"Tempo Perso - Alla ricerca di senso nel quotidiano"

  FONTE: CENTONOVE

 

SOCIETA'. Parla Padre Felice Scalia, il gesuita che dice sì

Qui lo Dico...

Contestati dai vertici della chiesa, i diritti di convivenza trovano terreno fertile nella "base" cattolica.

«Le coppie di fatto sono ormai costume», spiega il teologo.

Che avverte: «Concilio Vaticano II messo a rischio dalle istituzioni»

 

 di DANIELE DE JOANNON

 

MESSINA. Sembra un gioco di parole,  a ai Dico... «dice sì». Padre Felice Scalia, gesuita dell'Ignatianum di Messina, laureato in teologia e filosofia, autore di libri e saggi, artefice della solidarietà resa, insieme alle associazioni "Nuovi orizzonti" e "Terra e cielo", alla suora che denunciò per stupro il mediatico frate calabrese, Fedele Bisceglia. L'analisi di Scalia sui "Diritti dei conviventi" in discussione alle Camere si muove sul doppio binario dell'analisi della Chiesa come istituzione e del Cristianesimo. Fissando anche un'amara constatazione sull'attenzione anche eccessiva che la politica mostra alle parole della Conferenza episcopale italiana e del Pontefice su questo e altri argomenti: «In qualche modo, la Chiesa è serbatoio di voti e i democristiani in parlamento ci sono ancora. Se a questo si aggiunge che l'istituzione si sta “rimangiando” il Concilio Vaticano II....».

Per Felice Scalia, la questione Di.co. «è un problema complesso in quanto umano, proprio perché è l'uomo ad essere complesso». «Dobbiamo partire dalla circostanza che le coppie di fatto sono ormai costume, e che esistono diverse cause che ne determinano l'esistenza. La prima è il lavoro, che o non c'è o è instabile, con trentenni e quarantenni che non lo hanno ancora o che sono vittime di contratti a tempo. Si tratta di persone che, allo stato attuale, non riescono a raggiungere neanche i presupposti per un matrimonio. C'è poi un altro aspetto - spiega Scalia - legato alla società, che è poco propensa ad aiutare a credere nell'amore come progetto di vita in due. Il matrimonio è una scelta che comporta lo sposare la vita di un altro, a prescindere dal rito. Invece, si tende a pensare alle nozze come a un contratto a termine. La controparte di tutto è la violenza, molto presente nella società, che si trasferisce nelle coppie e che è l'antitesi stessa dell'amore. Per tutti i motivi che ho esposto - continua – le coppie di fatto sono ormai una realtà. E se non c'è una legislazione ad hoc, non possono esistere diritti e doveri. Riguardo all'aspetto religioso, che sembra così rilevante, aggiungo che in America latina molti cattolici non si sposano per problemi economici, scegliendo la semplice convivenza». 

E cosa intende padre Scalia per diritti e doveri? «Nelle convivenze, nel caso di una separazione, a differenza del matrimonio, i deboli sono destinati a soccombere. Ci sono, poi, altre implicazioni, determinate dall'assenza di un inquadramento giuridico, come l'impossibilità ad accedere ad elenchi e agevolazioni, così come l'essere impossibilitati all'assistenza negli ospedali. Insomma, allo stato attuale, è totalmente assente una definizione dei diritti. Legiferare è quindi una necessità, perché lo Stato ha l'obbligo di proteggere i deboli dalla prepotenza dei molti e deve prendere atto delle situazioni concrete.

Anche se, visto l'andazzo dell'Italia, non so quanto durerà. Una legge - spiega -non ha solo funzione normativa, ma anche educativa. E quando la legge non fosse morale, seppur giusta, allora sarebbe il caso che entrassero in campo altre forze. Proprio come la Chiesa, il cui compito dovrebbe essere quello di educare alla famiglia, mostrandosi altresì ben lieta di difendere i poveri. La Chiesa, insomma, dovrebbe parlare del sacramento del matrimonio, educando effettivamente le persone». Ed è a questo punto che il teologo Scalia prende il sopravvento: «Nell'esplicitazione delle promesse matrimoniali, grazie all'ultima riforma, risalente a pochi anni fa, i diritti e i doveri dei coniugi sono ormai uguali. E quei giuramenti, aggiunge - vanno percepiti come un sacramento: questo è importante. Percepire le parole come il segno di un amore è con la "A" maiscola, come il segno di un'alleanza attraverso la quale Dio amerà tutti e li difenderà. Gli sposi, insomma, sono testimoni che l'amore è una realtà concreta. E se l'amore fallisce, allora è Dio a fallire, nel senso che viene a mancare sulla terra il senso della verità e del sentimento, il cui posto viene preso da morte e violenza». 

Per Scalia, quindi, «se una coppia convivente, quale che sia natura del rapporto, sta e resta insieme per amore, allora è ugualmente e indirettamente testimone del successo di Dio».

Padre Scalia entra quindi nel tema "caldo" del problema, quello delle coppie gay e lesbiche: «I miei studi sull'omosessualità risalgono agli anni Sessanta, un periodo in cui era codificata come una patologia. Oggi, penso che si debba la si debba guardare con maggiore rispetto. E, personalmente, non mi sento di dire che l'amore omosessuale sia pervertito o di serie B. Ci sono, poi, omosessuali e omosessuali, così come esistono persone e persone, che vivono in maniera promiscua. Ma anche questo trova spiegazione nel fatto che tanti cercano un'integrazione affettiva.

La crociata contro i Dico per gli omosessuali, in sintesi, è una vicenda che di solito salto a pie' pari, perché sono nauseato da ciò che sento e leggo. D'altronde, il testo della legge, che ancora devo leggere bene, mi sembra sia orientato soprattutto verso le famiglie conviventi eterosessuali, nonostante siano soprattutto gli omosessuali soprattutto ad avere necessità del provvedimento. Un provvedimento che, sia chiaro, non riguarda l'affidamento dei figli. Sono d'accordo sui Dico, insomma, e potrei avere qualcosa da dire solo se si parlasse di un terzo tipo di famiglia. Il problema - spiega Scalia - è che si sta enfatizzando troppo la questione gay, dando l'idea che Dico equivalga a famiglia. Mentre si tratta solo dell'inserimento del compagno o della compagna nello stato di famiglia». 

Le ultime battute, padre Felice Scalia le riserva a una confusione di piani tra Chiesa e Cristianesimo: «Tutto inizia con Costantino, che rende il Cristianesimo religione di stato, con tutte una serie di conseguenze anche rispetto all'atteggiamento repressivo contro gli ultimi pagani e gli ebrei. Verso l'anno mille, poi, avviene il secondo passaggio: la chiesa va a definirsi come societas perfetta, costituendosi territorialmente in diocesi, codificando leggi, costituendo tribunali, stabilendo pene e comminando condanne. La chiesa, insomma, diventa istituzione, senza però distruggere la realtà evangelica, che è altra cosa. Infatti, laddove la Chiesa dottrinalizza e legalizza, come nel caso del Diritto canonico, il cristianesimo si pone in maniera diversa: è l'annuncio che l'uomo può vivere insieme, è un disegno di bellezza, di amore, di pace. Di tutto».

 

TESTO INTEGRALE TRATTO DA "CENTONOVE" - N. 9 - 2 MARZO 2007

 

                          

                 

HOME PAGE