Il
cardinale Carlo Maria Martini interviene sul dibattito suscitato
dalla morte di Piergiorgio Welby e invita la Chiesa a dare «più
attenta considerazione anche pastorale» a casi come questi perché
«nuove tecnologie che permettono interventi sempre più efficaci
sul corpo umano richiedono un supplemento di saggezza per non
prolungare i trattamenti quando ormai non giovano più alla persona».
Martini
– che sta per compiere ottant’anni e all’inizio del suo
intervento, pubblicato dall’inserto domenicale del Sole24 Ore,
racconta della premura con cui è stato seguito dai medici notando
come però in molti altri casi la sanità italiana non sia
altrettanto pronta a intervenire efficacemente per aiutare i malati
– ritiene che sia «di grandissima importanza in questo contesto
distinguere tra eutanasia e astensione dall’accanimento
terapeutico, due termini spesso confusi». La prima, infatti, si
riferisce a un gesto che intende abbreviare la vita «causando
positivamente la morte». La seconda, invece, consiste, spiega
l’arcivescovo emerito di Milano citando il compendio del
Catechismo della Chiesa cattolica, nella «rinuncia...
all’utilizzo di procedure mediche sproporzionate e senza
ragionevole speranza di esito positivo». Dunque, aggiunge sempre
sulla base del Catechismo il porporato che trascorre il suo «buen
retiro» tra Gerusalemme e Roma, evitando l’accanimento
terapeutico «non si vuole... procurare la morte: si accetta di non
poterla impedire», assumendo così «i limiti propri della
condizione umana mortale».
Martini
continua affermando che «per stabilire se un intervento medico è
appropriato non ci si può richiamare a una regola generale quasi
matematica» ma occorre «un attento discernimento che consideri le
condizioni concrete, le circostanze, le intenzioni dei soggetti
coinvolti». In particolare, aggiunge il cardinale, «non può
essere trascurata la volontà del malato, in quanto a lui compete
– anche dal punto di vista giuridico, salvo eccezioni ben definite
– di valutare se le cure che gli vengono proposte, in tali casi di
eccezionale gravità, sono effettivamente proporzionate». Certo,
Martini non vuole che il malato sia lasciato da solo a decidere in
assoluta autonomia, ma spiega che “è responsabilità di tutti
accompagnarlo”. Però precisa che “sarebbe più corretto parlare
non di “sospensione del trattamento” (e ancor meno di
“staccare la spina”), ma di limitazione dei trattamenti.
Risulterebbe così più chiaro che l’assistenza deve continuare,
commisurandosi alle effettive esigenze della persona, assicurando
per esempio la sedazione del dolore e le cure infermieristiche”.
Per
quanto riguarda il versante legislativo, l’arcivescovo emerito di
Milano parla dell’ “esigenza di elaborare una normativa che, da
una parte, consenta di riconoscere la possibilità del rifiuto
(informato) delle cure – in quanto ritenute sproporzionate dal
paziente – dall’altra protegga il medico da eventuali accuse
(come omicidio del consenziente o aiuto al suicidio), senza che
questo implichi in alcun modo la legalizzazione dell’eutanasia”.
Martini cita positivamente a questo proposito la legge su questa
materia approvata nel 2005 in Francia, capace di “realizzare un
sufficiente consenso in una società pluralista”. Quella francese
è una normativa che non legalizza l’eutanasia ma prevede che le
cure mediche non debbano essere protratte “con ostinazione
irragionevole”. Una persona in fase terminale, insomma, può
decidere, secondo la legge, “di limitare o di interrompere ogni
terapia”.
Anche
se il caso Welby è stato accennato direttamente da Martini soltanto
all’inizio del suo articolato ragionamento (il cardinale ha notato
come Welby abbia “chiesto la sospensione delle terapie di sostegno
respiratorio” e ha pure sottolineato l’intenzione di alcune
parti politiche di esercitare una pressione in vista di una legge a
favore dell’eutanasia”), è evidente che quanto segue si può
applicare proprio a quello come ad altri casi simili. In sostanza
Martini non considera affatto quello di Welby un caso di eutanasia,
e quell’accenno alla necessità er la Chiesa di una “più
attenta considerazione anche pastorale” suona come una velata e
indiretta critica alla decisione del Vicariato di Roma di negare il
funerale religioso richiesto dalla famiglia all’indomani
dell’interruzione delle terapie respiratorie provocata da un
medico.
Lungi
dall’essere uscito di scena, ancora una volta l’arcivescovo
emerito di Milano apre nuove frontiere di dibattito su temi etici e
bioetici. Come aveva già fatto nel maggio scorso, attraverso il
dialogo con il bioeticista Ignazio Marino pubblicato
sull’Espresso, manifestando aperture verso la fecondazione
eterologa e l’uso sperimentale dell’ovocita nelle prime ore dopo
la fecondazione.