"Tempo Perso - Alla ricerca di senso nel quotidiano"
IL CONCRETO DELLO SPIRITO Accoglienza di Lilia Sebastiani Accoglienza è parola importante oggi, e potrebbe dirsi 'di moda' con tutte le implicazioni non liete che sono proprie delle cose di moda -, ma al primo udirla sembra evocare per noi preoccupazioni e polemiche di tipo sociale, umanitario; certo urgenti, certo non ignorabili, che tuttavia non dovrebbero monopolizzare il senso dell'accoglienza, perché il risultato sarebbe una riflessione a troppo breve termine. Quando riflettiamo sull'accoglienza dell'immigrato, dello straniero più debole, è inevitabile attribuire responsabilità ad altri (che magari le hanno davvero!) ben più che a noi stessi, confondendo la responsabilità etica con la facoltà di prendere decisioni. Inevitabilmente trascuriamo la responsabilità 'nostra', etica, interiore nell'accoglienza, il compito di diventare persone accoglienti di fuori e di dentro; più in generale, la sorgente e le caratteristiche e dunque le esigenze dell'accoglienza come valore. idea moderna, radici antiche La parola in senso traslato è moderna e deriva da ad-colligere: ad+cum+lego, 'raccogliere insieme', ma con in più un'idea di destinazione, di finalità, di intenzione. Una riflessione teologica sull'accoglienza, se non vuole diventare una piccola predica generica (perciò facile e indolore) deve necessariamente prendere le mosse dalla Scrittura. E le radici bibliche dell'accoglienza ci trasmettono un'idea di estrema concretezza e dalle trasparenti implicazioni per l'oggi. Nella Scrittura accogliere significa aprire la porta allo straniero o al viandante, far entrare in casa propria, ospitare insomma. Qualcosa di molto visibile e tangibile. Non solo nel mondo biblico, ma in quasi tutte le civiltà antiche si può riscontrare la grande importanza etica attribuita all' ospitalità. Il primo grande esempio autorevole di accoglienza nella Bibbia è quello di Abramo alle Querce di Mamre (Gn 18), raccontato con particolare attenzione. Abramo accoglie 'tre uomini', tre sconosciuti viandanti, ma l'autore sacro è esplicito sul fatto che accogliere quei tre equivale ad accogliere il Signore: singolare e plurale, ospiti e Dio sembrano del tutto intercambiabili nel racconto. E soprattutto la pronta e totale disponibilità di Abramo non solo ad accogliere i tre viandanti, ma a onorarli con tutte le sue forze - anche quando non ha la minima idea di chi siano in realtà -, sembra in parallelo, esistenzialmente e spiritualmente, con il suo credere-obbedire a Dio. Esempi di accoglienza veramente luminosi sono anche legati all'evento di Gesù: i primi che si presentano alla nostra mente, non certo gli unici però, sono due indimenticabili esempi lucani: Marta e Maria, Zaccheo. Marta e Maria, che avremmo torto a contrapporre troppo nettamente, da questo punto di vista incarnano le due dimensioni ineliminabili dell'accoglienza vera: l'accoglienza come servizio, l'accoglienza come ascolto. Anche se nell'episodio lucano Maria risulta nettamente preferita a sua sorella, il messaggio dell'una e quello dell'altra si danno verità e valore a vicenda. Zaccheo, peccatore conquistato da Gesù, manifesta la sua conversione non con lacrimose manifestazioni di pentimento, ma con lo slancio sincero verso Gesù. E Gesù che per primo lo accoglie: «Oggi devo fermarmi in casa tua». E Zaccheo «lo accolse pieno di gioia»: la gioia è importante, indice di autenticità e di pienezza. Un' accoglienza senza gioia non sarebbe accoglienza, al più uno sforzo virtuoso, una fase di passaggio che chiede di essere trascesa. Zaccheo accoglie Gesù in casa sua e lo invita a pranzo. Un grande e lieto e strano pranzo, sembra, a cui partecipano molte persone quantomeno discutibili, soprattutto colleghi di Zaccheo, pubblicani come lui e come lui molto malvisti, ma come lui forse accolti e guariti da Gesù: non con vibrati ammonimenti né con una completa catechesi penitenziale, ma con la presenza e la commensalità. Sulla linea dell' accoglienza è anche il commento finale di Gesù: «Oggi la salvezza è entrata in questa casa». E ha trovato, vorremmo aggiungere, una casa accogliente. Nel momento supremo della morte in croce, secondo il quarto vangelo, Gesù affida il discepolo amato alla madre e la madre al discepolo; «e da quel momento» dice con misteriosa semplicità l'evangelista «il discepolo la prese nella sua casa» (o: tra le sue cose, cioè «tra ciò che lo riguardava»). Di Maria non viene neppure detto che accoglie il discepolo, perché non ve n'è bisogno. Un'accoglienza reciproca, dunque, che non è solo un fatto di pietas, non riguarda la bontà e la gentilezza di singole persone; piuttosto un evento ecclesiale fondante, il cui valore simbolico si estende attraverso luoghi e tempi. Incontriamo molte persone 'accoglienti' nella Bibbia, molti esempi di accoglienza come ospitalità, mentre non incontriamo in teoria, almeno -l'accoglienza quale potremmo pensarla oggi, l'accoglienza come atteggiamento e come valore. E si capisce: la mentalità semitica non ama né adopera la riflessione su concetti astratti. Ma la centralità data all'accoglienza concreta dell'altro (conosciuto o sconosciuto, lontano o vicino), rinvia in ogni caso a tutto un modo di pensare e a una scelta di vita. L'accoglienza come valore ideale appare declinata in modi diversi, tra cui primeggiano l'ascolto e la meditazione. Ed è questo soprattutto il messaggio biblico che ci interpella oggi, in questo nostro tempo così dispersivo, così 'centrifugo', anche troppo ricco di stimoli, forse, ma spesso troppo carente di ispirazione. Maria è icona dell'accoglienza perché non nasce con una santità già pronta per l'uso, non ha capito tutto sin dal principio, ma cammina nella fede accettando una lenta rivelazione attraverso il tempo e i segni, come ogni altra creatura umana; conservando nel cuore, come dice a due riprese Luca nel cap. 2, anche quello che non riesce a comprendere. L'accoglienza infatti è soprattutto ascolto. E l'ascolto dice in primo luogo attenzione, intenzione. Non è casuale che in molti dipinti del Rinascimento Maria nell'atto dell'Annunciazione venga raffigurata con un libro in mano: quella a cui si allude non è una lettura qualsiasi, ma evoca la meditazione assidua dei misteri di Dio.
accogliere l'altro in sé Accogliere l'altro non significa dire "va bene, entra, io non ho niente in contrario": questa nel migliore dei casi è un' accoglienza passiva, ancor più spesso una falsa accoglienza fuorviante, generatrice di sospetti, divisioni e solitudini ancor più accentuate, tanto più fune sta poi in quanto squalifica e rende sospetta l'idea stessa di accoglienza. Invece l'accoglienza vera è sempre attiva, e significa fare spazio all'altro nel proprio ambiente vitale, ospitarlo in sé. Significa innescare un processo di reciproca trasformazione: io accolgo l'altro se 'divento' in parte l'altro, e se l'altro a sua volta diventa in parte me. I due processi non sono necessariamente simultanei, anzi di solito non lo sono; ma la trasformazione di uno dei due poli umani non rimane mai senza effetto sull'altro. Accogliere un altro significa poi aprirsi al mistero della presenza e dell' agire di Dio nell'altro, che è sorprendente in quanto 'simile a me' assai più di quanto sembri, e insieme diverso da me, anche più di quanto pensassi; di una differenza che non va ridotta ma illuminata. È faticoso mettere in parole questa realtà umanissima della vocazione all'incontro, e vi è sempre il rischio che venga recepita come invito a perdere il proprio specifico le proprie idee, la propria identità ... , e la fede, naturalmente. Niente di tutto questo. Incontrandosi, i 'due' (che possono essere due persone, due gruppi, due scelte di vita) non possono, non devono ridursi a uno, quasi che l'elemento più forte dovesse per forza ingoiare l'altro o quantomeno piallarlo per renderlo innocuo. Nell'incontro vero, nell'accoglienza reciproca, i due non diventano uno, semmai tre. Sì, perché nell'autentica accoglienza reciproca lo Spirito Santo, realtà troppo spesso latitante nella nostra esperienza di fede, di spiega tutto il suo protagonismo e si fa sperimentabile, si lascia incontrare e perfeziona l'opera di creazione. Se la creazione è il momento che separa per individuare (Dio pone dinanzi a sé qualcosa come 'altro' da sé, non però estraneo), l'Alleanza sarà il momento dell'incontro. Con l'Alleanza Dio chiama gli esseri umani a un cammino comune, alla condivisione della propria vita divina, e attraverso loro la chiamata coinvolge l'intera creazione. Ma nel mistero dell' amore di Dio anche la creazione-separazione è un atto di infinita accoglienza: ricordiamo qui le recenti letture della creazione come 'autolimitazione' di Dio, che in qualche modo si tira in disparte, accetta di limitare il suo infinito per fare spazio al finito, perché l'essere umano nato dal suo amore sia veramente autonomo e artefice della propria libertà.
accogliere per trovarsi Per diventare capaci di accoglienza occorre vincere la paura di perdersi; ma solo nella chiusura paurosa ci si perde, e si perde la propria vita come possibilità unica di salvezza e relazione. Invece l'apertura all'altro rivela me a me stesso. L'io non può scoprirsi come 'io' se non quando scopre il tu: individualità e alterità procedono insieme e insieme si illuminano e si approfondiscono. Infatti non può chiamarsi un sentimento di identità personale lo spontaneo inconsapevole egocentrismo del bambino piccolo: l'identità prende forma via via che il bambino si apre alla scoperta del mondo, degli altri in generale e dell'altro, del Tu in particolare. La capacità di apertura e di accoglienza segna la raggiunta 'maggiore età' relazionale. Per aprirsi al Tu (e per far sgorgare dal'io-tu un noi capace di migliorare e sanare il tessuto complessivo dei rapporti umani) occorre che l'io sia ben strutturato. In altre parole, per donarsi è necessario possedersi. Questo tema infinito dell'apertura all'altro come rivelazione della trascendenza e chiave dell' esperienza etica è stato sviluppato in particolare da Emmanuel Lévinas. Il rapporto con l'altro non è immediato e spontaneo, non si può ridurre al bisogno degli altri - che pure si potrebbe leggere come una sorta di memoria della nostra vocazione all'accoglienza. Secondo Lévinas il rapporto con l'altro, se autentico, è mediato dall'Infinito. Culmine dell'identità è la distinzione; culmine dell'amore che accoglie, l'alterità personale pienamente realizzata nel rapporto. Culmine della giustizia poi è il faccia a faccia con l'altro, tutto quanto m'impedisce di ridurre l'altro a me: per questo Lévinas può affermare che il principio primo dell'etica è la separazione, ossia il muoversi verso l'altro richiede di sentirlo come altro da sé Per questo all' essere umano è necessario un aiuto «come contro lui» (è l'espressione famosa di Gen 2 ancora tradotta di solito, molto male, «un aiuto che gli sia simile»). Come contro lui: la traduzione letterale dell'espressione ebraica è per noi ricca di suggestioni umane e teologiche, in quanto ricorda anche la scintilla di conflittualità, di 'rischio' insita in ogni rapporto umano autentico e la sua vocazione a evolversi in una superiore realtà di incontro, a guardare l'altro, qualsiasi altro, negli occhi (cioè nelle sue profondità umane, nel suo mistero: da sempre gli occhi sono considerati via privilegiata d'accesso all'interiorità). Qui ci torna alla mente il duplice senso che il verbo regarder assume nella riflessione di Lévinas, anche se in italiano occorrono due verbi per esprimerlo: l'altro mi 'guarda', l'altro mi 'riguarda'! Con il messaggio di Gesù l'accoglienza riceve un impulso radicalmente nuovo anche se in continuità con l'antropologia teo-logica del Primo Testamento. Gesù di accoglienza parla moltissimo, anche se non usa il termine e le sue abitudini linguistiche sono diverse dalle nostre . L’evangelo, la buona notizia, è in effetti una notizia e un evento di accoglienza. Questa dimensione è forse particolarmente avvertibile in Luca, l'evangelista dei lontani. Gesù accoglie soprattutto in quanto prende sul serio quelli che incontra, li interpella a fondo e si lascia anche interpellare da loro. Accoglie con la sua mitezza, l'attenzione, la tenerezza; ma anche con la sua bruschezza e imprevedibilità di certi momenti. Così la comunità di quelli che credono in Gesù attraverso i tempi dovrebbe essere in primo luogo una comunità 'accogliente'. E ciò non significa solo che accoglie di buon grado quanti vogliono entrarvi ... alle sue condizioni, beninteso. Non è questa l'accoglienza. Gesù prima di tornare al Padre lascia ai suoi il comando dell'amore: «Amatevi gli uni gli altri come io vi ho amato». Di un amore incondizionato e misurabile solo con la dismisura, come il suo. Di un amore che non è vaga agitazione emozionale (la quale talvolta può esservi e talvolta no, e comunque è più un'estensione del soggetto amante che un'apertura all'altro); è invece attenzione, sollecitudine, tenerezza, capacità di perdonare e risanare. Anche capacità di sorprendere e provocare, capacità di collera che non è negativa ma equivale a un amore intensificato. E capacità di accettare veramente l'altro nella sua alterità, nei suoi bisogni che di solito non coincidono con i miei, anche nel male che occasionalmente può cagionarmi. Solo chi si sente amato e accolto diventa capace a sua volta di amare, di abbandonarsi, di accogliere. Accoglienza significa mettersi nei panni dell'altro (nulla di nuovo: pensiamo alla centralità della 'regola aurea' nei due Testamenti), e accoglienza potrebbe essere il nuovo nome dell'umiltà, meno sfigurato da false interpretazioni e forse più comprensibile per il nostro tempo, così come la solidarietà viene avvertita spesso come la nuova declinazione della carità teologale. La conversione personale all'accoglienza è ovviamente necessaria, ma potrebbe essere insufficiente se non porta con sé una scelta decisa in favore della comunità umana, un'azione che tenda a influire sulle strutture troppo spesso infette di rifiuti, egoismi e particolarismi. La vocazione della comunità cristiana da questo punto di vista è indiscutibilmente quella di essere una comunità di amore vero, tale da poter essere quasi sacramento (nel senso classico di 'segno efficace') dell' amore di Dio per noi, da poter rendere vivente comunicativo e sperimentabile quell' amore.
testo integrale pubblicato da "Rocca" n. 2 - 15 gennaio 2007 |