Leggere
gli scritti del cardinale Carlo Maria Martini è stata per
me sempre un'attrattiva e, nel caso dei commenti alla
Bibbia, l'ho sentito come un dovere ripagato sempre
da una soddisfazione spirituale. Lo scritto che ho letto sul
Sole 24 Ore di domenica scorsa mi obbliga a un commento
nell'intento di continuare il dialogo.
Un
dialogo a partire, come suggerisce in sostanza il cardinale Martini,
dal bene del paziente, al quale dobbiamo guardare tutti con impegno,
senza «negligenze terapeutiche» e con «un supplemento di saggezza»,
quando si tratta di giudicare l’appropriatezza e accettabilità
delle terapie. Proprio in questo spirito di «attento discernimento»
occorrerebbe, a mio avviso, distanziarsi dal caso Welby, che non ha
consentito un dibattito improntato alla serenità, né al dialogo
positivo tra medico e paziente, a motivo di quella politicizzazione
forzata e ideologicamente condizionata che è stata imposta.
La
definizione
È meglio parlare in generale del paziente in condizioni gravi e di
terapie appropriate nella fase critica. In questo contesto vorrei
fare, anzitutto, una precisazione sullo scritto del cardinale
Martini a proposito della definizione di eutanasia. Il cardinale
propone una definizione in questi termini: «Un gesto che intende
abbreviare la vita, causando positivamente la morte». Ora questa
definizione risulta, secondo il mio parere, insufficiente, perché
riguarda soltanto la cosiddetta eutanasia attiva; mentre è
eutanasia anche la «omissione» di una terapia efficace e dovuta,
la cui privazione causa intenzionalmente la morte. In questo senso
si realizza appunto l’eutanasia omissiva (non è appropriato
chiamarla «passiva», con un termine eticamente debole e neutro). I
documenti principali del Magistero, sia la Dichiarazione sulla
eutanasia che l’Evangelium Vitae, definiscono eutanasia «un’azione
o un’omissione che per natura sua e nell’intenzione di chi la
compie provoca la morte con l’intenzione di alleviare il dolore»
(E.V., n. 65). Si sa anche che la gravità morale dell’eutanasia
omissiva è uguale rispetto a quella dell’azione «positiva» di
intervento o gesto che causa la morte: l’una equivale all’altra
dal momento che provocano lo stesso effetto e procedono dalla stessa
intenzione. Si tratta sempre di morte provocata intenzionalmente. Se
accettassimo che l’eutanasia si configura soltanto quando è il
risultato di un gesto che causa positivamente lamorte, vorrebbe dire
che tutto ciò che mira a causare lamorte per sottrazione di
intervento (per esempio: sottrazione di cibo o una intenzionale
mancata rianimazione) non sarebbe eutanasia e, così anche, il
rifiuto intenzionale delle terapie valide non costituirebbe un
problemamorale. Il che non credo possa corrispondere alla mente del
cardinale Martini e, certamente, non corrisponde ai testi
delMagistero e della dottrina cattolica. Un’ulteriore precisazione
va data sui concetti di «accanimento terapeutico » e «proporzionalità-sproporzionalità
» delle terapie: le due nozioni sono collegate, perché per
accanimento terapeutico si intende in sostanza l’impiego di
terapie o proceduremediche di carattere sproporzionato. Queste
terapie, come dice il Catechismo della Chiesa cattolica, non
presentano una ragionevole speranza di esito positivo e pertanto ad
esse non solo si può, ma si deve rinunciare, poiché
l’accanimento terapeutico, risultante dalla sproporzionalità e
inutilità degli interventi o procedure mediche, è illecito sempre,
in quanto offende la dignità del morente. Altra cosa è
l’insistenza terapeutica, quando esiste una ragionevole speranza
del recupero del paziente. Ma il giudizio sulla proporzionalità-
sproporzionalità è un giudizio di adeguatezza omeno del tipo di
intervento e/o delmezzo terapeutico usati in ordine al
raggiungimento di un determinato obiettivo medico prefissato:
pertanto, questo giudizio richiede una valutazione che va fatta
dalmedico, sul piano squisitamente tecnico- scientifico e alla luce
dei dati di esperienza. L’esigenza del tener conto della volontà
e del parere del paziente, esigenza sentita nella dottrina
tradizionale della morale cattolica, è collegata al concetto di
ordinarietà-straordinarietà che assumono le terapie in relazione
alle condizioni fisiche, psicologiche, sociali ed economiche del
paziente considerato nella sua situazione concreta. In questo ambito
va certamente ascoltato il parere del paziente e va tenuta in conto
la sua volontà. Ciò risulta dall’insegnamento valido dai tempi
di Pio XII (cfr. Discorso del 24-11-1957) ad oggi. Ci può essere
una terapia che in sé stessa risulta proporzionata dal punto di
vista medico, ma che il singolo paziente giudica come straordinaria
e non appropriata alle sue condizioni. E, si badi bene, ciò che è
straordinario, non è moralmente proibito, bensì soltanto non
obbligatorio. Si può dare il caso di un intervento costoso oppure
rischioso per un determinato soggetto, che pur essendo medicalmente
proporzionato, non è sopportabile da quel soggetto, o non lo è più
ad un certo momento, per situazioni di carattere personale. Tali
condizioni, peraltro, pur nascendo in relazione ad un soggetto,
hanno un’oggettività e una rilevanza in base alle quali il
soggetto stesso può dare il consenso oppure può chiedere
legittimamente di rinunciarvi. In sintesi sono due i criteri che
vanno coniugati: quando si tratta di terapie proporzionate (dal
punto di vista medico) e ordinarie (dal punto di vista del
paziente), c’è l’obbligomorale di offrirle e di accettarle (a
parte la possibilità giuridica di rifiutarle); circa le terapie
sproporzionate (ordinarie o straordinarie che siano), sussiste il
dovere etico di rifiutarle, ordinariamente; per quanto riguarda poi
le terapie medicalmente proporzionate, ma che risultassero
straordinarie per il paziente, egli non sarà moralmente obbligato a
sottoporvisi, ma potrà lecitamente farlo se lo decide: l’offerta
e l’accettazione dipendono dalla matura e prudente scelta del
paziente. Su questa dottrina si può leggere con frutto il lavoro
recente diM. Calipari dal titolo: Curarsi e farsi curare: tra
abbandono del paziente e accanimento terapeutico (Ed. S. Paolo
2006). Infine, quando si parla del «rifiuto delle terapie» da
parte del paziente, il medico, pur avendo il dovere di ascoltare il
paziente, non può essere ritenuto un semplice esecutore dei suoi
voleri: se riconosce la consistenza dei motivi del rifiuto, dovrà
rispettare la volontà del paziente; se invece vi scorge un rifiuto
immotivato, è tenuto a proporre la sua posizione di coscienza e, se
del caso, proporre il ricorso all’autorità competente, ed
eventualmente, dimettere il paziente che gli è stato affidato come
responsabilità. L’automatismo instaurato dalla legge francese
(art. 6), legge citata dal cardinaleMartini nel suo articolo,
secondo la quale qualunque rifiuto delle cure da parte del paziente
deve essere accolto ed eseguito dal medico (dopo aver spiegato al
paziente gli effetti del rifiuto), può configurare un’eutanasia
omissiva sia da parte del paziente sia da parte del medico.
Le
cure palliative
Per questo non vedo come il modello francese, citato dal
cardinaleMartini ma anche suggerito da altri, possa rappresentare un
criterio moralmente valido. Io personalmente non mi auguro la stessa
cosa per l’Italia. Condividiamo tutti il richiamo del cardinale
circa l’impiego delle cure palliative, che comprendono anzitutto
la sedazione del dolore, e circa l’obbligatorietà delle cure
ordinarie (distinte dalle terapie!), quali l’alimentazione,
l’idratazione e la cura del corpo, che rimangono obbligatorie
sempre, anche qualora si tratti di pazienti in stato vegetativo
persistente. Circa eventuali ulteriori interventi legislativi per
garantire la legittimità del rifiuto delle terapie, non so se ciò
sia necessario; semmai dovrebbe avvenire per garantire anche la
coscienza delmedico ed evitare anche l’introduzione surrettizia
dell’eutanasia omissiva alla maniera francese.
L’assistenza
Rimane, invece, da chiedere tutto lo sforzo dello Stato e della
comunità per l’adeguatezza dell’assistenza terapeutica,
palliativa e umana specialmente nell’attuale clima di difficoltà
nelle strutture sottoposte a restrizioni di spese e di personale, e
specialmente quando si tratta di malati anziani e non
autosufficienti. Rimane anche urgente il discorso di una formazione
etico-deontologica del personale medico-assistenziale di fronte alla
complessità dei problemi ed anche di fronte alla non chiarezza di
alcune tendenze culturali favorevoli all’eutanasia, mascherata di
rivendicazione di autonomia e afflitta dalla solitudine morale.
L’autonomia vera, cui allude lo scritto del cardinale, quando
invita a guardare in Alto, si determina con l’accettazione
consapevole del dono di sé anche nel momento di una morte accolta
ed offerta, offerta che dovrebbe compiere in pienezza il dono di sé,
fatto durante i tempi della salute e dell’impegno lavorativo.