel tentativo di un approfondimento instancabile delle Verità Rivelate. 

 

Chi è Bagnasco 

Per valutare meno superficialmente la portata della decisione di Benedetto XVI, in attesa di vedere all'opera il suo leader della Cei, sarà anzitutto necessario - crediamo - analizzare il percorso ecclesiastico del neo-presidente, che qui sintetizziamo brevissimamente: nato nel '43 da una famiglia umile, del quartiere del Molo, è prete nel '66, nel primo post-concilio, ordinato dal cardinale Siri, suo mentore, dal quale trae un'intelaiatura teologica tradizionale, congiunta ad un rigoroso attaccamento al primato dello Spirituale. Per vent' anni cappellano in una parrocchia di Genova, si laurea in filosofia alla Statale della sua città, dove svolge anche incarichi come assistente degli scout e della Fuci. Continua a coltivare interessi filosofici, nel confronto tra la metafisica classica e le sfide dell'ateismo contemporaneo. Infine nel '98 è vescovo di Pesaro, dal 2003 vicario castrense per l'Italia e dall'agosto 2006 arcivescovo di Genova al posto del cardinale Tarcisio Bertone, divenuto segretario di Stato, che ha nei suoi riguardi antichi vincoli di stima. 

Lo si descrive di carattere riservato, poco incline alle apparenze mediatiche, misurato nelle parole, meditativo, nello stile sobrio di Ratzinger, ma allo stesso tempo aperto al dialogo e molto sensibile ai bisogni della gente, specialmente dei più poveri. Un percorso, par di capire, ancorato all' esperienza pastorale unitamente alla riflessione teologica e al vissuto drammatico del vescovo militare. Questa rappresenta senza dubbio, nella crisi esplosiva del regime di cristianità, la figura più critica del rapporto tra il Vangelo della non-violenza e un mondo di «guerra infinita», guerra che, per i caratteri strutturali che sta assumendo, si costituisce in un'autentica fonte di ateismo globale, precisamente per l'abusivo riferimento al «Dio della guerra». 

In secondo luogo, vanno a nostro parere soppesate le parole ben meditate, di forte contenuto programmatico, pronunciate da Bagnasco in occasione della sua nomina. Alcune di esse hanno riguardato l'opera di Ruini, e non solo in termini convenzionali: la Chiesa italiana gli deve gratitudine ­ha detto Bagnasco - per essere stata messa «in grado di crescere nella consapevolezza della propria fede, della missione evangelizzatrice cui è chiamata e della necessità di essere presente nella storia e nel mondo come luce e sale». Un riconoscimento che include anche un'interpretazione, un approccio selettivo su cui impiantare una possibile continuità, in modo dunque non indiscriminato, per accompagnare senza strappi l'uscita della Chiesa dal regime di cristianità. 

 

Più voce ai vescovi 

Quanto al proprio mandato quinquennale, il neo-presidente si è riferito, nelle prime dichiarazioni pubbliche, alle «autorevoli indicazioni» ricevute da Benedetto XVI. Tra queste linee-guida spicca il ripristino di prassi collegiali nella direzione dell'episcopato, riflesso del disagio diffuso tra i vescovi per le condotte autocratiche e l'accentramento monolitico dei poteri verificatisi sotto il regime ruiniano. Con insistenza Bagnasco ha fatto osservare che la Cei «è un organismo di collegialità e di fraternità dei vescovi in stretta comunione con il papa, che è vescovo di Roma e primate d'Italia, la cui parola e indirizzo sono estremamente importanti e illuminanti, chiaro riferimento per tutti». È tornato poco dopo a sottolineare che «i vescovi italiani, nella loro collegialità, guardano alla parola del papa, guardano alle loro Chiese locali», La Cei - ha sostenuto ­ è «struttura di comunione e di servizio per la fraternità episcopale, per il discernimento delle sfide contemporanee, nonché dei grandi orientamenti pastorali che vengono declinati dai pastori nelle concrete realtà diocesane». 

Il nuovo presidente ha sottolineato anche che «ogni atto della Conferenza episcopale ha una meditata indole pastorale ed ha sempre a cuore il bene di tutti»: un'osservazione che sembra rassicurare quanti hanno temuto atti episcopali meno universali, in quanto più direttamente coinvolgenti sul piano politico. 

Si può presumere dunque che, se queste premesse verranno mantenute, potrebbero trovare conferma nella realtà le aspettative che il nuovo presidente dia maggiore spazio e voce ai vescovi, sui quali si è ritorta l'assenza di reale dibattito interno protrattasi per un ventennio e il conformismo delle obbedienze passive, prodotto di una stagnazione che ha omologato sull'unica voce del capo Cei dei suoi media ufficiali) la variegata complessità del cattolicesimo italiano e il campo legittimo dell'opinabile tra i credenti. Forse un'autorità capace di riaccendere la vitalità dei vissuti plurali della fede cristiana nel territorio e nelle sue storie reali e differenti potrebbe dare ragione al cattolicesimo italiano meglio di quanto potrebbe la pretesa di una torre univoca e solitaria, chiusa nel castello burocratico di un apparato ministeriale a Roma. 

In questa direzione andrebbe considerata anche la decisione del papa di ripristinare la prassi dei presidenti della Cei dell' era prima di Ruini, che restavano radicati nelle rispettive diocesi: così Siri a Genova, Urbani a Venezia, Poma a Bologna, Ballestrero a Torino. Anche Bagnasco resta arcivescovo a Genova, a significare una priorità del radicamento pastorale e della centralità delle Chiese locali rispetto ad una dimensione prevalentemente centralista e burocratizzata. 

 

Attenzione all'Uomo, non al Trono 

Come ho detto, il suo mandato sarà quinquennale, tornando al termine statutario normale, evitando quei cumuli e proroghe che inevitabilmente finiscono per configurarsi come appesantimenti verticistici poco favorevoli alla creatività, se è vera la massima antica: a suetis non fit passio, dalle abitudini non arriva la passione.

Per la nomina del nuovo presidente della Cei Benedetto XVI aveva innovato la prassi, che lasciava il papa arbitro supremo della decisione, quando per tutte le altre conferenze episcopali del mondo il presidente viene eletto dall'assemblea. Il papa aveva fatto consultare tutti i vescovi italiani affinché designassero liberamente tre nomi preferiti sui quali egli avrebbe poi scelto la persona da nominare. La lettera con cui il nunzio dava esecuzione a questa disposizione pontificia, nel senso della democrazia, doveva restare segreta, ma si venne a sapere da fonti di indiscutibile sicurezza che il documento, evidentemente non troppo gradito all'establishment, era stato comunicato da un fax della Cei alla direzione dell'Ansa e di qui portato a conoscenza dell'opinione pubblica, per un evidente tentativo di siluramento. Malgrado ciò il referendum si poté concludere nel luglio 2006 con la designazione di una terna di nomi, che rappresentavano una linea differente da quella invalsa con la presidenza Ruini. Sembra certo che in quella terna non figurasse il nome di Bagnasco, emerso più tardi come una figura di compromesso, particolarmente sostenuta dal Segretario di Stato cardinale Bertone, al fine di riportare rapidamente la Chiesa italiana sulla linea spirituale chiaramente delineata dal papa. 

In questo alveo merita di sottolineare l'affermazione fatta da Bagnasco nel saluto ai funzionari della Cei 1'8 marzo, quando ha detto, con molta efficacia: «Non siamo alleati di alcun trono, siamo alleati dell'uomo», riprendendo il tema conciliare della «Gaudium et Spes» già citato nel suo primo messaggio da presidente: «Nessuna situazione difficile vede la Chiesa lontana o indifferente: essa è alleata dell'uomo». Il che parrebbe prefigurare una segnaletica di cambiamento di toni proprio sulla soglia critica del rapporto tra fede e storia, tra Chiesa e politica. 

 

un ruolo critico per la Chiesa 

Nell'intervista ad Avvenire (11 marzo 2007), nella quale ha presentato le linee principali della sua Visione, il neopresidente ha sostenuto che «va sfatato il pregiudizio delle presunte mire egemoniche, come se la Chiesa volesse mettersi alla guida del paese». E ha spiegato che «proprio perché non ha di mira se stessa la Chiesa è ancora più libera di parlare del bene della persona e della società». Su questa difesa dei valori fondativi della società anche Bagnasco si propone di non recedere: «se la Chiesa cercasse la propria gloria - dice - asseconderebbe la corrente, non la risalirebbe». 

Dunque ciò che emerge è una figura di Chiesa che assume per sé un compito critico nei confronti dell'iperliberismo individualista di oggi, per ricordare che «la libertà non è un assoluto, l'individuo non vive da solo ma è continuamente in relazione», altrimenti si finirebbe con un altro totalitarismo, con una frana della società sulla via dell'implosione: l'assoluta libertà, sciolta da ogni vincolo, è - teme Bagnasco - la premessa per qualsiasi for­ma di violenza, sopraffazione e conflitto. 

Di qui la necessità che «la cultura riconosca il senso del limite» per scongiurare la ricaduta in nuovi totalitarismi. 

A proposito delle unioni di fatto, Bagnasco ha detto: «Nessuna condanna per le convivenze, è inaccettabile invece creare un nuovo soggetto di diritto pubblico che si veda assegnato diritti e tutele in analogia alla famiglia». 

 

Un bilancio dell' era Ruini 

Cominciata nel 1983 con la carica di segretario generale della Conferenza episcopale italiana, proseguita al vertice dal 1991, per tre mandati consecutivi di presidente e ulteriori proroghe, l'era di Camillo Ruini che si è appena conclusa si imprime nella storia della Chiesa cattolica in Italia come quella di una transizione tra l'età del riformismo conciliare, - l'età di Paolo VI e del suo console per l'Italia monsignor Enrico Bartoletti - e l'epoca della Chiesa «pubblica» di Papa Wojtyla e del suo progetto di <<nuova cristianità». Sotto Ruini crolla coi Muri anche la Dc, pilastro del mondo cattolico italiano, ed è lui a tentare fino all'ultimo di farla sopravvivere a se stessa.

È questo pallido prelato emiliano, dal viso di intellettuale a corto di sonno ma dalla spina dorsale di un manager più che di un leader (secondo alcuni, col suo realismo egli avrebbe fatto le fortune di qualsiasi partito politico), è lui che governa il progetto italiano di un'uscita indolore dal regime di cristianità colpito da una crisi storica radicale. Di qui l'espansione neoconcordataria della presenza della Chiesa nella società, mediante un corredo di nuovi privilegi pubblici, ancora l'ora di religione confessionale nella scuola statale e un Otto per Mille di sicurezza mai così alta per un clero nazionale. 

Di qui lo sviluppo dei nuovi Movimenti ecclesiali, una galassia che contiene al minimo i costi della perdita del potere politico moltiplicando il presenzialismo cattolico nei gangli capillari della società, in particolare nel Terzo Settore. Di qui il «progetto culturale» con cui Ruini tenta di incarnare in un disegno antropologico ciò che rimane del «mondo cattolico», per dare legittimità e dignità culturale al vecchio e ormai impresentabile blocco clericale. 

Si è ben constatato come la Chiesa in Italia abbia marciato all' ombra del duo Wojty­la-Ruini nella prospettiva di forgiare, grazie alla sua presenza sociale e alla sua incisività culturale, una identità credibile nel tessuto civile, nel tentativo di influenzare col proprio stock di valori etici l'orientamento antropologico della società, in dialogo con le istituzioni e le forze politiche. 

 

Tra Triregno e Piviale 

Una prospettiva, per cercare di riassumere, tale da permettere alla Chiesa istituzionale, al meglio dell'ipotesi, di rimanere una forza sociale consistente e centrale nella società italiana ed europea, valorizzando quel fondo di eredità cristiana che viene considerato un dato strutturale, ben radicato e insostituibile della cultura diffusa del Paese. 

Per converso, si è provveduto a ridefinire lo statuto politico dell'intervento della Chiesa come quello proprio di un potere arbitrale e superiore che offre il suo contributo alla attenuazione delle conflittualità del confronto politico favorendo l'emergere di posizioni più moderate nello scenario politico del Paese. 

Il vertice gerarchico ha assunto in proprio le mediazioni nell' ordine culturale e politico e le ha convogliate sull'obiettivo strategico di una forte riaffermazione della <<nostra identità spirituale e culturale, anche espandendo il magistero etico nei terreni coperti dall'autonomia della sfera politica in una società plurali sta, ove si ritenessero revocati in dubbio dei beni primari in particolare nell'area del diritto alla vita. 

L'esito di questa grandiosa operazione di modernizzazione dell'antico apparato è una Chiesa che si fa soggetto forte della difesa di un nucleo di valori umani in una società confusa, ma è un esito controverso per quell'ala del cattolicesimo che aveva attinto dalla spinta del Concilio la speranza di un cristianesimo rinascente sulle ceneri della cristianità costituita per il quale una Chiesa «pubblica» non significa una Chiesa «politica» e meno ancora una Chiesa «parlamentare» che detta legge e perfino le leggi dello Stato. 

Per i «conciliari» (e per i «martiniani» in modo specifico) solo rispettando le autonomie della storia la Chiesa potrebbe attenersi al suo compito di «anima del mondo» e così concentrarsi sulla formazione delle coscienze, che sono il suo tesoro irrinunciabile. 

Ricristianizzare l'Italia a colpi di decreti legge è, per quest' ala della Chiesa, una grossa tentazione, più ancora una illusione. Da questo punto di vista, la Chiesa non avrebbe nulla da guadagnare dalle larghezze dei poteri stabiliti, col rischio di dare l'impressione di essere tornata portatrice di una ideologia ufficiale onnipresente. Non avrebbe nulla da guadagnare dalla pretesa di tornare ad una forma aggiornata di religione di Stato, nel ruolo di rifondatrice del legame sociale e di contenitore di una civiltà. 

Non sono pochi i vescovi che militano per questa visione del compito pubblico sì, ma spirituale della Chiesa, se è vero che sono stati maggioritari nel referendum indetto da Benedetto XVI tra i vescovi italiani per la designazione del successore di Ruini. La terna emersa dalla consultazione indicava al papa unicamente nomi simbolici di un ritorno alla Chiesa «spirituale», del resto omogenea alle opzioni di un pontefice che nella prima enciclica, e poi al convegno ecclesiale di Verona, ha nettamente differenziato il cattolicesimo dal rango delle religioni politiche, fino ad affermare che «la Chiesa non può e non deve mettersi al posto dello Stato, non può e non deve prendere nelle sue mani la battaglia politica». Con Ruini si sarebbe dunque riproposta una forma di Chiesa che, per riprendere il ' dilemma medioevale, si sarebbe applicata piuttosto a ripulire dalla polvere il triregno che a indossare il piviale, fino a mirare a conseguire posizioni di potenza culturale e politica tali da indurre disagio e disaffezione in quanti sono convinti che solo come piccolo gregge la Chiesa potrebbe esercitare una grande azione, solo come lievito concentrato può far lievitare tutta la pasta. 

Fino all'ultima intervista da presidente, (Corriere della Sera, 4 marzo 2007) il Cardinale Ruini ha dato fiato al complesso dello stato d'assedio per un cristianesimo a rischio di «irrilevanza» nella modernità, una tesi di nuovo non pacifica tra gli stessi cattolici, data la convinzione «rosminiana» che a rendere socialmente irrilevante la fede cristiana sarebbe piuttosto la sua pretesa di contare sul piano temporale, tanto più in una società a crescente pluralismo religioso e che riscopre i valori etici della laicità. 

Come avvertiva Achille Ardigò, all'indomani del fallimento del referendum sulla procreazione assistita, «vinto» secondo l'opinione diffusa dal Cardinale Ruini con la sua campagna per l'astensione, «la Chiesa non può farsi partito politico senza rischiare, di dissolvere il proprio fondamento mistico». 

La questione che alcuni sollevano, all'indomani dell'uscita di scena di Ruini (e anche se rimarrà per un certo tempo dietro le quinte) è la seguente: con Bagnasco e Ratzinger, si tornerà al piviale? 

Giancarlo Zizola 

 

testo integrale pubblicato da  "Rocca" n. 07  - 1 aprile 2007

www.rocca.cittadella.org