5. LA PROFESSIONE DI FEDE DI ISRAELE NEL DIO DELLA STORIA

SALMI 105 E 106

Gregorio Battaglia

            Da sempre il popolo di Israele ha espresso la propria fede in termini squisitamente storici. Esso sa parlare di Dio in un solo modo: ricordando ciò che i suoi occhi hanno visto. Dio non è rimasto lontano, ma ha visitato la storia ed Israele ha potuto contemplare nel procedere degli avvenimenti il “distendersi del braccio di Dio”, che mantiene fedeltà alla parola data. Nel libro del Deuteronomio l’offerta delle primizie è preceduta dalla proclamazione della propria fede nel Dio presente nella storia degli uomini in questi termini: “Mio padre era un arameo errante; scese in Egitto, vi stette come un forestiero...Gli Egiziani ci maltrattarono, ci umiliarono e ci imposero una dura schiavitù. Allora gridammo al Signore, al Dio dei nostri padri e il Signore ascoltò la nostra voce (...) il Signore ci fece uscire dall’Egitto (...) ci condusse in questo luogo e ci diede questo paese dove scorre latte e miele”(Dt 26,5-10).

Il canto della fedeltà di Dio

            L’orante-cantore del Salmo 105 non ha dimenticato il dramma della perdita della terra e la dura esperienza dell’esilio, ma adesso i suoi occhi si aprono alla contemplazione di Gerusalemme e del tempio ricostruito. Perciò il canto si apre con l’Alleluia e si traduce in una professione di fede nel Dio della storia della salvezza, una professione che è piena di felicità e di gratitudine. Se i suoi piedi e quelli del suo popolo possono tornare a calcare la terra dei padri tutto questo è stato reso possibile dalla gratuita e fedele inizativa di Dio, che si ricorda sempre della parola data: “Ti darò il paese di Canaan come eredità a voi toccata in sorte”(v.11).

            L’umanità nella sua avventura esistenziale non è da sola, ma si ritrova a fare i conti con un “TU” che la interpella, che le si pone accanto, che la giudica, ma che soprattutto le chiede di uscire da sé per impegnarsi in un cammino di responsabilità. In Abramo, in Isacco e in Giacobbe Israele ha fatto esperienza di questo Dio-persona, che si coinvolge nella nostra storia personale e comunitaria per essere colui che ci introduce “nel possesso della terra”, che ci insegna, cioé, a saper vivere da creature fatte di terra e che sono chiamate a vivere strettamente legate a questa terra.

            I termini con cui Israele ha tradotto questa esperienza di fede sono principalmente quelli indicati dal nostro salmo: alleanza, giuramento, parola, legge ed il cui contenuto è dato soprattutto dal dono/promessa della terra. Parlare di un Dio che non si è reso estraneo alla nostra storia significa ritornare alla esperienza di Abramo che si scopre in compagnia di una presenza che lo spinge a vivere da uomo pienamente libero e non asservito a nessuna idolatria. Si tratta di un Dio che in modo unilaterale ed incondizionato si è legato alla storia di Abramo con un patto di alleanza ed in lui il patto si estende a tutte le generazioni. Il salmo così intende parlarci di questo Dio personale, che ha fatto alleanza con l’uomo ed il cui giuramento non conosce limiti di tempo e di spazio. Egli è sempre all’opera ed il suo ricordo non viene mai meno, perché ogni generazione possa imparare ad entrare nella terra e nella vita.

Struttura del salmo 105

            La professione di fede che si traduce nel racconto delle grandi imprese del Signore è preceduta da un corposo invitatorio, ma soprattutto è racchiusa all’interno di una grande inclusione: al v.8 è detto: “ricorda sempre la sua alleanza, (..) l’alleanza stretta con Abramo”, al v.42 leggiamo: “perché ricordò la sua parola santa data ad Abramo suo servo”. Tutta la storia umana è come abbracciata dal ricordo di Dio, che non viene meno alle sue promesse, per cui il suo ricordo si traduce in opera di liberazione.

vv. 1-7: si tratta di un grande invitatorio, dove il soggetto è costituito dalla “stirpe di Abramo, suo servo, dai figli di Giacobbe, suo eletto”, mentre l’oggetto dei dieci imperativi è JHWH, il suo nome, le sue opere, i suoi prodigi, la sua potenza, i suoi giudizi.

vv. 8-45: costiuiscono la solenne professione del credo, articolato in cinque grandi qaudri e corrispondenti sostanzialmente ai tre grandi eventi della salvezza: patriarchi/promessa; - esodo/liberazione; - terra/dono e compimento.

Il grande invitatorio (vv 1-7)

            La stirpe di Abramo, che si trova dispersa in mezzo ai popoli è chiamata a dare lode a Dio e a proclamare le sue opere “davanti a tutti i popoli” per coinvolgerli in una solenne acclamazione universale. Oggetto della lode è il suo nome santo, che rimanda alla sua trascendeza, ma allo stesso tempo al suo esserci nella storia, perciò l’oggetto della lode si estende alle sue opere e ai suoi prodigi. Si tratta di una riflessione stupita sulla storia della salvezza, che viene esposta, dichiarata, cantata, divenedo alimento della fede personale e stimolo e proposta per quella altrui.

            La lode che affiora sulle labbra del credente è il frutto di un cuore che ricerca il volto del Signore. Questa ricerca deve penetrare nei meandri della storia, deve isolare e identificare i segni della presenza di Dio disseminati negli eventi, deve poter scorgere negli sconvolgimenti della storia le doglie del parto, segno evidente della presenza dello Spirito nel cuore della terra. La ricerca è, quindi, l’anima della fede, che è apertura verso l’infinito; ed essa è tamid, cioé per sempre, perché senza limiti è il mistero di Dio. In questo itinerario di ricerca il credente non è all’oscuro, ma è già illuminato dal volto del Risorto, che rivelando, vela il mistero del Dio trascendente.

I patriarchi e la promessa (vv 8-22)

            Il credo inizia con un verbo “ricorda” che in ebraico è posto al passato, ma la cui azione abbraccia tutto il tempo della storia, per cui nella traduzione ce lo ritroviamo al presente, perché l’effetto salvifico di quel “ricordare” è continuo. La speranza di Israele e della Chiesa è strettamente ancorata alla costanza di questo ricordo di Dio, alla sua fedeltà che non conosce pentimenti. L’oggetto del ricordo di Dio è l’Alleanza, che nel nostro salmo è vista soprattutto come gesto unilaterale di Dio che si impegna gratuitamente a favore dei patriarchi e della loro discendenza, mentre nel racconto del Sinai emerge l’aspetto di reciprocità tra Dio ed il suo popolo. Si tratta di due aspetti che non si escludono, perché è il primo impegno che rende possibile l’altro.

            Così Israele in mezzo ai grovigli della storia conosce un punto fermo costituito da una parola che non viene invalidata nemmeno dal peccato. Il nostro salmo usa quattro termini per designare l’alleanza: berit, che vuol dire patto, impegno; dabar, che vuol dire parola e fatto, in quanto apre una relazione e allo stesso tempo realizza quanto detto; giuramento, che è promessa ufficale ed avente per oggetto la terra; decreto, perché introduce la nozione di una via da percorrere come segno della propria adesione.

            I patriarchi sono visti come gente pellegrina in cammino verso la terra, ma vengono qualificati come cristi o consacrati e come profeti (v 15). La maggiore attenzione è riservata a Giuseppe e all’aspetto provvidenziale di quella storia. Egli entra in scena al v 17 come un prigioniero con i piedi stretti in ceppi ed il collare di fero che stringe il collo bloccando ogni movimento, ma è da quest’uomo ridotto all’impotenza, simile ad un cadavere, condannato all’umiliazione estrema, che il Signore estrae la sua gloriosa salvezza. Per Ruperto di Deutz Giuseppe è figura di Gesù. Giuseppe che avanza tra le grida degli araldi che ammoniscono le genti di piegare il ginocchio è la bella immagine del Figlio di Dio, risuscitato dai morti e rivestito della veste incorruttibile ed immortale.

L’esodo e la liberazione (vv 23-43)

            Tutta la storia dell’esodo è riletta come iniziativa gratuita di Dio: è Lui che si rivela, che guida, che opera, che invia, che salva. Non soltanto l’uscita dall’Egitto è opera esclusiva di Dio, ma una volta nel deserto è Lui che continua a fare da protagonista, distendendo la nube miracolosa che protegge Israele dall’ardore implacabile del sole ed accendendo un fuoco nella notte, per non far disperdere il popolo su piste pericolose. Ed è ancora il Signore che come un padre si preoccupa della fame dei suoi figli. Con il v 43 si ha, inoltre, la sintesi della storia della salvezza: il popolo esce pieno di gioia e di esultanza dall’oppressione, richiamando in modo esplicito il cantico di Mosé di Es. 15, che costituisce il segno perfetto della liberazione, perché interpretazione dell’evento storico vissuto.

La terra promessa come dono e come impegno (vv 44-45)

            La terra è ormai raggiunta, ma essa non è il frutto di strategie umane, ma è puro dono di Dio, che l’ha strappata a nazioni ricche e potenti per darla ad un popolo povero e piccolo di numero. Ma la terra se è dono è anche impegno. La grazia della terra esige come risposta che vengano abitata secondo la logica eucaristica, del ringraziamento e dell’offerta, perciò il salmo si chiude con il rimando alla Torah, una legge da custodire e da osservare. E così la profesione di fede si chiude con un abbraccio di reciprocità tra il Signore ed il popolo dell’Alleanza. La terra è il luogo materiale dei beni e della liberazione fisica e sociale, ma è anche il luogo spirituale dell’adesione a Dio nell’amore e nella giustizia.

La confessione di lode e la confessione di peccato: il salmo 106

            La confessione di lode attraverso la narrazione delle meraviglie compiute dal Signore sembrava essersi chiusa con il dono della terra e l’invito a rispondere a questo dono osservando la Torah del Signore ed invece la lode si prolunga nel Salmo 106. L’invito alla lode con cui si apre il salmo ha adesso un’altra motivazione: “perché buono, perché eterna la sua misericordia (grazia, tenerezza, pietà)”. Si tratta di un versetto che conosciamo bene, perché lo abbiamo incontrato in modo litanico nel Salmo 136. Ma nel nostro salmo la lode è strettamente legata all’esperienza del peccato e di un peccato che accompagna la vita del popolo di Dio.

            Guardando la storia personale e comunitaria non c’è altra conclusione se non questa: “Abbiamo peccato come i nostri padri, abbiamo fatto il male, siamo stati empi” (v 6). La storia di Israele nel suo aspetto responsoriale all’iniziativa gratuita di Dio sembra assumere il ritmo di una chiusura continua, ostinata, frutto di paura o di presunzione. Anche di fronte al grande dono della terra le cose non cambiano ed il salmista annota con molta amarezza che “la terra fu profanata dal sangue, si contaminarono con le opere loro, si macchiarono con i loro misfatti”. Se il salmista con tutto il suo popolo ha dovuto conoscere l’amarezza dell’esilio e della diaspora, tutto questo è dovuto alla profanazione della terra santa.

            Nonostante la lunga litania di peccati, l’accento non è posto sulla irredimibilità dell’uomo, ma sulla “misericordia” di Dio, di fronte al quale l’uomo non può accampare alcun merito, ma soltanto aprirsi alla lode e all’accoglienza del perdono. In fondo il salmo ha lo scopo ultimo di celebrare la grazia divina in una maniera ancora più grande rispetto al Salmo 105, perché l’amore di Dio non si arresta nemmeno di fronte al reiterato rinnegamento da parte dell’umanità.

            Il salmo è racchiuso in unità dal tema della bontà divina, che è come uno squillo di tromba e di speranza che si diffonde per le otto scene dei peccati di Israele (la ribellione al mare dei giunchi v 6-12; la brama nel deserto v 13-15; la gelosia nell’accampamento v 1è-18; l’adorazione del vitello 19-23; la mormorazione nelle tende v 24-27; il cibo rituale di Baal-Peor v 28-31; irritazione alle acque di Meriba v 32-33; le idolatrie in Terra di Canaan v 34-46) e dall’altra parte dalla risposta benedicente dell’uomo verso Dio, il padre che punisce e perdona, lo sposo che ama oltre le infedeltà della sua amata, il pastore che attraverso la valle oscura del peccato ci conduce alla lode nel tempio.

            Emblematici dell’agire di Dio sono i vv. 44-45 con quattro verbi che illustrano in modo plastico tutto l’essere di Dio coinvolto in un atto di amore e di salvezza: guardò, ascoltò il grido, si ricordò dell’alleanza, si mosse a pietà. Perciò l’orante con tutta fiducia può dire nel suo oggi: “Salvaci, Signore Dio nostro, raccoglici di mezzo ai popoli”.