Fonte: ADISTA n°6 - 20.01.2007
LO
SPIRITO CHE DISORDINA IL MONDO
di Mario Tronti
L'argomento di questo incontro non è
certo usuale, ha una sua buona inattualità. Ma l'inattualità è sempre
una cosa positiva, rappresenta un momento di accantonamento del discorso
di senso comune al fine di sviluppare un discorso di senso vero. Accostare
i concetti di "politica" e di "spiritualità" è
un'opportunità e nello stesso tempo un rischio. Lapolitica oggi non
sembra molto incline ad assumere in sé il tema della spiritualità e,
all'opposto, la spiritualità non appare molto motivata ad assumere lo
spirito del tempo, a sporgersi sul terreno dell'arena pubblica. Chi
coltiva la spiritualità è portato a prendere una buona distanza dalla
politica, almeno dalla politica corrente. E quindi si rischia una
separazione. La politica - si dice - è il mio impegno nel mondo e la
spiritualità è la cura del mio foro interno: due dimensioni che
rischiano di convivere senza incontrarsi.
Oggi assistiamo ad uno spettacolo curioso, quello di molti uomini
politici - o meglio alcuni, però sempre più numerosi
- che dichiarano pubblicamente i loro interessi per i temi della
trascendenza, della fede, e parlano di una loro fede nascosta. Lo fanno,
possiamo dirlo, con parole molto approssimative. Ma il problema vero è
che poi di tutto ciò non si ritrova traccia nei loro comportamenti
quotidiani, nei livelli del-l'azione e della decisione politica. Ecco, qui
funziona la separazione che, secondo me, richiama molto una classica
distinzione - distinzione tutta "borghese" - tra pubblico e
privato. In passato era in voga, in alcuni pezzi di ceto politico, la
contrapposizione tra virtù pubbliche e vizi privati.
Oggi va di moda il rovesciamento del
binomio: vizi pubblici e virtù privata, nel senso che, di fronte alla
condizione non entusiasmante della politica, a volte ci si vanta, o si è
costretti a vantare, la frequentazione di un retroterra di rispetto, di
dignità.
Devo però avvertire che con i
termini "politica" e "spiritualità" non si vuole
intendere "politica" e "religione": nel caso della
seconda coppia concettuale abbiamo a che fare con un ambito diverso di
problemi, con i suoi temi specifici, le sue difficoltà da non trascurare.
Tra l'altro, oggi, il problema del rapporto fra religione e politica è
tornato prepotentemente alla ribalta. Ed è tornato alla ribalta
significativamente "dall'alto" e "dal basso" del mondo
e dei
mondi contemporanei.
Dagli Stati Uniti, per esempio, sono venute le esperienze dei cosiddetti
neocons, o teocons, con qualche cattiva imitazione anche nel nostro Paese.
La religione torna ad essere - come ai vecchi tempi - un modo per tenere
in ordine il mondo, per tenere insieme una società. La società è
composta da individui, ed uno dei mezzi per tenere insieme questi
individui separati è stato sempre il legame religioso. La religione è
qui intesa come instrumentum regni. Ecco, in questo caso la religione si
identifica con la politica e quando - come oggi - la politica è in crisi,
la prima fa supplenza nella raccolta del consenso intorno al potere. Il
legame religioso sostituisce così il legame sociale.
Accanto alla tendenza appena esaminata c'è il bisogno di religione
che sale invece "dal basso", dal mondo degli
"esclusi", di coloro che sono ai margini della civiltà
contemporanea. Si tratta di una ricerca di co-appartenenza a un sentire
comune capace di fare massa contro coloro che sono considerati gli
"inclusi".
Sotto questo aspetto il pericolo è
che la religione, più che instrumentum regni, diventi instrumentum belli.
Del resto sappiamo per esperienza storica che il regno e la guerra sono
andati sempre insieme. Quando si fa riferimento al "fondamentalismo",
lo si fa seguire spesso dall'aggettivo "islamico". Ma io credo
che ci sia "fondamentalismo" dovunque c'è confusione tra
religione e politica. Dovunque l'assoluto della verità diventa anche
l'assoluto del potere. E, badate, questa confusione si manifesta in tanti
modi che dobbiamo analizzare bene, per essere in grado di individuare il
problema anche là dove si nasconde.
Abbiamo conosciuto nel passato l'oppressione totalitaria. Oggi siamo di
fronte a una forma di servitù volontaria che investe le nostre società
liberal-democratiche, nelle quali si chiede di dare un libero assenso a
chi comanda. Io mi sento di parlare in questa fase di "fondamentalismo
democratico": la democrazia rischia di diventare oggi la religione
dell'Occidente, come del resto aveva profeticamente capito il genio di
Tocqueville quando aveva studiato il sorgere della democrazia in America.
Ecco, le guerre di esportazione della democrazia sono le guerre di
religione dei nostri tempi. Rifletteteci un momento e vedrete che questa
cosa si avvicina molto alla verità delle cose.
La "non sufficienza"
dell'essere umano
A questo punto io credo sia necessario distinguere la
"religione" dal "religioso". Per fare questo possiamo
seguire le nobili orme di autori ormai classici come Bonhoeffer o anche,
in un certo senso, Simone Weil. L'espressione "sentimento
religioso" secondo me non dice molto. "Sentimento" è una
parola troppo leggera per il carico che il religioso pretende giustamente
dall'essere umano. L'espressione "sentire religioso" mi piace di
più perché evoca una
disposizione dell'animo umano. Ci si può chiedere quindi se si tratta di
una disposizione naturale. Non lo credo.
Qualcuno, fin dall'antichità, ha
parlato dell'uomo come "animale politico"; mi pare difficile
parlare dell'uomo come "animale religioso". Tuttavia credo si
possa parlare giustamente di una "non sufficienza" dell'essere
umano.
La verità è che noi non bastiamo a
noi stessi, siamo degli esseri fondamentalmente mancanti. Questo ce lo ha
mostrato non l'esperienza religiosa ma anche la migliore antropologia
moderna e contemporanea. Abbiamo bisogno di qualche cosa che non possiamo
darci da soli. Vi è un senso di fragilità della condizione umana, di
insufficienza della volontà che - per me - è un senso da conquistare.
Intendo dire che per chi si è formato nell'ambiente teorico e politico da
cui
provengo io è difficile arrivare oggi alla conclusione che non tutto
nella storia è nelle nostre mani e che quindi c'è una zona di mistero da
coltivare con cura come una risorsa, di fronte alla quale conviene
fermarsi a contemplare.
Dall'esperienza che ho fatto fin qui
ho capito che il pensiero - e tanto più il pensiero a cui mi sento
legato, cioè il pensiero rivoluzionario - benché sia giustamente
costituito dall'analisi, dalla ricerca, dalla progettazione, dall'azione,
deve però essere aperto anche alla contemplazione.
So che può sembrare strano dire questa cosa, ma penso che si possa
cominciare a dirla. Tuttavia non vorrei che il mio discorso fosse
frainteso. Non c'è nelle mie parole alcuna forma di intimismo, alcun
redire in se ipsum, alcun autobiografismo, come va un po' di moda adesso.
La mia riflessione nasce invece dall'esperienza storica. Se tiriamo come
si suole dire - i fili del ‘900, noi - noi "movimento
operaio", noi "comunismo novecentesco" - eravamo quelli che
dovevano cambiare il mondo. Cambiare il mondo per cambiare l'uomo, anche
se non si è mai capito se volevamo cambiare prima il mondo e poi l'uomo,
o, viceversa, prima l'uomo e poi il mondo. In ogni caso, non siamo
riusciti a fare né l'una né l'altra cosa. Ciò nonostante io credo che
era giusto, era sacrosanto, cercare di farlo. Era giusto l'obiettivo, ma i
mezzi erano impropri.
Ecco, proprio l'insufficienza di quei mezzi mi rimanda all'insufficienza
dell'uomo: la ragione non viene dall'interno, piuttosto dall'esterno
dell'esperienza storica. In realtà siamo stati subalterni a quell'idea di
onnipotenza della ragione umana che non era propria del moderno: non
accusiamo il moderno anche delle colpe che non ha. Nel moderno c'è di
tutto, c'è la via della crisi, la via del dubbio, tanto quanto c'è la
via dello sviluppo, la via del progresso. Quell'idea dell'onnipotenza
della ragione era propria della borghesia moderna. E noi non abbiamo
sottoposto a critica il percorso dalla grande ragione rinascimentale
istruita dalla scienza alla piccola ragione strumentale comandata dalla
tecnica. Se
osserviamo l'arco della modernità vediamo proprio questo passaggio dalla
sovranità e onnipotenza della scienza alla
sovranità e onnipotenza della tecnica con cui oggi abbiamo soprattutto a
che fare. Tutto ciò ha provocato e fondamentalmente stabilizzato il
dominio della mentalità borghese sulla condizione umana.
Una crescente volgarizzazione
della vita
Dunque, perché parlare di
spiritualità? Userò delle frasi nette. Mi scuso con voi, ma siccome
adesso si parla in genere
senza dire niente, io uso il criterio opposto, cioè scelgo delle frasi
che dicano il massimo che si possa dire. E allora, perché la spiritualità?
Perché il capitalismo ha fatto il deserto all'interno dell'uomo. Perché
il capitalismo ha reciso le radici dell'anima all'interno della persona, e
questo è un grande motivo culturale di lotta al capitalismo. Culturale:
perché ci sono anche altri motivi di lotta, anche più seri e più
fondati. Ma questo è un motivo di lotta che non vedo essere sollevato con
efficacia da nessuna delle poche forze anticapitalistiche rimaste.
Ci troviamo di fronte ad una crescente volgarizzazione della vita, siamo
dentro a un grandioso processo di volgarizzazione che nasce proprio da
questo guasto che la mentalità capitalistica ha introdotto all'interno
dell'uomo.
Tuttavia, muovendoci su un piano
culturale, appunto, capitalismo non è la parola esatta. Io uso sempre
questa parola perché è la più eloquente per dire dove siamo, benché
non la usi quasi più nessuno. La usano soltanto i capitalisti.
Perché? Perché la parola
capitalismo, se ci fate caso, ha perso il senso che aveva avuto per molto
tempo, il suo senso dispregiativo. Ormai ha soltanto un senso positivo. In
questo caso comunque non è la parola giusta, perché è meglio usare
l'espressione "mentalità borghese". Con questa intendo la
declinazione borghese della modernità, che ha come chiave, come pietra
miliare, la figura dell'individuo neutro, che poi è l'individuo
proprietario - anche proprietario di capacità di lavoro, come ci ha
insegnato Marx -. Individuo libero. Libero però nel senso che ha la
libertà di vendere il proprio lavoro al migliore offerente. Potremmo
aggiungere oggi: quando è fortunato di trovare un compratore.
Dall'operaio massa al borghese
massa
Marx parlava di "proletarizzazione crescente". Oggi dovremmo
rovesciare nel suo contrario quella previsione
sbagliata, perché assistiamo ad un fenomeno di "borghesizzazione
crescente". A noi è toccato di vivere un passaggio paradossale, per
il punto da cui eravamo partiti, ovvero il passaggio dall'operaio massa al
borghese massa. Ci troviamo di fronte ad una composizione sociale, la
famosa società dei "due terzi", in cui la grande maggioranza
tende - dall'alto e dal basso - ad avvicinarsi al medio, al livello medio.
Il piccolo borghese ha come sua aspirazione massima
quella di arrivare ad una condizione di media borghesia; e, se ci fate
caso, non esistono più i grandi borghesi: i grandi imprenditori di oggi
se li andate a vedere da vicino sono dei borghesi medi. Lo si evince da
come si comportano, da
come agiscono, anche da come vivono nella loro esistenza quotidiana. Non
solo non abbiamo più Rathenau ma non abbiamo più nemmeno Gianni Agnelli:
abbiamo i furbetti del quartierino. Poi c'è anche una zona di
emarginazione che in Occidente è minoritaria, ed è maggioritaria nel
resto del mondo. È accaduto in sostanza che il bourgeois si è mangiato
il citoyen, secondo la classica definizione della duplicità
dell'uomo moderno, borghese e cittadino; il denaro si è mangiato lo
Stato. O, ricorrendo ad un esempio che abbiamo
sotto gli occhi tutti in questi ultimi anni, la moneta si è mangiata
l'Europa: noi non abbiamo oggi l'Europa unita, ma
abbiamo la moneta unica. Credo che tutto ciò si possa esprimere con la
seguente formula: le democrazie occidentali
sono le più perfette dittature del denaro. Le vecchie dittature noi le
individuavamo nella figura del dittatore, una figura esistenziale,
personale che le rendeva riconoscibili. Tutti sapevano di vivere sotto una
dittatura. La dittatura del
denaro non ha una figura personificata e quindi è difficilissima da
essere riconosciuta come tale; si vive nella dittatura del denaro convinti
di essere in una democrazia politica, questa è la condizione in cui siamo
oggi.
Ho collaborato a un piccolo testo a cura della comunità di Bose –
ci ho lavorato insieme ad Enzo Bianchi - che raccoglieva i detti,
soprattutto dei padri del deserto, sul denaro, anzi contro il denaro.
Prendeva il titolo da un'espressione di Giovanni Crisostomo che dice
"il tuo e il mio sono fredde parole". Ecco, su queste cose non
c'è lotta politica – e magari ci fosse – però possiamo introdurre
una forma di battaglia culturale. Non voglio impostare il mio intervento
semplicemente da un punto di vista politico, perciò adesso cambierò il
registro del discorso. Fin qui ho tuttavia cercato di far capire che
dietro la scelta del tema, "politica e spiritualità", ci sono
anche queste cose.
Il mondo "di fuori", un
mondo nemico
Tornando alla spiritualità. Che cos'è per me la spiritualità? Hannah
Arendt lo ha accennato in un passaggio che
anch'io mi sento di condividere: spiritualità è fondamentalmente
"interiorità". È il mondo interiore dell'essere umano,
declinato in forma duale, oggi, giustamente, al femminile e al maschile,
che sono due modi differenti di essere al tempo stesso complementari e
conflittuali. Questo mondo interiore è un mondo vasto - più vasto del
mondo esterno - e tendenzialmente infinito. Valgono qui le parole del
poeta, o della poetessa: "per quanto lontano tu possa andare, non
potrai mai raggiungere i confini della tua anima". Ecco qui qualcosa
di non misurabile, di non calcolabile, di non sottoponibile alla ragione
strumentale. Ma infinito è anche da intendersi come indefinito, e quindi
non traducibile in
numeri, in leggi, in codici, e soprattutto non traducibile, per fortuna,
in immagini, dal momento che viviamo nella società dell'immagine.
Trovo in questa dimensione dell'essere una forte e profonda carica
antagonistica nei confronti dell'attuale organizzazione della vita e
confesso che a volte mi sembra questa l'ultima e definitiva frontiera
della resistenza nei confronti dell'aggressione proveniente dal mondo
esterno. Io infatti considero il mondo "di fuori" un mondo
nemico.
Dunque bisogna stare attenti a
considerare la spiritualità come una sorta di "benessere
interiore", insomma la cura di sé per trovare l'armonia con il
mondo. Oggi assistiamo anche alla sostituzione dello psichiatra con il
filosofo. Si va dal filosofo per raccontare le proprie nevrosi interne e
lui ci fornisce le ricette per stare bene. Per non parlare della
declinazione del religioso nel senso new age che va un po' per la
maggiore. Ecco: io contrappongo a tutto questo
un'altra cosa, molto netta: stare in pace con sé, oggi, vuol dire entrare
in guerra con il mondo.
Ora, la spiritualità ha una storia lunga. Arriva a noi da molto
lontano. Panikkar parla di quel terzo senso che è - dice
lui - come un barlume più o meno chiaro di consapevolezza che nella vita
c'è qualcosa in più di ciò che è percepito dai sensi o inteso dalla
mente. Un qualcosa di più – dice lui – di un ordine diverso: non è
un prolungamento orizzontale verso ciò che ancora non sappiamo o che
ancora non siamo, è piuttosto un salto verticale verso un'altra
dimensione della realtà. Si pone in una direzione terra-cielo, per la
quale è necessario lo "stare eretti"; ce lo ha raccomandato il
filosofo novecentesco Bloch: stare eretti, che non è un semplice modo
fisico, ma è un modo spirituale di essere. Stare sulla terra andando
verso l'alto, e cioè non piegati sotto qualcosa. Che è poi la condizione
dell'essere liberi, come poi dirò a conclusione del discorso. E tuttavia
quella conflittualità della spiritualità - perché io di questo parlo,
della conflittualità della spiritualità - credo sia possibile trovarla
di più e meglio nella nostra tradizione, la tradizione ebraico-cristiana.
Il passaggio dal cosmico allo storico
è un passaggio che può essere male inteso, può essere anche
falsificato, ma è quello che a me soprattutto interessa. Direi che tutto
comincia dai grandi profeti biblici (ma anche i profeti minori non
scherzano). I libri profetici, dunque, ma anche i libri sapienziali del
primo testamento. E poi i padri del deserto. Vi invito a leggere il testo
di Enzo Bianchi, se non lo conoscete già, che si intitola proprio
"Le parole della spiritualità", e ha un sottotitolo che recita
"Per un lessico della vita interiore". Bianchi prende le mosse
da quando, all'inizio del quarto secolo, in piena crisi dell'assetto
imperiale, comincia a risuonare quell'invocazione "Abbà, dimmi una
parola!".
Una parola per la vita, una parola
per dare un senso all'esistenza: si cominciava a formare proprio un
linguaggio della spiritualità, dei nomi da dare alla realtà dello
spirito.
Sparare sugli orologi
Allora, la mia tesi è questa: la
spiritualità è un linguaggio della crisi. Ecco perché nella crisi della
politica cui assistiamo oggi entrano e devono entrare le parole della
spiritualità. Cito alcune di queste parole che Bianchi racconta una per
una. Sono molte, ne ho scelte alcune fra quelle che sento più vicine:
ascesi, vigilanza, pazienza, ascolto, meditazione, preghiera, silenzio,
solitudine. Sono tutte parole oggi alternative a tutto ciò che ci
circonda. Noi viviamo
nella società della fretta, del movimento accelerato, della corsa
quotidiana, dell'arrivare in tempo, dell'orologio. La
prima cosa che fecero i comunardi (splendidi!) quando conquistarono Parigi
fu di sparare sugli orologi. Credo che sia un'immagine stupenda della
rivoluzione. Vi è un contrasto tra i tempi esterni imposti alla vita e il
tempo interno di cui ha bisogno invece la persona umana. E qui nasce una
contraddizione fondamentale che è una contraddizione politica.
Quelli che comandano non sono, badate, i governi, i parlamenti, i partiti
- questi sono attori supplenti, attori flessibili se non precari, infatti
ci sono e poi non ci sono più e ce ne sono altri al posto loro -. Quello
che ci comanda è la logica di sistema che impone il circuito
produzione-circolazione-distribuzione-consumo. Questo è il potere reale
che ci comanda. E noi cosiddetti cittadini siamo tutti sudditi di questo
potere. Un potere che non vuole che noi ci fermiamo a
pensare, non ci concede i tempi tecnici della riflessione interiore. Non
appena abbiamo un attimo di tempo libero ce lo riempie. Con che cosa? Con
l'intrattenimento, l'intrattenimento televisivo, con i reality show, con
il festival del cioccolato o con la festa del cinema, che è più o meno
la stessa cosa. Ecco, la notte bianca per me è l'espressione simbolica di
questa socialità fasulla: in piazza per una notte, e per il resto dei
giorni soli ognuno con la propria nevrosi quotidiana.
Ma riprendiamo il discorso, quello serio. La sapienza monastica di
Benedetto Calati, splendido monaco di Camaldoli, ci ha guidato con un
magistrale racconto attraverso la spiritualità del primo medioevo, da
Gregorio Magno al monachesimo da Beda il Venerabile e Pier Damiani a
Bernardo. È nel quarto volume di una storia della spiritualità
pubblicata da Borla ed uscita nel 1988. Quando leggi queste cose della
spiritualità dal primo medioevo, ti accorgi che sebbene la modernità
abbia certamente guadagnato molto rispetto al medioevo (noi non siamo
antimoderni, per carità, siamo dei critici del moderno, che è una cosa
ben diversa), tuttavia ha perso anche qualcosa. Ha perso qualcosa che
attiene proprio al fondo dell'anima, per dirla con il nostro maestro
Eckhart.
Vi sono diversi carismi ma uno solo è lo spirito, dice Paolo nella
prima lettera ai Corinzi. Questa evocazione viene ripresa ed esaltata per
esempio nella mistica femminile medioevale dalla grande Margherita Porete,
ma anche da altri.
E il femminismo, per esempio -
soprattutto il femminismo della differenza, che in Italia ha notevoli
interpreti - ha privilegiato nella dimensione trinitaria la figura dello
spirito, sottoponendo a critica il percorso che va dalla ruah, che in
ebraico è femminile, a pneuma, che in greco invece è neutro, per
arrivare a spiritus, che in latino diventa maschile.
È un'operazione culturale fatta con
intelligenza al fine di evocare una perdita, di sottolineare i limiti di
un percorso.
Concludo con una provocazione intellettuale, se ve ne fosse bisogno di
un'altra. Dicevo, ma lo ripeto a scanso di equivoci, che a me piacciono le
idee forti; non ci sto al fatto che siccome siamo sotto il ricatto della
violenza, allora dobbiamo rispondere con pensieri deboli, perché vedo che
in questo modo si innesca una trappola capace di bloccare qualsiasi volontà
di trasformazione delle cose. Io vengo dalla lotta di classe, dalla teoria
e dalla pratica della lotta di classe. Considero una benedizione di Dio
aver avuto la possibilità di partecipare a quella vicenda (che mi pare
conclusa). Proprio oggi ho riletto una frase di Marx, accusato a volte -
da qualche "parroco di campagna" - di essere soltanto un
materialista. Una frase di Marx del '56: "con la stessa velocità con
cui l'umanità diviene padrona della
natura, l'uomo pare assoggettarsi ad altri uomini.
Tutte le nostre invenzioni e i nostri progressi sembrano risolversi nel
fornire una vita spirituale alle forze materiali e
nel mettere in ridicolo la vita umana riducendola a una forza
materiale". Questo è Marx! Ecco, ripensando oggi a quella vicenda
che si organizzava intorno alla lotta fra le classi, se cerco quel barlume
dello spirito di cui parlava Panikkar, quel qualcosa in più di un ordine
diverso, io lo trovo nel salario conquistato dai lavoratori e non lo trovo
nei profitti accumulati dai capitalisti. Nella nostra storia, nella storia
delle classi che si sono ribellate al loro sfruttamento, al loro dominio,
c'è stata una spiritualità profonda, tutta da riconoscere; nella figura
del vecchio contadino, nella figura dell'operaio di mestiere, nella figura
della madre di famiglia che porta da mangiare agli scioperanti, nel
militante di base che fa politica in piena gratuità, e poi nel desiderio,
nel bisogno di cooperare, di solidarizzare, di lottare: qui c'è una
profonda spiritualità.
Quale altro?
Insomma, la spiritualità per me non è la declinazione buonista del
religioso. Quella che dice di essere laici, tolleranti, ecumenici,
multietnici, interreligiosi, aperti all'altro, e bla bla. Io non ce la
faccio più a sopportare questa "retorica dell'altro". Perché
chiedo sempre: ma quale altro? L'immigrato clandestino che un gommone
butta sulla nostra spiaggia come un detrito non umano è lo stesso
"altro" del benestante che sale sul suo yacht per andare a fare
il giro delle isole? Hanno in comune soltanto lo stesso mare su cui
navigano ma io sono per l'uno contro l'altro. Qui a volte lo stesso
predicare cristiano mi sembra abbia delle falle, delle mancanze. Insomma:
io dico che bisogna evocare il soffio dello spirito per disordinare il
mondo. Voi direte: ma il mondo è già abbastanza disordinato, non c'è
bisogno di
ulteriore disordine. No, rispondo io, perché l'attuale disordine è
conseguenza dell'ordine che ci opprime, non è un
disordine spontaneo. È un ordine che dall'alto provoca questo disordine.
Noi abbiamo bisogno di disordinare il mondo dal basso. Ora, gli spirituali
- si chiamavano così - erano sempre eretici. Gli ordini spirituali
nascevano per contestare l'ordine gerarchico della Chiesa. Io credo che
dovremmo ripartire da qui, da quando Gesù risorto sta per lasciare i
discepoli e dice loro: ricevete lo Spirito. Ecco il lascito inutilizzato
che abbiamo ancora tra le mani. Veramente
diceva: ricevete lo Spirito Santo. Ma qui sorge un'altra domanda: è
necessario che sia Santo questo spirito, non basta che sia – appunto -
Spirito?
E ora, veramente, l'ultima battuta. C'è una figura un po' hegeliana
un po' nietzschiana - più nietzschiana che hegeliana
- che io amo molto: è quella del frei geist, dello spirito libero. È una
figura novecentesca, che Nietzsche ha lasciato al
Novecento, perché ha trovato un suo seguito in grandi esperienze
teoriche, per esempio nel principio speranza di Bloch o nella coscienza
del proletariato del giovane Luckacs, oppure nel comunismo teologico di
Benjamin, in quello escatologico di Taubes. Ecco l'ultima frase netta: la
spiritualità è libertà. Perché la libertà o è libertà dello
spirito, o è soltanto un'altra forma di oppressione. Con questa sentenza
da militare concludo il mio discorso.
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