Il
gesto violento nella scuola
di
Michele Serra
Il
discorso sulla scuola incute soggezione come pochi altri, tanto delicato e
intricato è il rapporto tra la responsabilità degli adulti e la caotica
fatica di chi sta crescendo, e crescendo sbanda e impara, sbaglia e
riparte. Però vedo, come tutti, che uno dei due attori di questo rapporto
gli adulti è come se avesse smarrito il copione, e non sapesse bene che
dire e che fare. E quando leggo penose storie come quella dei genitori
pugliesi che pestano a sangue un povero preside che ha osato anteporre
qualche buona regola (telefonino spento a scuola) a qualche pessima
usanza, mi vengono pensieri foschi sullo stato mentale dei grandi, che
sono perfino più piccoli dei piccoli quando si tratti di stabilire che A
viene prima di B, non dopo.
Quando a scuola ci andavo io (anni Sessanta e Settanta) il rapporto tra
famiglie e professori era scontatamente solidale. Il colloquio tra madri
(più raramente padri) e docenti era, per ogni studente, un incubo rituale
e una sentenza scontata: il mondo adulto era strutturato attorno a un
pacchetto di regole (la disciplina, il merito e il demerito, perfino la
durezza delle selezione) che governava saldamente i diversi ruoli �
genitori, professori, studenti. Poi gli sconquassi sociali hanno
facilmente e anche giustamente avuto la meglio sulla devozione quasi
bigotta al "merito", smascherato come alibi di classe (don
Milani) e ripudiato come scorciatoia pedagogica: la fatica di educare, e
perfino di dare un´istruzione, non può esaurirsi nel vaglio dei bravi e
dei meno bravi. Ma al posto di quel vecchio sistema classista e
funzionale, di quegli automatismi ipocriti ma efficienti, siamo riusciti a
metterci qualcosa di sensato, che sia intelligibile ai ragazzi come agli
adulti?
A me pare di no. La presenza dei genitori a scuola, santificata con ottimi
propositi e incerti esiti dai decreti delegati, è in genere una gnagnera
petulante e assolutoria nei confronti dei figli, le cui madri e i cui
padri vedono spesso nel professore un giudice maldestro e poco autorevole.
Alla tradizionale complicità tra famiglia e scuola, si è via via
sostituito un contenzioso imbarazzato e imbarazzante, che vede da una
parte docenti minati nella loro autorità (e nelle loro tasche, e nel loro
prestigio sociale), dall´altra genitori nevroticamente protettivi.
Si può dire, e va detto, che è una enorme responsabilità politica delle
classi di governo degli ultimi decenni avere assistito senza reagire al
progressivo deperimento sociale ed economico del ruolo, delicatissimo, dei
docenti: in un paese arricchito vorticosamente, e deperito culturalmente,
è inevitabile che scatti, in molti genitori, una sorta di complesso di
superiorità sociale nei confronti di professori visti come impiegati
dello Stato malpagati. Se era desolante, una volta, vedere genitori di
basso censo presentarsi davanti ai professori a testa bassa, convinti
comunque di non essere all´altezza, non lo è meno, oggi, vedere certi
buzzurri pretenziosi che affrontano i prof al solo scopo di controllare
che il loro figliolo non debba patire qualche affronto da un´autorità
inferiore...
Ma in aggiunta a questo, pesa anche la congiunzione fatale tra il nuovo
lassismo educativo (lì sì che si può dire "relativismo
etico": e vale per le famiglie tanto quanto per la scuola) e l´antica
piaga del familismo italiano. L´iperprottetività nei confronti dei figli
scolari si sposa al disprezzo per lo Stato, che sempre più spesso non
viene più visto come un dispensatore di regole, ma come un impiccio, o
una intrusione ostile.
Naturalmente il bullismo dei genitori, vedi il caso pugliese, è un caso
estremo. Ma basta frequentare lo sport giovanile (il calcio soprattutto)
per scoprire ovunque padri e madri che pur di vedere i figli prevalere
dimenticano in un istante etica e regole, educazione e cultura sportiva. A
bordo campo, nei mille campetti dello sport giovanile, pullulano padri
ossessi che inveiscono contro gli arbitri e gli avversari, certi come sono
che solo il trionfo del loro pupillo possa dare un significato alla
pratica dell´agonismo. La famiglia, della quale si parla e straparla
caricandola di ogni virtù ma anche di ogni peso, va gonfiandosi di
responsabilità che in una società moderna dovrebbero essere spalmate
anche altrove, nella scuola di Stato soprattutto, nella scuola di Stato
prima di tutto. (E stendiamo un velo pietoso sui danni ferali, finanziari
e non, inflitti alla scuola pubblica per inseguire l´obiettivo ideologico
della "parità" con gli istituti privati).
Esiste perfino uno specifico professionale, in chi esercita la pedagogia
come mestiere, che non può essere surrogato dai genitori, e dovrebbe
essere inviolabile: quando un figlio va a scuola, vuol dire che lo si
consegna a un sistema di regole, di comportamenti e di socialità che è
diverso e autonomo rispetto alla famiglia. Nella vecchia scuola italiana,
con tutti i suoi limiti, questo principio era così scontato che era
rarissimo che un genitore mettesse in discussione il giudizio di un
professore (anche quando, magari, sarebbe stato necessario...). Il
famigerato e temutissimo colloquio tra genitori e prof cadeva una o due
volte l´anno: per il resto noi studenti avevamo la netta impressione che
i genitori fossero distratti o assenti, salvo poi temerne le reazioni
presentando la pagella. In realtà, era allora scontato che la scuola
prendesse in consegna i ragazzi e li passasse al vaglio in perfetta
autonomia.
Tra l´altro, quel don Milani sempre invocato quando si vuole sottolineare
l´insostenibilità della scuola di classe di una volta, era un docente (e
una persona) per niente accomodante. E dava all´insegnamento, all´esperienza
collettiva del "fare scuola", quasi lo stesso peso (alternativo
alla famiglia) del kibbutz, della comunità educatrice pensante. Pubblica
e soprattutto autonoma dalle famiglie. Oggi, probabilmente, avrebbe molto
da dire sull´atteggiamento intrusivo e assolutorio dei genitori, e sulla
caduta di autorità dei docenti. Da cattolico e da insegnante, dopo avere
scosso dalle fondamenta la scuola di classe, avrebbe sicuramente molto da
dire sulla scuola-parcheggio. A ben vedere, una maniera differente e
indiretta di essere classista: saranno le famiglie di origine a
provvedere, secondo il censo, a sistemare il figliolo. Senza nemmeno
scomodare il criterio dei meriti e dei demeriti.
testo
integrale pubblicato da "La Repubblica" - 13 marzo 2007