"Tempo Perso - Alla ricerca di senso nel quotidiano"  -  Sezione "SPIRITUALITA' E FEDE"



  

Riflessione pubblicata su HOREB numero 52 – 1/2009.

                                      "Come forestieri e pellegrini nella storia. La laicità della vita cristiana" 

STARE PRESSO LA CASA DEGLI UOMINI

La parrocchia*

di Cosimo Scordato


Dopo una iniziale considerazione di carattere linguistico, tentiamo di offrire alcune indicazioni sui diversi modelli storici di paroichia, per puntare ad un ripensamento delle nostre comunità.

 

Paroichia per modelli

 

Giuridicamente, la parrocchia può essere definita come una porzione di territorio di una diocesi, con assegnazione di un determinato popolo di fedeli e di un ecclesiastico che provvede alla cura delle anime; è interessante, però, l’etimologia del termine, che viene dal tardo latino, trascrivendo da paroichia: «propriamente “abitazione vicina, gruppo di case vicine”, composto da para- ed oikos ‘casa’»[1]. Probabilmente il termine è riconducibile, in qualche modo, al dato neotestamentario, ma ha avuto diverse intonazioni a seconda delle epoche storiche.

Senza alcuna pretesa di compiutezza storica, tentiamo di individuare alcuni modelli storici, secondo i quali il ritrovarsi dei cristiani ha preso diversa forma; detta ricostruzione, piuttosto ideale, ha il compito di far cogliere da un lato, la diversità di accentuazioni che caratterizzano i suddetti modelli; dall’altro lato, la loro rilettura ha il compito di sollecitare il recupero dei loro aspetti positivi.

 

La chiesa in casa: la kat’oikon ecclesìa

Inizialmente il termine  chiesa-ekklesìa non ha alcun significato di carattere materiale; piuttosto è categoria escatologica che, sulla linea della qahal anticotestamentaria, annunzia la convocazione di tutti gli uomini in Gesù Cristo; essa è categoria interpersonale che evoca la nuova relazione scaturente non dai vincoli precedenti, ma dalla intenzionalità divina originaria ed ultima. Il mistero di Cristo ispira la nuova concezione del culto e della comunità; il vero tempio è Gesù Cristo e le pietre vive sono gli stessi cristiani. Se inizialmente i cristiani continuano a frequentare il tempio, a poco a poco si fa strada il senso del nuovo culto nello Spirito di Cristo. L’incontrarsi nelle case ed il reciproco riconoscersi come fratelli-sorelle delineano la nuova condizione escatologica che, seppure idealizzata nel linguaggio degli Atti degli Apostoli, lascia intravedere il nuovo orientamento comunitario.

 

«Concretamente: il culto dell’Antico Testamento, cioè il tempio e i sacrifici, il sabato, la circoncisione e le cerimonie, è abolito; tutto questo non vale più o, piuttosto, viene spiritualizzato, cristologizzato, escatologizzato; per esempio, il tempio è ormai Cristo, la comunità cristiana anticipa il nuovo vero paradiso (la nuova celeste Gerusalemme), […] In tal modo troviamo nel Nuovo Testamento l’adorazione vera del Padre per mezzo di Gesù Cristo ‘in spirito e verità’, nella proclamazione dell’evento Cristo Gesù, nella parola e nelle azioni costituite non già secondo le forme del culto cerimoniale dell’Antico Testamento, ma secondo quelle più spiritualizzate della sinagoga e della vita giudaica di quel tempo»[2].

 

L’organizzazione della vita cristiana, a sua volta, si caratterizza per la semplicità; non si tratta di grandi comunità; gli atti di culto principali sono l’iniziazione (nella sua forma originaria di battesimo e dono dello Spirito), l’accoglienza della didache apostolica e la partecipazione allo spezzare il pane; i luoghi di raduno sono le case delle famiglie più rilevanti.

Tra le espressioni più significative che designano il luogo di incontro della comunità locale troviamo: kat’oikon ecclesia, che potremmo tradurre “chiesa-convocazione presso la casa”, ovvero chiesa domestica. Dalle indicazioni del vangelo, degli Atti, delle lettere paoline ritroviamo la piccola comunità cristiana raccolta in una casa. «Entrati in una casa rimanetevi» (Mt 10,11.13 e par); «ogni giorno perseveravano concordemente nel tempio e spezzavano il pane nelle case (kat’oikon) e prendevano il cibo con gioia e semplicità di cuore, lodando Dio e godendo il favore di tutto il popolo» (At 2,46-47)[3]. «Salutate Prisca ed Aquila, i miei collaboratori in Cristo Gesù… Salutate anche la comunità-chiesa che si riunisce in casa loro (e kat’oikon auton ecclesia (Rm 16,5). «Vi salutano le chiese dell’Asia; vi salutano molto nel Signore Aquila e Priscilla con la sua chiesa domestica (sun te kat’oikon auton ecclesia); vi salutano i fratelli tutti» (1Cor 16,19). «Alla chiesa che si raduna nella tua casa (te kat’oikon sou ecclesia (Fm 2). «Salutate i fratelli di Laodicea e Ninfa con la comunità che si raduna nella sua casa (ten kat’oikon autou ecclesia)» (Col 4,15). Dopo avere esortato il vescovo perché sappia dirigere bene la propria famiglia, Paolo aggiunge: «Ti scrivo queste cose nella speranza di venire presso di te; ma se dovessi tardare, voglio che tu sappia come comportarti nella casa di Dio (en oiko teou), che è la chiesa del Dio vivente, colonna e sostegno della verità… » (1Tim 3,15; cf. anche Eb 3,5-6).

L’individuazione del luogo di culto nella vita familiare va assunto non come una mancanza di qualcosa, quanto piuttosto come affermazione dei nuovi rapporti istaurati da Dio stesso; sullo sfondo cristologico del dimorare di Dio[4] che nel Risorto è presente laddove si trova l’uomo, si sviluppa un nuovo senso dello spazio-tempo della comunità cristiana, segnata dalla presenza viva del Signore risorto, in un dinamismo relazionale che cerca di superare i limiti della convivenza umana.

L’assunzione dello spazio familiare è in continuità col gesto divino di porre-la-sua-dimora in mezzo agli uomini; in questo modo, la familiarità tra gli uomini viene ripensata superando i vincoli di sangue o di appartenenza ad una stirpe, per attingere all’iniziativa di Dio, fonte e meta della familiarità umana.

D’altra parte, la comunità, protesa escatologicamente verso la “venuta del Signore”, non sente di promuovere luoghi permanenti e resta sbilanciata verso il compimento della storia salvifica. Non a caso, 2Pt 5,1-2 distingue l’oikìa costruita da mano d’uomo e l’oikia, non fatta da mano d’uomo; se la prima presenta la sua condizione di provvisorietà, quella costruita da Dio viene edificata nel cielo; da qui il senso della casa come tenda che va montata e smontata in cammino verso Dio.

 

Dalla casa in chiesa alla domus-casa del popolo di Dio radunato

 Il diffondersi del cristianesimo, inizialmente nelle grandi città (per lo più marinare) e, successivamente anche nell’entroterra, comporta l’esigenza di individuare luoghi più ampi per consentire maggiore afflusso delle persone[5]; lentamente assistiamo al passaggio dalla domus ecclesiae all’aula ecclesiae[6]. Assecondando la coeva esperienza proveniente dal mondo pagano[7] e giudaico [8], la domus si va qualificando in senso cultuale; tra gli esempi più noti va ricordata Dura Europos (230), stazione commerciale e città di frontiera siriana. A poco a poco l’aula perde il suo uso polifunzionale, integrato nella vita della famiglia, e viene riservata soltanto all’uso cultuale. Questo viene favorito da donazioni di persone benestanti o di vescovi che destinano la loro casa a servizio della comunità[9].

Il passaggio ulteriore è il configurarsi del luogo di culto nella sua specificità strutturale rispetto alle altre forme di edilizia; in ambiente occidentale, particolare fortuna, ha avuto la forma della basilica, che darà un nuovo volto all’Europa cristiana, determinando lo sviluppo urbanistico delle città.

 

La chiesa dal centro alla periferia

 Nel contesto della societas christiana la chiesa diventa il centro dell’organizzazione urbanistica della società[10]; è probabilmente all’interno di questo processo di qualificazione che va compresa la nascita della parrocchia in quanto articolazione dello spazio di una diocesi; collegando il termine alla dinamica precedentemente accennata, la paroichìa è un insieme di case e di famiglie che si ritrovano insieme a gravitare intorno a quella oichìa (casa), divenuta luogo di riferimento e che presiede anche all’organizzazione della vita comunitaria. In verità, lo sviluppo della parrocchia, sia come istituto giuridico che come articolazione pastorale, avviene lentamente nel corso dei secoli; in particolare, la vita della parrocchia si intreccia con le altre forme di vita ecclesiale: gli ordini religiosi presenti nel territorio, le diverse aggregazioni di carattere laicale (congregazioni, confraternite, compagnie…), i capitoli delle cattedrali e così via.

I due modelli di parrocchia più vicini a noi sono: quello nato dalla riforma del Concilio di Trento e quello nato dal rinnovamento proposto dal Concilio Vaticano II. Rispetto alla riforma tridentina la parrocchia si caratterizza per la sua connotazione territoriale; la chiesa parrocchiale è il luogo principale della promozione della vita cristiana per gli aspetti di carattere dottrinale (catechismo), e per la celebrazione dei sacramenti; e questo in risposta alla condizione di decadimento che il Concilio aveva denunziato e come proposta che ristabiliva una certa disciplina ecclesiale. Detta esigenza, però, correva il rischio di favorire un’accentuata concezione giuridica secondo la quale l’adempimento delle regole ecclesiastiche garantiva la vita cristiana. In verità, gli attraversamenti del territorio parrocchiale (devozioni popolari, presenza di ordini religiosi, missioni popolari, iniziative di tipo assistenziale…) consentivano di potere accedere anche ad altre “proposte” di vita cristiana.

Finché ha retto la societas christiana, c’è stata una certa coincidenza tra il territorio e le espressioni di vita religiosa che ne costituivano una parte integrante; lentamente, la parrocchia tradizionale è entrata in crisi. Infatti, da un lato, il venir meno del regime di cristianità, con la distinzione dei due diversi ambiti della vita religiosa e della vita socio-politica e culturale; dall’altro lato, lo svilupparsi di altri centri di aggregazione (industrializzazione, lavoro, interessi nuovi…) che cominciano a dare un’impronta diversa allo sviluppo urbanistico, creano una certa tensione col principio della territorialità, sul quale si regge la comunità parrocchiale. Le città cambiano volto e così l’organizzazione del territorio prende nuove forme.

Il Concilio Vaticano II è consapevole delle trasformazioni dell’impianto tradizionale, oltre che della crisi irreversibile del regime di cristianità; per certi versi, ne riconosce anche il valore positivo considerando detta transizione come una opportunità di rinnovamento per la chiesa; questo comporta, però, il ripensamento del rapporto con la modernità, l’attenzione alle trasformazioni epocali, l’apertura al dialogo ecumenico ed interreligioso, oltre che l’assunzione delle nuove sensibilità (pace, disarmo, giustizia sociale, ecologia…), mentre la Chiesa  si impegna a vivere l’epoca contemporanea facendo proprie le gioie e le speranze dell’uomo di ogni tempo e di ogni luogo.

In questo orizzonte la vita parrocchiale viene ripensata all’interno della riscoperta chiesa locale e ne condivide, nel frammento del territorio, le dimensioni di comunità in cammino, sorretta dalla parola di Dio, alimentata dai sacramenti, pronta ad offrire la propria diaconia ai bisogni del mondo. Un doppio impegno la connota: il suo legame al territorio, all’interno del quale deve trovare la possibilità di incarnare il messaggio evangelico; l’apertura, attraverso la chiesa locale, alla mondialità ed ai problemi che ne rendono vicina l’influenza. 

 

Ripensando la paroichìa

 
La ricostruzione dei modelli precedenti ci consente di recuperare gli aspetti positivi di ciascuno di essi, ma lasciandoci anche provocare dai compiti nuovi cui la comunità parrocchiale è chiamata.

 

Carattere transitorio

 La prima osservazione, attraverso l’accostamento casa-tenda, vuole recuperare l’aspetto transitorio di ogni realizzazione; Gv 1,14 usa la felice espressione: «il Verbo si è fatto carne e pose la tenda in mezzo a noi»; la tenda non va intesa come qualcosa di estrinseco alla persona del Verbo (il rischio docetista di sottovalutare la dimensione umana di Gesù compromettendo il suo profondo coinvolgimento nella carne dell’uomo); piuttosto, oltre alle molteplici allusioni veterotestamentarie (dalla tenda dell’alleanza alla tenda delle tavole della Legge …), essa designa la condizione itinerante della vita umana: l’homo viator (G. Marcel) si caratterizza sia per il montare-smontare la tenda e quindi per la consapevolezza di non disporre di alcunché in senso definitivo; sia per il cammino che l’idea della tenda implica, comportando l’attitudine fondamentale della ricerca e dell’apertura instancabile alla scoperta.

Questa condizione si fa strada tra due estremi. Il primo estremo si traduce nel sottovalutare il tempo ed il luogo presenti e quindi la storia nel suo complesso; partendo dalla parzialità e provvisorietà della vicenda personale, la storia non può essere vissuta fino in fondo; da qui è venuta al cristiano l’accusa della fuga dal mondo e dell’alienazione, diventando egli, inevitabilmente anche se non sempre consapevolmente, corresponsabile rispetto ad ogni status quo, lasciato così come è. Il secondo estremo è quello che riduce la scelta di fede nell’impegno politico a cambiare il mondo; prendendo sul serio il proprio essere-nel-mondo ci si sente responsabili di tutto quello che in esso avviene e allora ci si impegna in esso come se non ci fosse alcun residuo rispetto alla storia nella concretezza dei suoi appelli e delle sue realizzazioni. In verità, deve essere vissuto in maniera equilibrata sia il radicale impegno per questo mondo, che va amato radicalmente come Dio stesso che per esso ha donato il suo Figlio, sia l’attesa di un compimento che, anticipato per quanto possibile nei frammenti della storia, va oltre di essi e si prospetta come cammino verso la pienezza, che solo parzialmente è disponibile all’uomo e che resta supremo dono di Dio.

 

Dimensione territoriale e planetaria

 La seconda osservazione è relativa alla circolarità tra il qui ed ora, e l’altrove planetario. L’accoglienza del Risorto da parte della comunità credente comporta che l’evento salvifico venga coniugato con l’autorealizzazione della persona ed il compimento della storia umana: l’uomo è chiamato a sperimentare la liberazione piena da ogni schiavitù e la bellezza di una libertà creativa nella sua condizione personale e comunitaria, ma altrettanto avverte di essere affidatario del mondo[11]. Da una parte, l’essere-nel-mondo va vissuto nel dialogo sereno con le istanze della contemporaneità, assumendo i problemi epocali nella consapevolezza di essere-con-cittadini di questo mondo, corresponsabili, insieme con gli altri uomini, del presente e del futuro del nostro pianeta[12]. Dall’altra parte, l’essere-nel-mondo rischia di diventare un’astrazione, se non viene caratterizzato dal qui-ed-ora in cui veniamo interpellati; accanto ad una sensibilità planetaria, è altrettanto urgente assumere la propria dimensione territoriale, con un frammento della storia e della geografia umana [13]. In questo contesto si inserisce il senso della Chiesa locale/particolare; l’essere in un determinato luogo è essenziale per la realizzazione dell’ecclesialità; ciò non è secondario sul piano della prassi perché chiama in causa la comunità ed il luogo del suo realizzarsi; di fronte alla gravità di certi fenomeni o emergenze (basti pensare alla mafia in Sicilia), l’appello alla comunità, e ad una comunità capace di esser-ci, può costituire la vera possibilità di resistenza e di alternativa.

A sua volta, la partecipazione al mistero pasquale si configura nella duplice forma della passione per l'umanità martoriata e sofferente, alla quale viene offerto la diaconia com-passionevole, in continuità ministeriale con l’amore del Cristo; e nella forma della risurrezione, che viene anticipata nei gesti quotidiani, con i quali si lascia intravedere la possibilità di un futuro diverso e di un adventus, che Dio non cessa di offrire. Qui prende posto l’esigenza di un agire autenticamente comunicativo. Un gesto, per risultare efficace, deve adeguarsi all’altro; esso presuppone, quindi, la comprensione del suo punto di vista, in un rapporto di autentica reciprocità e condivisione; in nessun modo possiamo pensare di essere “accanto” agli altri senza in qualche modo tentare di es­sere-diventare gli altri. Purtroppo, spesso le persone con cui abbiamo a che fare non hanno sperimentato il minimo segno di tenerezza o di dolcezza; ma è proprio dentro questa situazione che bisogna proporre un gesto o una parola, che ha il compito di fare sentire il fascino discreto e intimo di un mondo che, in loro, è stato rimosso forzatamente dal desiderio e dal sogno, e che attende di essere ridestato; inizialmente questi gesti possono essere fraintesi, ma poi, a poco a poco, cominciano a rappresentare l’approssimarsi di un orizzonte diverso di possibilità[14].

 

Nei luoghi della vita quotidiana

 Sul modello della “chiesa in casa”, va ripensata la territorialità nella circolarità tra la chiesa parrocchiale e i diversi raduni che la comunità può vivere secondo le nuove forme della prossimità (dal condominio alle forme di vicinato, dalle fabbriche agli ospedali, dagli spazi parrocchiali ai diversi luoghi di aggregazione…). I primi secoli hanno consentito di celebrare presso le case; anche oggi possiamo aprirci a questa possibilità, specialmente se consideriamo che questo può aiutare a dare una dimensione di partecipazione a territori caratterizzati da anonimato e dispersione. Si tratta di pensare a nuove modalità; certamente i condomini, le aggregazioni di vicinato, i gruppi di organizzazione sociale e così via possono rappresentare, soprattutto nell’arco della settimana, i luoghi di incontro e di celebrazione. Il tutto deve avvenire secondo lo stile della discrezione e della sobrietà, rispettando le condizioni di laicità e di pluralismo delle diverse appartenenze. Questo ritrovarsi nei luoghi della vita quotidiana può favorire la comprensione dell’esperienza religiosa non come qualcosa accanto alla vita, piuttosto nel cuore di essa, all’interno dei rapporti fondamentali.

Un posto particolare va riservato alle forme di disagio e quindi alle persone che vivono condizioni di deprivazione; anche qui si tratta di fare sperimentare la ecclesialità come un farsi-prossimo, nella forma della vicinanza fisica.

 

Accanto a chi soffre

 Inoltre, va ricordato che l’atteggiamento della vicinanza inscritto nel termine paroichia trae ispirazione dalla parabola evangelica sul prossimo; Gesù ha capovolto il senso del termine intendendo per prossimo il farsi vicino (cf Lc 10, 36-37) e quindi facendo appello alla capacità del credente a ritrovare Dio laddove il fratello soffre o laddove si avverte il lamento della vita offesa. La comunità si trova allora gettata fuori. In questo senso la programmazione della vita parrocchiale deve contemperare i momenti della aggregazione interna, e quelli del ritrovarsi intorno al fratello che soffre ed ai luoghi della sua sofferenza; in questo modo la parrocchia vive la sua esperienza di attesa escatologica non solo in avanti verso il Signore risorto, ma anche accanto ai fratelli, nei quali egli anticipa la sua presenza.

 

La soggettualità ecclesiale della famiglia

 Infine, va riscoperta la soggettualità ecclesiale della coppia e della famiglia intera; i coniugi ed i familiari sono Chiesa in senso proprio in forza del loro battesimo, che li ha resi figli di Dio inserendoli nella comunità ecclesiale realizzata a immagine della comunione trinitaria; in forza della cresima che attiva i carismi di ognuno nell’originalità dei percorsi personali; in forza dell’eucaristia in quanto divenuti membri integranti del corpo del Signore. L’esercizio della condizione sacerdotale, regale e profetica dei credenti non abbisogna di ‘permesso’; scaturisce piuttosto dall’intimo dinamismo della vita di grazia donata; ciò comporta che ogni credente si deve considerare abilitato a vivere i propri munera, come compiti affidati a ciascuno in piena libertà e col senso della piena corresponsabilità nell’edificare la casa del Signore. Tutto questo troverà espressione pertinente nell’ambito del proprio lavoro professionale o casalingo, ma anche in tutti quei contesti sociali, politici e culturali, nei quali il laico è coinvolto nella sua identità specifica.

 

 

Cosimo Scordato

Via Vesalio 1

90134 Palermo





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[1] M. Cortelazzo-P. Zolli, Dizionario etimologico della lingua italiana, vol. 4/O-R, Zanichelli, Bologna 1985, 883.
  

[2] B. Neunheuser, Storia delle liturgia attraverso le epoche cuturali, CVL Edizioni, Roma 1983, 40-41.


[3] «L’assiduità quotidiana e unanime al tempio si riferisce sia alla liturgia della preghiera, sia alla presenza all’insegnamento degli apostoli. La menzione della frazione del pane kat’oikon accenna ai pasti propri tenuti di casa in casa, nelle singole abitazioni private. Il testo non intende parlare di uno “spezzare il pane” eucaristico e quotidiano… »: G. Schneider, Gli Atti degli apostoli, vol. 1, Paideia, Brescia 1983, 401-402. Ci limitiamo a sottolineare l’abitudine cristiana di incontrarsi insieme per condividere la stessa mensa; non può non essere riconosciuto, però, anche il nesso intrinseco tra mensa della comunità e mensa del Signore, nel loro reciproco rimando e determinarsi.  

[4]Resta valida l’opera di Y. M.-J. Congar, Il mistero del tempio. L’economia della presenza di Dio dalla Genesi all’Apocalisse, Borla, Torino 1963.

[5] Cf. L. M. White, The social Origins of Christian Architecture, II. Texts and Monuments for the Christian Domus Ecclesiae in its Environment, Trinity Press International, Valley Forge 1997, 22.

[6] Cf. Id., The social Origins of Christian Architecture, I. Building God’s House in the Roman World. Architectural Adaptations among Pagans, Jews and Christians, Trinity Press International, Valley Forge 1996, 127ss.  

[7] Per quanto riguarda il culto del dio Mitra, anch’esso dava importanza al sacrificio e aveva al centro un banchetto; per queste o simili somiglianze qualcuno parlò addirittura di una influenza esercitata dalla religione mitrica nei confronti del cristianesimo.

[8] La diffusione degli ebrei, riconducibile anche alle loro capacità commerciali e imprenditoriali, consentì una facile costituzione di comunità nelle città principali, con la conseguente necessità di avere un luogo di culto. La lontananza dal centro di Gerusalemme consentì una certa autonomia e indipendenza anche rispetto a norme molto rigide che, come quella di non costruire immagini, a poco a poco veniva trasgredita, non tanto per realizzare immagini d Dio (e quindi col rischio dell’idolatria), quanto piuttosto per riprodurre immagini descrittive di avvenimenti dell’Antico Testamento.



[9] Gli scavi archeologici, pur con la scarsità di dati a nostra disposizione,  consentono di ricostruire la stratificazione dei diversi interventi; esempio classico è quello di alcune basiliche romane (e non) delle quali si possono individuare i diversi passaggi dalla iniziale domus alla domus ecclesiae, all’aula ecclesiae fino alla forma basilicale con le trasformazioni medievali. Ciò restituisce il senso di un continuum che, seppure attraversato da radicali cambiamenti socio-politici e religiosi, fa comprendere che l’autocoscienza ecclesiale comprende in sé le profonde rimodulazioni sollecitate dalle vicende storiche e dalle trasformazioni liturgiche. 

[10] Cf. H. Sedlmayr, La perdita del centro. Le arti figurative del diciannovesimo e del ventesimo secolo come sintomo e simbolo di un’epoca, Borla, Torino 1967.

[11] Facendo tesoro anche di altre esperienze che, come quella della teologia della liberazione, coniugano insieme professione di fede e prassi liberante, si cerca di approfondire il senso della vita cristiana come prassi trasformante che attinge alla luce del Cristo crocifisso e risorto;

[12] In questo contesto, le religioni possono offrire la loro diaconia soprattutto in ambiti come la pace, l’ecologia, la solidarietà internazionale; su queste tematiche, cf. H. Küng, Progetto per un’etica mondiale. Una morale ecumenica per la sopravvivenza umana, Rizzoli, Milano 1991; Id., Per un’etica mondiale. La Dichiarazione del Parlamento delle religioni mondiali, Rizzoli, Milano 1993; L. Boff, Ethos mondiale. Alla ricerca di un’etica comune nell’era della globalizzazione, Gruppo Abele, Torino 2000. 

[13]  L’attenzione al territorio, come luogo di realizzazione della ecclesialità, è cresciuta negli ultimi decenni, soprattutto nel Sud d’Italia; cf. G. Mazzillo, Prospettive per una crescita teologica del Sud, in Rassegna di Teologia, 31 (1990) 192-206; Osservatorio meridionale, Chiesa e lotta alla mafia, La Meridiana, Molfetta 1992; gli Atti del Convegno di Paola 29 ottobre-1 novembre 1991, Nuova evangelizzazione e Ministero di Liberazione, Editoriale progetto 2000, Cosenza 1992; P. Giustiniani (a cura), Quale teologia per il Mezzogiorno d’Italia. Ipotesi per un dibattito, Piemme, Casale Monferrato 1994; Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale, L’identità meridionale. 2. Percorsi di riflessione sociologica (a cura di G. Di Gennaro- D. Pizzuti), San Paolo, Cinisello Balsamo 2002; 3. Percorsi di riflessione filosofica (a cura di P. Giustiniani-S. Muratore), San Paolo, Cinisello Balsamo 2003; 4. Percorsi di riflessione teologica (a cura di A. Staglianò), San Paolo, Cinisello Balsamo 2004; 4. Percorsi di riflessione multidisciplinare (a cura di C. Sarnataro), San Paolo, Cinisello Balsamo 2005.

[14] Qui affiora un problema che più volte ci siamo posti: la difficoltà a comunicare con  ragazzini abituati ad un altro linguaggio, a quello delle mani e della violenza; uno dei tentativi più riusciti è stato quello di convogliare detta aggressività in direzione del linguaggio teatrale.

Cosimo Scordato

Via Vesalio 1

90134 Palermo

 


 


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