"Tempo Perso - Alla ricerca di senso nel quotidiano"

 UN'ANALISI SULLA CRISI DEL CRISTIANESIMO

O LA CHIESA È DEGLI ESCLUSI O NON È

di p. Felice Scalia

DOC-1760. MILANO-ADISTA. Se il mondo è scosso da una serie illimitata di problemi – "la maggior parte dell'umanità è nata nel posto sbagliato, da gente sbagliata, e si vede precluso qualsiasi accesso anche ai fondamentali diritti umani" – neppure la Chiesa se la passa troppo bene. Nell'analisi del gesuita p. Felice Scalia, dell'Istituto Superiore di Scienze Umane e Religiose (Issur) di Messina, tracciata a Milano durante un incontro promosso dalla Comunità di Sant'Angelo presso il Convento dei Frati francescani minori (10/5/06), la Chiesa sembra aver perduto la capacità di dire al mondo qualcosa di significativo, inducendo a pensare "che essere cristiani oggi significhi rigettare sempre gli anticoncezionali, esibire una famiglia numerosa, boicottare un referendum, soddisfare l'obbligo domenicale", e finendo così per mostrarsi, malgrado tutta la sua complessa elaborazione di dottrina sociale, "priva di ‘Parola' per tutti quelli che più di ogni altro ne avrebbero bisogno". La sfida è immane: quella di rendere di nuovo la fede prioritaria rispetto alla religione - "una fede che esce dal tempio e dalle affermazioni dogmatiche per fare ‘altra' la quotidiana fatica del vivere" -; quella di ridare centralità alle ragioni della Chiesa-mistero rispetto a quelle della Chiesa-istituzione, di riconoscere il primato della libertà dei figli di Dio sul Diritto Canonico; quella di riconoscere la Chiesa non come il fine dei disegni di Dio ma come "un semplice mezzo voluto dal Cristo per l'edificazione del Regno".
Ma se è vero che, afferma p. Scalia, "non vediamo giungere molta luce dall'ufficialità istituzionale", non per questo mancano le ragioni per sperare: la distinzione, che si fa sempre più chiara e diffusa nella Chiesa, tra cristianesimo evangelico e cristianesimo storico, nella convinzione che "non può essere questa banalità la salvezza portata da Cristo, non può essere questa la sua Chiesa"; le voci sempre più insistenti di chi reclama norme "non solo per la vita individuale (spesso legate alla sessualità) ma anche per quella collettiva (fino al coraggio di rompere con l'attuale impero)" e ritiene che non porti molto lontano "la via della determinazione apodittica e senza eccezioni"; il travaglio vissuto da una parte consistente del mondo giovanile; la stessa composizione numerica della Chiesa, che, nei prossimi decenni, "sarà sempre più in mano ai poveri". (claudia fanti)

 Di seguito l'intervento (con alcuni tagli) di p. Scalia

Lo scorso anno la rivista di teologia "Concilium" dedicava una monografia a questo interrogativo: "Cristianesimo in crisi?". Forse era pleonastico il punto interrogativo. Si trattava di esaminare una indubbia situazione di transizione, forse di chiamata ad un livello "altro" di quella consistente parte di umanità che si riconosce nel Cristo. Le diagnosi tuttavia sono quanto mai varie, e ancora di più le terapie. Mons. Bernard Fellah, superiore generale della Fraternità San Pio X fondata nel 1970 dal vescovo Marcel Lefebvre afferma: "La Chiesa universale è in crisi. Le vocazioni diminuiscono, i seminari si svuotano, la fede sembra non fare più presa tra la gente. E la Santa Sede lo sa. Siamo convinti che tutto questo sia stato provocato anche dalla riforma conciliare che ha aperto la Chiesa al mondo contemporaneo a discapito dell’autenticità della fede in Cristo". Opinioni simili vengono espresse nella Chiesa anche da quanti non hanno preso parte al cosiddetto scisma postconciliare.

Altri cristiani, e forse molti di noi con loro, nutrono ben diverse preoccupazioni e fanno ben altre analisi. Se possiamo dirlo, "De homine angamur" prima di tutto. Della situazione umana in genere siamo davvero preoccupati. E conseguentemente anche della Chiesa: "De ecclesia angamur". E questo in un clima di speranza. Siamo infatti del tutto convinti che si "potranno tagliare tutti i fiori" - direbbe Pablo Neruda -, ma "mai si potrà essere padroni della primavera".
Questo nostro mondo ad inizio di millennio! Questa nostra Italia tutt’altro che liberata dai nemici del vivere civile! (…) La maggior parte dell’umanità è nata nel posto sbagliato, da gente sbagliata, e si vede precluso qualsiasi accesso anche ai fondamentali diritti umani. Viviamo in uno stato endemico di paura e di violenza. Si giustifica l’antico detto degli "empi" secondo i quali "la forza è fondamento del diritto" (Sap 2,11). Siamo infelici. Ci riesce difficile andare avanti senza stordirci in una delle mille droghe che la società ci offre. Di fronte ad una situazione simile la Chiesa sembra non avere nulla da dire, eccetto proporre pratiche di pietà tradizionali, feste patronali, raduni oceanici, proclamazione di "santi" e riaffermazione di principi etici astratti che non sempre, o quasi mai, possono avere realizzazione pratica. Anche le cose più sconvolgenti e cariche di speranza, come l’Eucaristia, sono ridotte a pie pratiche devozionali. Per dirla in termini ancora più espliciti, è tale l’insignificanza di molte nostre proposte ecclesiali che quanti ancora si dicono cristiani e cattolici si accorgono di dovere scegliere tra un appiattimento allo spirito dei tempi o una vita da "clandestini". Clandestini in una fede che devono difendere da una religiosità di facciata, abusivi nella speranza che vedono ogni giorno ridotta ad attesa del dopo-morte, illegittimi nella carità se non vogliono ridurre questa virtù fondamentale ad erogazioni di spiccioli al primo poverocristo incontrato.

Parole come queste possono sembrare generiche. In realtà esprimono un senso di soffocamento che quotidianamente avverto in questa mia testarda volontà di vivere nella Chiesa, leale ai suoi responsabili, ma anche fedele a quel Vangelo che nessuna istituzione può permettersi di tradire con la scusa di difenderlo e diffonderlo (…). Mi sembra che le preoccupazioni di quanti vivono ad occhi aperti nella Chiesa possano raggrupparsi in due grandi categorie. Alcune riguardano la Chiesa nel suo stesso essere, nel modo come concepisce se stessa, nella mentalità dei suoi ministri; altre emergono quando questa Chiesa prende coscienza del suo necessario rivolgersi al mondo degli uomini in carne ed ossa e non solo alle "anime". Ovviamente prendo il termine "Chiesa" in senso istituzionale. Più correttamente dovrei parlare del "popolo di Dio" che ha nel suo seno una gerarchia. In linea di principio così dovrebbe essere, anche se oggi nessuno ritiene "parola di Chiesa" qualche affermazione di uno sconosciuto parroco o di una comunità di battezzati. Invece si ritiene che parla la Chiesa se a fare determinate dichiarazioni sono il papa e la curia romana. In pratica il "popolo di Dio", i "christifideles laici" non hanno rilevanza, sono ancora "ecclesia discens", oggetto di cure pastorali, mai soggetto. Ma forse uno sguardo al "popolo di Dio" potremo darlo parlando della speranza.

 

Chiesa, Vangelo, economia di salvezza

Ci fu un tempo in cui la fede tentò di essere prioritaria rispetto alla religione. Si disse - e sembrava liberatorio nella vita di tanti figli di Dio - che la preoccupazione principale di Gesù non era quella di affastellare enigmi e indovinelli teologici su Dio, l’anima, il dopo-morte. Il Falegname di Nazareth, il Verbo di Dio fatto carne, si era messo in cammino tra le case degli uomini per ridare volto all’uomo e per rivelargli il Mistero Santo della vita: assoluta eterna benevolenza.
Dio - dice Gesù - non è abisso misterioso di forza che giustifica i potenti, non è mai volto irato che richiede sacrifici espiatori. È appunto benevolenza che in ogni figlio d’uomo vede un figlio di Dio in cammino con altri "fratelli" verso la sua pienezza di vita umana nella gioia e nella gratitudine. Gesù ci disse di fidarci del Padre, di accoglierlo nella nostra vita. Ci disse di fidarci di ogni uomo nelle cui profondità dell’anima alita lo stesso Spirito di Dio. Ci disse, in altri termini, di imparare quell’unica arte che ha ricadute eterne: l’amore. Così facendo, Gesù distruggeva ogni idolo, metteva in crisi Roma e la sua civiltà, ridonava splendore ad ogni uomo che scorgeva in sé una radicale, inviolabile dignità. Ecco perché l’annunzio del "regno" esigeva una "conversione". Ecco perché era essenzialmente "profezia".

Se chiamiamo "fede" questo complesso di atteggiamenti, possiamo riservare il termine "religione" alla estrinsecazione di quella fede. I sacramenti, la preghiera, gli edifici sacri, le riflessioni dei teologi, l’organizzazione della comunità, i riti dell’assemblea, tutte queste cose sante ed altre ancora, non solo sono utili ma necessarie ed indispensabili. Ad una sola condizione: che come presupposto abbiano la fede. Una fede che si spende prima di tutto nella vita ed è direzione di un cammino. Una fede che esce dal tempio e dalle affermazioni dogmatiche per fare "altra" la quotidiana fatica del vivere. È priva di legittimità una religione se è un insieme di "pratiche" che pervadono tutta la dimensione sacra dell’in-dividuo. Se cioè esteriorizza in gesti meramente rituali il bi-sogno di una trascendenza messa poi a tacere nella quotidianità (…).

Da un po’ di tempo a questa parte pare che ci si sia rassegnati a favorire la religione a scapito della fede. Non so come esprimere il mio disagio di fronte ad una pratica sacramentale improntata fin troppo allo spettacolo ed all’este-riorità. (…) Né so come definire un devozionismo imperante che con scuse varie (dal turismo religioso scambiato per pellegrinaggio alla riaffermazione dogmatica della presenza reale nell’Eucaristia che diventa adorazione perpetua in chiesa, ben lontana dalla adorazione e cura della presenza del Cristo tra la povera gente dei quartieri a rischio) convoglia masse di persone poco inclini a cambiare vita ma sempre pronte per assistere ad una "bella cerimonia" (…).

Per la Chiesa è difficile cogliere la novità del Vangelo come annunzio di un avvenimento: Dio che irrompe nella storia umana e costruisce, assieme agli uomini di buona volontà, il suo "regno". Parlare di "regno" significa distanziarsi dai potenti del mondo, parlare di pace, di giustizia, di amore, di distacco dalle cose transitorie per quanto seducenti, di priorità delle persone sulle cose, di speranza sempre accordata anche alla più disperata delle creature. Significa parlare di un mucchietto di "lievito", di un pugno di "sale", di un raggio di "luce". Cose inconsistenti e piccole, poco adatte per dare rinomanza e gloria a chi del Vangelo volesse vivere. Certamente parlare di "regno" significa anche accostarsi a chi di quel "regno" è stato il banditore e la piena realizzazione: il Cristo. E questo comporterebbe che ogni cristiano, ogni prete, ricordi e renda presente Lui, assuma il suo stile e perfino la sua disponibilità ad amare "usque in finem", fino alla croce. Sarà strano, ma dobbiamo confessarcelo: il grande problema della Chiesa di oggi è quello di un confronto serio col suo divino fondatore, il Cristo.

Troppo impegnativo essere solo la sua presenza nel nostro tempo. Molto più accattivante "dottrinalizzare" un evento e volgere tutto in teologia, meglio in dottrina, in modo da creare esperti detentori della verità, tribunali della verità con il loro seguito di imbalsamazione di Dio in formule fisse ed eterne, e da fornire il fondamento perché abbiano onori speciali quanti di cose speciali si occupano, nientedimeno che di Dio. Così è possibile che il Vangelo sfugga, lo si perda di vista, nonostante una complessa elaborazione di dottrina sociale, fin troppo attenta al diritto di proprietà dei cristiani opulenti e fin troppo dimentica di quelli che nulla avevano, perché di tutto erano stati derubati. Perfino la "Centesimus annus" è stata lodata da Wall Street; a quando una enciclica lodata dai miserabili del pianeta?

A volte ho la terribile impressione che siamo senza Vangelo, di averlo smarrito, presi, forse, dalla paura. "Passi echeggiano nella memoria/ lungo il corridoio che non prendemmo/ verso la porta che non aprimmo mai" . Vivo questa angoscia quando mi trovo di fronte a testi contenenti affermazioni etiche di tutto rispetto, tese a salvaguardare "la legge naturale", elaborate con una pura ragionevolezza umana, ma dove sono latitanti le prospettive aperte dal Vangelo col suo carico sovversivo di ogni ragionevolezza a favore di una vita autenticamente perduta nell’amore e nel rispetto di ogni figlio di Dio. Si cade nel paradosso quando si induce a pensare che essere cristiani oggi significhi rigettare sempre gli anticoncezionali, esibire una famiglia numerosa, boicottare un referendum, soddisfare l’obbligo domenicale. È mai venuto in mente a qualcuno che per Paolo (e qualcosa del Cristo doveva pur saperla…) l’osservanza della legge morale è possibile solo in un regime di "grazia", quando dunque ci si protende in una dimensione di virtù dove nulla è "dovere" ma tutto è possibilità di cammino verso la "perfezione del Padre"? Quante discussioni sul matrimonio e l’etica sessuale! Ne siamo ossessionati. Il matrimonio è accessibile ai preti? Non accessibile? Il voto di castità è trasgredito oppure osservato da celebri frati e dal comune religioso? La famiglia è minacciata dal riconoscimento legale delle unioni di fatto? Interroghiamoci quanto vogliamo su questi problemi, ma nessuno ci toglie dalla testa che Gesù si preoccupava di altro. Per lui era fondamentale sapere se era stata accolta o no la base risolutiva di ogni etica sessuale e della stessa convivenza civile: una vita spesa nell’amore gratuito, nel dono di sé.

Un vescovo un giorno mi chiedeva cosa poi intendessi con quella mia invocazione di una Chiesa tornata al "nudo Vangelo". In realtà abbiamo difficoltà a custodire il "puro, nudo Vangelo", anche perché siamo soffocati da un’onni-potente istituzionalizzazione ecclesiastica. Le ragioni della Chiesa "istituzione" obnubilano quelle della Chiesa-mistero, soffocano lo stesso Spirito di Dio e la sua creatività. Il Diritto Canonico è legittimo, necessario quanto si vuole, ma forse è troppo sospettoso verso i carismi, la libertà dei figli di Dio, la ricchezza della diversità, la chiarezza costruttiva di una santa "parresìa". Se oggi c’è un paradosso nella Chiesa è la canonizzazione (riduzione a leggi canoniche) dei carismi degli ordini e degli istituti religiosi, con la conseguenza di una omologazione che li rende tutti uguali e tutti inutili.
La Chiesa ha enorme difficoltà a riconoscere che lei non è la salvezza ma solo sua annunciatrice, che non è il fine dei disegni di Dio, ma un semplice umile mezzo voluto dal Cristo per l’edificazione del "regno". Né ha mai accettato pienamente che essa è prima di tutto "popolo di Dio" e poi dotata di gerarchia. La Chiesa in realtà nasce dove "due o tre si uniscono nel Cristo", e "spezzano il pane"; solo dopo diventa Chiesa universale (…).

Una Chiesa per il mondo? Una Chiesa del mondo?

Un altro fascio di difficoltà mi sembra che nella Chiesa sorga dal suo rapporto col mondo (…). È un problema molto serio perché non è affatto scontato per tutti che la Chiesa abbia da dire qualche cosa al mondo. A meno che non si intenda "mondo delle anime". Di solito si concepisce la religione come un settore separato dell’esistenza. Come l’idraulico ha una sua competenza autonoma, come il medico ha un suo settore di lavoro dove nessun carrozziere ha una parola risolutiva, così l’uomo di Dio parla di anima e di eternità, lasciando ai politici e agli economisti il resto del mondo. Uomo di Dio, non uomo di questo mondo né per questo mondo.

Eppure "il Verbo si è fatto carne ed ha posto la sua tenda in mezzo a noi". Eppure Dio ha incontrato uomini in carne ed ossa ed ha loro proposto una esistenza che avesse il sapore dell’eternità fin da ora, fin da subito, perché si fosse grati della vita, e nella pace si vivesse come gloria vivente del Padre. Eppure il "regno" è stato annunziato perché questo mondo fosse trasformato in Corpo di Cristo ed i valori portati dal Cristo divenissero criterio di ogni scelta per la vita di tutti.
La Chiesa però trova difficoltà non solo a parlare al mondo (dovrebbe troppo spesso contestarlo, cioè dovrebbe troppo spesso contestare i potenti che lo dirigono!) ma addirittura a non lasciarsi catturare dalla mentalità di questo mondo.
Abbiamo assistito con sbigottimento, continuiamo anzi ad assistervi, alla divisione che si è verificata nella Chiesa quando qualche "principe" di questo mondo decise di dividere il pianeta in due grandi settori, in due "assi": quello del "bene" e quello del "male". E decise pure, questo "principe", quali popoli appartenessero all’uno o all’altro "asse". Poi stabilì che farne degli "Stati canaglia", e ritenne anche suo dovere - per mandato divino - sterminare il male dalla terra iniziando "guerre preventive" e "guerre infinite". Quanta solitudine attorno a Giovanni Paolo II quando contestò questo schema e con tutte le sue forze vi si oppose! E quanta cecità in tanti uomini di chiesa che confondono perbenismo occidentale con civiltà cristiana, provocando quello strano fenomeno degli "atei devoti", dei "teo-con" che magari non credono in niente, ma non pare loro vero che possano comprarsi il silenzio o l’assenso di una istituzione venerabile come la Chiesa! Ma non si svende così l’unità della famiglia di Dio? Non si operano indebite esclusioni di stampo manicheo? Più radicalmente: non si esce dal cristianesimo e dal "regno"?

Per sé questa storia è vecchia, fin troppo. Agli albori dell’epoca moderna (nel 1492, con l’occupazione del-l’America), la Chiesa consentì a considerare "inesistenti" quei popoli che non erano armati, né bianchi, né tanto meno cristiani. Ed all’inizio della rivoluzione industriale poche "sentinelle" vigilarono sul fatto che si stava progettando una società ineguale. Si diceva allora dei "due terzi", ma comunque si condannava un terzo dei figli di Dio a pagare con la loro disperazione il benessere di quanti invece nascevano al posto giusto da quei genitori "giusti" che ostentavano la loro ricchezza come segno della benevolenza divina nei loro riguardi. In ogni caso sfuggì anche ai più illuminati degli uomini di chiesa che si stava progettando una società dove le cose contavano più delle persone e dove parole come giustizia, amore, dono, solidarietà finivano di essere valori sociali per venire ricacciati nella buona volontà del privato che, attraverso l’elemosina, poteva affermare, ancora una volta, la sua superiorità umana e perfino cristiana. E quando si profilò all’orizzonte un movimento operaio che esigeva correttivi o proponeva modelli alternativi di organizzazione sociale, ancora una volta si fu più attenti a marchiare di ateismo quei "visionari" che a difendere i diritti e la dignità di tutti i figli di Dio. Questa storia continua ancora oggi e rende soffocante quella saccenteria di basso profilo di ecclesiastici lettori del "Foglio" che marchiano di comunismo e di antiamericanismo chiunque oggi parli di diritti umani, di welfare, o sia per il rapido ritiro delle forze di occupazione in Iraq.

Mi sembra di potere amaramente constatare che il mondo entra alla grande nella Chiesa. A volte ho l’impressione che non sia essa ad evangelizzare il mondo ma, al contrario, il mondo ad "evangelizzarla" - se così si può dire. Non vedo con molta evidenza quel tentativo che dovrebbe essere incessante di "non conformarsi alla mentalità di questo mondo" per assumere la "forma del Cristo", la sua mentalità, il suo stile. La "libido dominandi" (che fa tutt’uno con quella "docendi") è ben presente, a volte in maniera tragica, a volte solo patetica, come quando uomini pii sono alla ricerca di una "diocesi di prestigio", di una "parrocchia autorevole", di contatti con "gente che conta", perfino di vittorie elettorali da fare pesare al momento opportuno nelle contrattazioni con i potenti. Il guaio è che spesso si entra così in una cerchia di cattive compagnie. Il potere è un genere quasi sacro, ed i potenti si appoggiano a vicenda. Poco importa se uno è detentore del potere economico, un altro di quello mafioso, altri di quello politico o religioso. Solo che così si volatilizzano altre categorie cristiane: il bene comune, il potere come servizio e la politica come la forma più grande di amore. (…) Quale "bella notizia" oggi è la Chiesa per l’umanità? Come traduce in speranza viva la risurrezione del Cristo per l’uomo disperato del terzo millennio? In giorni bui, in momenti sconsolati, giungo a chiedermi tuttavia se le risposte a queste o simili domande, importino davvero a molti.

Evidentemente non è del tutto insensato il mio dubbio se anche tra i preti si fa strada la figura del manager, l’uomo dalle grandi realizzazioni visibili che ostenta capacità di affari, rilevanza di fatturato, magari - naturalmente - a fin di bene. Quando mi trovo a contatto con questa sete (tutta benedetta in alto loco) di visibilità, di collateralismo con i ceti sociali forti, quando vedo canonizzati uomini che hanno fatto la scelta dei ricchi, e so che in Vaticano sulla politica finanziaria mondiale si decide di ascoltare - a porte chiuse - un Michel Novak, quando dunque mi imbatto in cose come queste, oso ancora avere il coraggio di chiedermi che fine abbia fatto la povertà evangelica e dove sia andata a finire la nostra testimonianza cristiana (…).

 

Ma con chi sta la Chiesa?

Io non so se quanto preoccupa me, povero anonimo consacrato, tolga il sonno anche a tutti i responsabili della Chiesa contemporanea, quale che sia il loro grado di coinvolgimento istituzionale. Cioè mi chiedo se l’evidente difficoltà dei seguaci di Cristo di essere autentica comunità credente e segno del "regno" nel mondo di oggi sia o no presente nella vita degli uomini di chiesa. Se la risposta a questa domanda fosse sicuramente positiva, oserei dire che… siamo sulla buona strada. La coscienza di un problema (nel nostro caso, la coscienza di un possibile, involontario tradimento del Vangelo), sarebbe premessa per la conversione. Purtroppo non sono così ottimista. Ed allora affermo che mi preoccupa molto questo oscillare della Chiesa tra i benpensanti, gli uomini di ordine con i quali si sente connaturale, e gli esclusi a cui riserva briciole di carità e pranzi natalizi o giubilari. Il mondo produce inesorabilmente "esclusi", "esuberi", ed a chi è inviata questa buona notizia del "regno" se non ad essi? Chi, se non la Chiesa, dovrebbe mostrare con chiara fermezza che si sta stravolgendo ogni pietà, ogni fede ed ogni umanità? Ma sulla Boss-Fini che trasforma in delinquente un disperato continuiamo a tacere. Siamo molto titubanti sui "Centri di Permanenza Temporanea" e sul loro discutibilissimo stile di intervento. E continuiamo a sancire ogni giorno il peccato originale del cristianesimo storico, quello che ai tempi di Costantino mise il segno dello "Sconfitto", la croce, sui labari degli oppressori vincenti. È così che si benedicono bombe atomiche o portaerei o valorose truppe di occupazione.

Pensando a cose così, non mi meraviglio se una filosofia o una affascinante teologia dell’ospitalità la trovo fuori da pagine pie di intellettuali o teologi ortodossi. Questi ultimi sanno tutto su Dio in cielo, ma così poco di quel Dio che nei suoi figli approda sulle coste della Sicilia in cerca di un inferno meno atroce di quello lasciato alle spalle. Del resto l’ospitalità è anch’essa lasciata alla libera iniziativa caritatevole dei privati. Non è un valore politico. Ha rilevanza il commercio, il mercato, e quindi, per necessaria conseguenza, la categoria più plausibile che dirige i rapporti infraumani è quella che si gioca attorno all’asse amico-nemico. L’altro da me è un concorrente, uno con cui sono in necessario conflitto (…). Non dichiaratamente con gli esclusi, non con i "diversi", essa stessa a volte escludente e fautrice di scomuniche ed emarginazioni, questa mia Chiesa con chi sta? Dove trova l’immagine del Figlio di Dio? Su quale volto vede il suo riflesso? E dobbiamo aggiungere: non con i poveri, non con i giovani, non con la classe operaia, non con i disoccupati. Di chi davvero si preoccupa questa mia madre che è la Chiesa? Perché vede di malocchio quanti dei suoi figli osano trattare non solo il corpo eucaristico di Cristo ma anche il suo corpo mistico, ben visibile tra i crocifissi ed i reietti del Terzo Mondo e delle nostre periferie urbane? Questo silenzio mi scandalizza, mi soffoca, perché vorrei poter dire, non solo in nome di Cristo ma anche in nome di chi credo lo rappresenti in maniera del tutto particolare, vorrei poter dire che la Chiesa c’è per ogni disperato, lei portatrice di una "felice parola" per il mondo dei poveri e degli esclusi.
La conseguenza è davvero tragica. Non può non preoccuparci che una istituzione come la Chiesa appaia a tanti come priva di "Parola" per tutti quelli che più di ogni altro ne avrebbero bisogno. Il disinteresse dei giovani, dei poveri, degli esclusi, questo loro averla scambiata per una agenzia di beneficenza e non per una riserva di speranza e liberazione, questo ricorrere ad essa in certi momenti di vita come elemento quasi folkloristico di identità o scusa di feste molto mondane, tutto questo spiega a sufficienza l’irrilevanza sostanziale della Chiesa in vista della salvezza, come pure l’indifferenza che la circonda.

Quali speranze nella Chiesa di oggi?

Salvo rare eccezioni, non vediamo giungere molta luce dalla ufficialità istituzionale (…). Ma la Chiesa non è solo istituzione. C’è il popolo di Dio, ci sono anonimi vescovi che tirano la carretta anche tra gli scranni della Cei ed aspettano tempi migliori. Ci sono vescovi che scomunicano i mafiosi, remando contro una prassi consolidata di omertosa neutralità. Ci sono istituti religiosi in calma ebollizione, preti che tentano di dare voce al Vangelo rischiando emarginazione e incomprensione. C’è una vivacità nel cattolicesimo italiano che ha stupito laici e credenti (…).

Indubbiamente la mia prima radicale speranza è il fatto che Cristo è risorto. Diceva La Pira: "La pace è ineluttabile perché Cristo è risorto". Qualcosa del genere illumina i miei giorni. La Chiesa vedrà tempi migliori – mi dico. Perché Cristo è risorto. Un mondo più umano è possibile perché Cristo è risorto. I giovani scopriranno la responsabilità e la bellezza della vita, perché Cristo è risorto. Su questa radice fondante si innestano altri "segni" di speranza". (…) C’è un desiderio di apertura all’Altro, a questo Dio "che viene", senza calcoli, con l’unica precomprensione che non può averci lasciati nella nostra piattezza di creature credenti perché dedite a pie pratiche, e con un’anima di accaniti bottegai. Quasi convinti che non può essere questa banalità la salvezza portata da Cristo, non può essere questa la sua Chiesa; deve esserci altro da cercare sempre di nuovo, sempre più aperti ad accoglierlo. Circolano sempre più nella Chiesa idee che distinguono con sempre maggiore chiarezza il cristianesimo evangelico da quello storico. Ben presto, molto presto abbiamo cominciato a credere in un Cristo che aveva solo la parvenza di quello conosciuto dagli Apostoli. Forse, a nostro uso e consumo, abbiamo inventato un Vangelo storico che distorceva del tutto quello… evangelico, impedendo così al Cristo di essere noi la sua "invenzione", la novità portata da lui su questa terra. (…) Sto dicendo che già nel IV secolo si rese va-na la venuta del Verbo. Rimaneva una pia illusione quel grido angosciato dell’Apocalisse che invocava la sua "venuta": "Vieni, Signore Gesù!". Trasformato il suo messaggio in un calcolabile rischio, o in un motivo di prestigio, lo si adattò alle nostre dimensioni abbastanza terrene, lasciando ad un pugno di uomini il compito di vivere di Vangelo e di "consigli evangelici". Un Gesù calcolabile, umanamente comprensibile, scusa dello splendore e del potere degli uomini che lo rappresentano in esclusiva, non potrà mai salvare questo mondo. Bisogna ritornare alla "follia della croce", al nudo Vangelo, tentando seriamente che la sua luce sia "la vita degli uomini" perché ne determina scelte e stili di vita. Non c’è altra base plausibile per quella pace che attendiamo, o per la convivialità gioiosa di 6 miliardi di figli di Dio sul pianeta. Si tratta, in altri termini, di fare esperienza del Vangelo nella concretezza di tutta l’esistenza umana, di riportare quindi in primo piano la fede prima della religione, l’autenticità e la convinzione sul-l’appartenenza anagrafica, la qualità di vita umana e cristiana sul numero di battezzati. In questa prospettiva la Chiesa diventa non tanto luogo di riti e neppure custode di una tradizione, ma inerme memoria di un avvenimento e di una promessa che continuano ad interpellarci anche se fino ad oggi siamo stati incapaci di dire al Messia il nostro "vieni!". Credenti che queste speranze nutrono ed in questa direzione tentano di portare la loro comunità ecclesiale sono già di fatto una speranza per la Chiesa intera.
Molto oggi nella Chiesa si investe sulla determinazione di regole etiche. Dio solo sa se non abbiamo bisogno di trovare la strada del bene e le norme del comportamento umano. È davvero urgente un giudizio severo sulle strutture di peccato e sull’abuso del potere. Tuttavia si vanno facendo sempre più insistenti le voci di moralisti cattolici che si pongono criticamente, e con autentico spirito cristiano, di fronte a certe posizioni della morale "romana". Da una parte reclamano norme non solo per la vita individuale (spesso legate alla sessualità) ma anche per quella collettiva (fino al coraggio di rompere con l’attuale "impero", con l’Occidente, per potere rimanere umani e cristiani), dall’altra parte ritengono che la via della determinazione apodittica e senza eccezioni, la moltiplicazione di leggi, la connotazione di "peccato mortale" spesso ad inezie - come si esprimeva K. Rahner - ritengono che tutte queste cose non conducano molto lontano. Si auspica il passaggio dalla legge e dal comandamento alla "legge dello Spirito che dà vita in Cristo Gesù", come scrive San Paolo (Rom 8,2). I cristiani osserveranno la "legge" solo se diventeranno innamorati delle beatitudini e della meta di vita indicata da Gesù. Lui, non la "legge", è "via, verità e vita". Non avremo molti sbocchi ai nostri pressanti problemi (bioetica, sicurezza e pace, economia mondiale, ecologia…) se non scopriremo la forza della mitezza liberante tipica del Cristo e dei cristiani. Se non vedremo nell’amore e nella collaborazione amorosa la forza strutturante non solo della nostra vita privata ma anche della stessa storia. Solo queste prospettive salvifiche possono condurci a quel senso di responsabilità verso noi stessi, gli altri ed il creato che preludono ad una svolta dell’attuale andazzo suicida.
(…) Il mondo giovanile, almeno una sua parte consistente, vive un grande travaglio. Si vuole uscire da situazioni che vengono avvertite come soffocanti ed invivibili. Ci sono prese di coscienza, discussioni su cosa cambiare e cosa mantenere, espliciti rigetti di un "pensiero unico" che è benessere per alcuni ma fame e morte per miliardi di persone. Impressionante la presa di posizione dei giovani a Locri ed a Palermo. "Ora ammazzate anche noi" – sfidavano i ragazzi di Calabria. E da Palermo il movimento antiracket "Goodbye Pizzo" fa il giro del mondo . Nonostante sacche di stupida passività, sembra che per tanti giovani la lotta per una fede più genuina e per una vita umana degna di questo nome non sia una parola vuota. Se questi gruppi si conoscessero di più tra di loro, se continuassero a "fare-rete" come già avviene con "Lilliput", se fossero osservati con meno sospetto dagli adulti, percepiremmo meglio questa ventata di speranza.
Ma forse la speranza maggiore della Chiesa sta nella sua composizione numerica. Può sembrare strano, ma crediamo che quando nei prossimi decenni, forse già entro il 2015, avremo il 75% dei cattolici non in Europa ma in America Latina e nei Paesi del Terzo Mondo, crediamo davvero che tutto potrà rimanere come prima? Il Vangelo ritornerà in mano ai poveri, sarà inculturato nella loro quotidiana fatica di vivere, darà respiro alle loro speranze, camminerà per le strade degli "esclusi" . Quel giorno saremo costretti ad aprire gli occhi sull’essenziale e, dando il debito posto alla comprensione teologica dei dati rivelati, ci concentreremo sulla necessità di una nostra conversione perché il "regno" irrompa davvero sulla terra, gli uomini rialzino la fronte verso il cielo, e ci si liberi da quegli idoli che rendono un inferno la vita di tutti noi. Quel giorno siederanno alla tavola di Dio gli esclusi, "i potenti saranno deposti dai troni, saranno innalzati gli umili", dovunque si trovino, dentro e fuori la Chiesa. Quel giorno Cristo potrà di nuovo gloriarsi della sua Chiesa e vedere nei suoi ministri gli amici appassionati della dignità e della liberazione di ogni suo fratello. Parafrasando Mons. Gaillot, concludo dicendo che non è possibile essere Chiesa di Cristo se non ridiventiamo Chiesa dei poveri e degli esclusi. Non ce la caviamo senza di loro. Se continuiamo ad essere "sale scipito", cristiani fasulli, saranno fasulli la Chiesa e lo stesso Cristo. Il futuro è una Chiesa di solidarietà che annunzia e realizza le "beatitudini" perché ogni figlio di Dio, nella gioia, ritorni ad essere "gloria del Padre". Verso questa Chiesa tendiamo con speranza. Ed a quanti ci dicono che non abbiamo senso storico, che non siamo realisti, forse c’è solo da rispondere con i ricordati stupendi versi di Pablo Neruda: "Potranno tagliare tutti i fiori/ mai saranno i padroni della primavera". Questa è in buone mani. È proprietà assoluta dello Spirito di Dio che fa sempre nuove tutte le cose. Chiesa compresa.

p. Felice Scalia, gesuita dell’Istituto Superiore di Scienze Umane e Religiose (Issur) di Messina