"Tempo Perso - Alla ricerca di senso nel quotidiano"

 

Scuola. 

Il modello Franti e i suoi nipotini

di Domenico Starnone

Sorprendersi perché la scuola di ogni ordine e grado non è un luogo di cherubini è un po’ ingenuo. Viviamo in un mondo violento, dove la sopraffazione è pane quotidiano. Questo ovviamente non significa che bisogna rassegnarsi a una sorta di gioco obbligato di specchi tra violenza degli adulti e violenza dei giovani. Ma ricordare, per esempio, che la scuola quella ottocentesca, quella novecentesca, non è mai stata un’isola pacifica e serena, può aiutare a riflettere sul da farsi.
Le aule sono sempre state un’area di duro conflitto. Lasciamo da parte lo scontro politico-sociale, che non ha mai avuto un peso irrilevante. Teniamoci invece alla normale giornata scolastica. Bene: anche la scuola del Cuore (1885) è segnata dalla violenza. Non si tratta solo del famigerato Franti, il cattivo per eccellenza, che a un certo punto minaccia Derossi “di piantargli un chiodo nel ventre”. C’è, nel libro, un continuo aggredire con ingiurie e mazzate. E perfino il più buono di tutti, il quattordicenne Garrone, “ha un coltello col manico di madreperla che trovò l’anno passato in piazza d’armi”. Senza contare che qualche volta anche l’ottimo maestro perde il lume della ragione e si slancia sui suoi alunni peggiori strattonandoli e trasportandoli di peso dal Direttore.
Questo per quel che riguarda la scuola elementare. Veniamo alle superiori. In un romanzo del 1909, Ribellione di Pietro Micheli, ci si imbatte in un insegnante di storia naturale, il professor Prato, che non ha il coraggio di prendersela con gli studenti più pericolosi ma, “siccome una promozione generale sarebbe stata scandalosa, ogni anno bocciava qualcuno del mansueto gregge”. Una volta succede che il pavido professore si imbatte “in una specie di sciocco, zimbello di tutti i suoi compagni”. E poiché lo zimbello di tutti i suoi compagni va male in ogni materia, Prato decide di fare l’insegnante rigoroso solo con lui e lo boccia anche in storia naturale. Non s’é accorto che il ragazzo ha invece una straordinaria passione per quella materia: “aveva in casa sua” scrive Micheli “una raccolta di insetti, imbalsamava uccelli e mostrava non solo amore ma vera attitudine a quel genere di studi”. Conseguenza: l’alunno reagisce alla bocciatura armandosi di rivoltella e sparando due colpi al professore.
Questo nei romanzi. La realtà è peggio. Quando, nel 1978, un ragazzo di diciassette anni esplode colpi “con un revolver di corta misura” contro un docente di matematica del Liceo "Vittorio Emanuele" di Palermo, il prefetto dispone che “d’ora in poi se uno studente sarà sorpreso armato in qualunque modo in un Istituto scolastico, ne dovrà essere espulso immediatamente e definitivamente”.
Dalla nostra scuola, oggi, sono provvisoriamente sparite le armi da fuoco (altrove no). Ed è sparita anche la violenza come reazione a un’ingiustizia. Restano invece maestri e professori che perdono il lume della ragione, restano gli insegnanti che fanno finta di non vedere i violenti e si rifanno "con il mansueto gregge", restano, e prosperano, i bulli che vogliono ficcare chiodi nella pancia del compagno di banco. Soprattutto resta, con connotati di volta in volta diversi, lo zimbello della classe.
Perché un gruppo di ragazzini ha bisogno di ridurre un compagno a zimbello? Di ragioni più o meno profonde se ne possono indicare un bel numero. Ma qui vale la pena sottolineare che il mondo d’oggi ha una sua ossessione pericolosa, comunemente accolta come una molla positiva: la volontà di vincere, la iattura di perdere. L’intera macchina mediatica lavora con un’intensità mai sperimentata a prefissare, a fabbricare, i tratti del vincitore e del perdente. Lo si vede nella pubblicità, nei cartoni animati, nei film, nei telefilm, nei talk-show, nel sistema delle star, nei videogiochi, nel calcio. Già quando i bambini si affacciano alla scuola dell’infanzia essi posseggono gli strumenti "culturali" per riconoscere tra loro il vincente e per vivere nell’ansia di essere il perdente.
Non solo. I due ruoli sono visti, innanzitutto dalla società adulta, senza più alcuna lealtà agonistica: la stretta di mano, il rispetto di chi vince per l’umanità di chi perde etc. Essi sono trasmessi nella loro atroce brutalità. Vince chi perseguita e schiaccia, perde chi si fa perseguitare e schiacciare. Il vincente è bello, griffato, alla moda, con le tasche zeppe di danaro, tutto lo strumentario necessario, un linguaggio sovraccarico di oscenità; il perdente è "negro", una bestia, e testimonia soltanto, col suo ruolo, del potere di chi vince. Hai insomma i tratti mediatici di chi va ritenuto lento, brutto, stupido, mal vestito, mal pettinato, con un linguaggio troppo pulito? Allora sei carne viva per esercizi di sadismo. O, se vuoi salvarti, devi farti accettare alla corte dei tuoi stessi persecutori.
La scuola dovrebbe lavorare su questo quadro d’insieme come una temibile forza in difesa dei più deboli. Invece al massimo fa un po’ di paura a chi vive già impaurito. Gli altri la considerano solo un noioso rito irrilevante, officiato, appunto, da perdenti. Cosa sono le autorità scolastiche, infatti, gli insegnanti, se non perdenti? Non si vede che non credono nemmeno loro a quello che dicono, che minacciano? Non si schierano spesso e volentieri con i più dotati, i più aggressivi, i più brillanti? Non ne sono sedotti? La scuola non sta lì apposta per ratificare fiaccamente la vittoria di chi ha la forza, il privilegio per poter vincere? Non reagisce ipocritamente di fronte alle disuguaglianze di tutti i tipi che ti rendono inadatto alla vittoria? Non le punisce, le disuguaglianze, invece che attenuarle: come se fossero una colpa?
A questo punto va segnalata la decadenza, forse la sparizione, di una figura che ha avuto tradizionalmente un ruolo importante. Si tratta del difensore dei più deboli. Non un qualche Robin Hood stipendiato, ma l’uomo comune che sapeva riconoscere, per strada, sul lavoro, dovunque, l’ingiustizia e intervenire. Questa figura � riflettiamoci - è sparita dall’orizzonte etico con la sconfitta delle culture della solidarietà, della redenzione, del riscatto. Tra la vittima e il carnefice, tra il vincente e il perdente, non si inserisce più un terzo che abbia la forza, il coraggio gratuito, di schierarsi senza mezzi termini con la vittima. Il terzo, quando appare, o è lì per sostituirsi al vincitore o per trarre spettacolo dall’esercizio della violenza. Nelle vicende recenti di violenze scolastiche la cosa più scandalosa è l’occhio che filma. C’è sempre qualcuno che non interviene per porre fine allo scempio, ma si adopera per trasformarlo in spettacolo.
La scuola dovrebbe invertire la sua tendenza e restituire aura ai difensori dei deboli, formarli. La sua salvezza, la sua rinascita, sta nella tutela fattiva dei perdenti contro i vincitori, delle vittime contro i carnefici. La sua fisionomia dovrebbe nascere dalla battaglia vera contro tutte le forme di disuguaglianza, che sono la radice di ogni violenza.

 

 testo integrale pubblicato da  "La Repubblica" - 13 marzo 2007