FONTE: MISNA

 

SIERRA LEONE  24/11/2004 8:24

‘ABERDEEN AMPUTEE CAMP’,

LE VITTIME DIMENTICATE DELLA GUERRA / 1

da Freetown, Massimo Zaurrini

Peace/Justice, Standard

Nascosto dietro le bancarelle che sorgono ai margini di una delle principali strade di Freetown, l’ ‘Aberdeen Amputee Camp’ è quasi invisibile per gli automobilisti che fanno la spola tra il centro della capitale e la zona dei grandi alberghi per turisti. Nel ‘campo per amputati’, durante e dopo la guerra, il governo sierraleonese ha raccolto gli uomini a cui, negli ultimi anni del conflitto durato dal1991 al 2002, i ribelli del Ruf e quelli della giunta militare di Johnny Paul Koroma avevano tagliato le mani, le braccia o le gambe nel tentativo - riuscito - di seminare il terrore nel Paese e di scioccare l’opinione pubblica internazionale. "Qui vivono dalle dalle 2 alle 3.000 mila persone, tra loro circa 300 portano addosso i segni di quelle violenze" spiega l’autista. Parcheggiata l’auto in uno slargo di terra rossa e umida ai piedi di una salita, ci si inerpica tra le baracche fino al centro per la costruzione di protesi che sovrasta questa piccola collina. I bianchi qui dentro non si vedono spesso e l’arrivo di due giornalisti europei suscita curiosità. Un paio di uomini ci vengono incontro, uno di loro è senza una mano, l’altro indossa la maglietta di una squadra di calcio italiana. Da ogni angolo del campo sbucano figure di uomini e donne che lentamente si avvicinano. La diffidenza iniziale, da entrambe le parti, si trasforma rapidamente in curiosità: loro ci chiedono chi siamo e da dove veniamo e noi chiediamo agli uomini con evidenti segni di mutilazione di raccontarci la loro storia. Storie diverse eppure tutte uguali. Storie di contadini di piccoli villaggi delle zona rurali del Paese - soprattutto dell’est, dove sono concentrate le ricchezze diamantifere della Sierra Leone – catturati e umiliati da ribelli che, sotto l’effetto di allucinogeni, non esitarono e mozzare mani e braccia, gambe e piedi nel tentativo di spargere il terrore per il Paese. "Nessuno ci aiuta" dice Johnny, che dimostra un po’meno di 40 anni "siamo stati dimenticati qui in questa riserva. Ditelo, voi giornalisti, ditelo al mondo che si sono dimenticati di noi". Le parole sembrano scuotere anche gli altri, ormai quasi tutti uomini, visto che - soddisfatta la curiosità iniziale - le donne sono tornate alle loro faccende e i bambini hanno ripreso rumorosamente a giocare intorno a pozze fangose a ridosso di un piccolo canale di scolo della fogna. "Nessuno si ricorda di noi" dice qualcuno alle mie spalle; il "governo non ci aiuta" gli fa eco un altro; "neanche le organizzazioni" aggiunge un anziano senza mani. In realtà, continuando a chiacchierare con loro scopriamo che alcune associazioni locali, un non meglio precisato missionario italiano ("father Maurizio") e alcuni ‘occidentali’ ogni tanto vanno nel campo a dare una mano a questa piccola comunità, portando cibo, soprattutto riso e olio, e altri beni di prima necessità.Gli amputati del campo di Aberdeen versano in condizioni molto difficili; a differenza di altri non sono mai riusciti a integrarsi davvero nella società del dopo guerra" spiega un cooperante italiano. "Il governo nei mesi scorsi ha spostato la maggior parte delle persone che affollavano il campo in un’altra struttura dalla parte opposta della città, in periferia. All’inizio pensavamo che fosse un modo per nasconderli e toglierli da una delle zone di maggior transito per i turisti, ma poi la sistemazione si è dimostrata comunque migliore perché il nuovo campo è immerso nel verde e i suoi occupanti hanno cominciato a lavorare la terra creando piccoli orti che garantiscono il loro sostentamento e un minimo di commercio" aggiunge il cooperante. Ad Aberdeen il sostentamento viene invece garantito dall’elemosina e dall’accattonaggio. "Sappiamo che ci sono Paesi che danno soldi per aiutare chi, come noi, in Sierra Leone continua a soffrire, ma quei soldi finiscono nelle mani dei politici e a noi non arriva nulla" dice un anziano del gruppo. "Non possiamo lavorare e non abbiamo denaro quindi andiamo in giro a chiedere un po’ di aiuto soprattutto per garantire un futuro migliore ai nostri figli" spiega un altro uomo a cui mancano entrambe le mani. Anche ad Aberdeen, come in tutta Freetown, la preoccupazione maggiore è l’istruzione dei figli. Lo Stato garantisce l’accesso gratuito alle primarie (elementari) ma i livelli d’istruzione superiori diventano un problema per tutti. "Per noi – dice Johhny, ormai divenuto il portavoce ufficiale del gruppo – è difficile anche pagare i 60.000 leones annuali ( poco più di 15 euro) per l’iscrizione alla scuola, figuriamoci il resto". Attraversando baracche improvvisate, messe in piedi con pezzi di lamiera, di legno, cartelloni pubblicitari e teli con il simbolo dell’Unhcr (l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati) arriviamo in uno slargo di fronte a una casupola in muratura a una sola stanza. Uno uomo senza un braccio scavalca con un lungo passo la donna che sta allattando il figlio, sdraiata su una stuoia davanti alla porta, ed entra nella costruzione. Quando esce ha in mano una lettera. "Questa – ci spiega – è la lettera che i ribelli ci appendevano al collo non appena avevano terminato di tagliarci le mani o le braccia". Il documento, tanto agghiacciante quanto surreale, porta la data del 30 aprile 1998. Nella nota i ribelli del Ruf (cofirmatari insieme alla ‘Giunta’ di Paul Koroma) chiedono la liberazione immediata del loro capo, Foday Sankoh, minacciando altrimenti di uccidere tutti i civili della Sierra Leone. Una lettera che ravviva in tutti i presenti il ricordo di quei giorni, di quelle violenze. Nei loro volti però non c’è traccia di rabbia o risentimento per il destino subito. Ma cosa accadrebbe se dovessero incontrare un giorno l’uomo che gli ha tagliato le mani o le braccia?. "Niente" rispondono in coro, quasi all’unisono. Quasi comprendendo la sorpresa per questa risposta, uno di loro prende la parola: "Io non posso che perdonare chi mi ha fatto questo" dice con tono fermo e deciso, sollevando il moncherino del braccio. "Ma un giorno i responsabili dovranno comparire davanti a Dio e sarà Lui a fare giustizia" aggiunge, mentre il suo volto è attraversato da un sorriso sicuro ma tirato, un misto di rivincita e compiacimento. In quel momento ci viene incontro un bel ragazzo alto e slanciato. Dalla splendida tunica arancione, però, non spuntano le braccia. Con un sorriso allegro e contagioso Mohamed mostra due monconi di una decina di centimetri che spuntano dalle spalle e ci presenta la sua famiglia. "È difficile vivere così, però vivo e ho ancora la mia famiglia" dice tranquillo. Gli chiedo se ha mai pensato di utilizzare le protesi. "Il centro che sta in cima al campo - risponde - ha preparato protesi per tutti noi, ma sono scomode da portare con questa umidità e con il caldo danno prurito…E poi cosa dovrei farci con quelle protesi, non è certo grazie a quei cosi che potrò riprendere a lavorare per far studiare i miei figli…”

(da Freetown, Massimo Zaurrini)