"Tempo Perso - Alla ricerca di senso nel quotidiano"
UN'ANALISI SULLA CRISI DEL CRISTIANESIMO O LA CHIESA È DEGLI ESCLUSI O NON È di p. Felice Scalia
Di seguito l'intervento (con alcuni tagli) di p. Scalia Lo scorso anno la rivista di teologia "Concilium" dedicava una monografia a questo interrogativo: "Cristianesimo in crisi?". Forse era pleonastico il punto interrogativo. Si trattava di esaminare una indubbia situazione di transizione, forse di chiamata ad un livello "altro" di quella consistente parte di umanità che si riconosce nel Cristo. Le diagnosi tuttavia sono quanto mai varie, e ancora di più le terapie. Mons. Bernard Fellah, superiore generale della Fraternità San Pio X fondata nel 1970 dal vescovo Marcel Lefebvre afferma: "La Chiesa universale è in crisi. Le vocazioni diminuiscono, i seminari si svuotano, la fede sembra non fare più presa tra la gente. E la Santa Sede lo sa. Siamo convinti che tutto questo sia stato provocato anche dalla riforma conciliare che ha aperto la Chiesa al mondo contemporaneo a discapito dell’autenticità della fede in Cristo". Opinioni simili vengono espresse nella Chiesa anche da quanti non hanno preso parte al cosiddetto scisma postconciliare. Altri
cristiani, e forse molti di noi con loro, nutrono ben diverse
preoccupazioni e fanno ben altre analisi. Se possiamo dirlo, "De
homine angamur" prima di tutto. Della situazione umana in genere
siamo davvero preoccupati. E conseguentemente anche della Chiesa: "De
ecclesia angamur". E questo in un clima di speranza. Siamo infatti
del tutto convinti che si "potranno tagliare tutti i fiori" -
direbbe Pablo Neruda -, ma "mai si potrà essere padroni della
primavera". Parole come queste possono sembrare generiche. In realtà esprimono un senso di soffocamento che quotidianamente avverto in questa mia testarda volontà di vivere nella Chiesa, leale ai suoi responsabili, ma anche fedele a quel Vangelo che nessuna istituzione può permettersi di tradire con la scusa di difenderlo e diffonderlo (…). Mi sembra che le preoccupazioni di quanti vivono ad occhi aperti nella Chiesa possano raggrupparsi in due grandi categorie. Alcune riguardano la Chiesa nel suo stesso essere, nel modo come concepisce se stessa, nella mentalità dei suoi ministri; altre emergono quando questa Chiesa prende coscienza del suo necessario rivolgersi al mondo degli uomini in carne ed ossa e non solo alle "anime". Ovviamente prendo il termine "Chiesa" in senso istituzionale. Più correttamente dovrei parlare del "popolo di Dio" che ha nel suo seno una gerarchia. In linea di principio così dovrebbe essere, anche se oggi nessuno ritiene "parola di Chiesa" qualche affermazione di uno sconosciuto parroco o di una comunità di battezzati. Invece si ritiene che parla la Chiesa se a fare determinate dichiarazioni sono il papa e la curia romana. In pratica il "popolo di Dio", i "christifideles laici" non hanno rilevanza, sono ancora "ecclesia discens", oggetto di cure pastorali, mai soggetto. Ma forse uno sguardo al "popolo di Dio" potremo darlo parlando della speranza.
Chiesa, Vangelo, economia di salvezza Ci
fu un tempo in cui la fede tentò di essere prioritaria rispetto alla
religione. Si disse - e sembrava liberatorio nella vita di tanti figli di
Dio - che la preoccupazione principale di Gesù non era quella di
affastellare enigmi e indovinelli teologici su Dio, l’anima, il
dopo-morte. Il Falegname di Nazareth, il Verbo di Dio fatto carne, si era
messo in cammino tra le case degli uomini per ridare volto all’uomo e
per rivelargli il Mistero Santo della vita: assoluta eterna benevolenza. Se chiamiamo "fede" questo complesso di atteggiamenti, possiamo riservare il termine "religione" alla estrinsecazione di quella fede. I sacramenti, la preghiera, gli edifici sacri, le riflessioni dei teologi, l’organizzazione della comunità, i riti dell’assemblea, tutte queste cose sante ed altre ancora, non solo sono utili ma necessarie ed indispensabili. Ad una sola condizione: che come presupposto abbiano la fede. Una fede che si spende prima di tutto nella vita ed è direzione di un cammino. Una fede che esce dal tempio e dalle affermazioni dogmatiche per fare "altra" la quotidiana fatica del vivere. È priva di legittimità una religione se è un insieme di "pratiche" che pervadono tutta la dimensione sacra dell’in-dividuo. Se cioè esteriorizza in gesti meramente rituali il bi-sogno di una trascendenza messa poi a tacere nella quotidianità (…). Da un po’ di tempo a questa parte pare che ci si sia rassegnati a favorire la religione a scapito della fede. Non so come esprimere il mio disagio di fronte ad una pratica sacramentale improntata fin troppo allo spettacolo ed all’este-riorità. (…) Né so come definire un devozionismo imperante che con scuse varie (dal turismo religioso scambiato per pellegrinaggio alla riaffermazione dogmatica della presenza reale nell’Eucaristia che diventa adorazione perpetua in chiesa, ben lontana dalla adorazione e cura della presenza del Cristo tra la povera gente dei quartieri a rischio) convoglia masse di persone poco inclini a cambiare vita ma sempre pronte per assistere ad una "bella cerimonia" (…). Per la Chiesa è difficile cogliere la novità del Vangelo come annunzio di un avvenimento: Dio che irrompe nella storia umana e costruisce, assieme agli uomini di buona volontà, il suo "regno". Parlare di "regno" significa distanziarsi dai potenti del mondo, parlare di pace, di giustizia, di amore, di distacco dalle cose transitorie per quanto seducenti, di priorità delle persone sulle cose, di speranza sempre accordata anche alla più disperata delle creature. Significa parlare di un mucchietto di "lievito", di un pugno di "sale", di un raggio di "luce". Cose inconsistenti e piccole, poco adatte per dare rinomanza e gloria a chi del Vangelo volesse vivere. Certamente parlare di "regno" significa anche accostarsi a chi di quel "regno" è stato il banditore e la piena realizzazione: il Cristo. E questo comporterebbe che ogni cristiano, ogni prete, ricordi e renda presente Lui, assuma il suo stile e perfino la sua disponibilità ad amare "usque in finem", fino alla croce. Sarà strano, ma dobbiamo confessarcelo: il grande problema della Chiesa di oggi è quello di un confronto serio col suo divino fondatore, il Cristo. Troppo impegnativo essere solo la sua presenza nel nostro tempo. Molto più accattivante "dottrinalizzare" un evento e volgere tutto in teologia, meglio in dottrina, in modo da creare esperti detentori della verità, tribunali della verità con il loro seguito di imbalsamazione di Dio in formule fisse ed eterne, e da fornire il fondamento perché abbiano onori speciali quanti di cose speciali si occupano, nientedimeno che di Dio. Così è possibile che il Vangelo sfugga, lo si perda di vista, nonostante una complessa elaborazione di dottrina sociale, fin troppo attenta al diritto di proprietà dei cristiani opulenti e fin troppo dimentica di quelli che nulla avevano, perché di tutto erano stati derubati. Perfino la "Centesimus annus" è stata lodata da Wall Street; a quando una enciclica lodata dai miserabili del pianeta? A volte ho la terribile impressione che siamo senza Vangelo, di averlo smarrito, presi, forse, dalla paura. "Passi echeggiano nella memoria/ lungo il corridoio che non prendemmo/ verso la porta che non aprimmo mai" . Vivo questa angoscia quando mi trovo di fronte a testi contenenti affermazioni etiche di tutto rispetto, tese a salvaguardare "la legge naturale", elaborate con una pura ragionevolezza umana, ma dove sono latitanti le prospettive aperte dal Vangelo col suo carico sovversivo di ogni ragionevolezza a favore di una vita autenticamente perduta nell’amore e nel rispetto di ogni figlio di Dio. Si cade nel paradosso quando si induce a pensare che essere cristiani oggi significhi rigettare sempre gli anticoncezionali, esibire una famiglia numerosa, boicottare un referendum, soddisfare l’obbligo domenicale. È mai venuto in mente a qualcuno che per Paolo (e qualcosa del Cristo doveva pur saperla…) l’osservanza della legge morale è possibile solo in un regime di "grazia", quando dunque ci si protende in una dimensione di virtù dove nulla è "dovere" ma tutto è possibilità di cammino verso la "perfezione del Padre"? Quante discussioni sul matrimonio e l’etica sessuale! Ne siamo ossessionati. Il matrimonio è accessibile ai preti? Non accessibile? Il voto di castità è trasgredito oppure osservato da celebri frati e dal comune religioso? La famiglia è minacciata dal riconoscimento legale delle unioni di fatto? Interroghiamoci quanto vogliamo su questi problemi, ma nessuno ci toglie dalla testa che Gesù si preoccupava di altro. Per lui era fondamentale sapere se era stata accolta o no la base risolutiva di ogni etica sessuale e della stessa convivenza civile: una vita spesa nell’amore gratuito, nel dono di sé. Un
vescovo un giorno mi chiedeva cosa poi intendessi con quella mia
invocazione di una Chiesa tornata al "nudo Vangelo". In realtà
abbiamo difficoltà a custodire il "puro, nudo Vangelo", anche
perché siamo soffocati da un’onni-potente istituzionalizzazione
ecclesiastica. Le ragioni della Chiesa "istituzione" obnubilano
quelle della Chiesa-mistero, soffocano lo stesso Spirito di Dio e la sua
creatività. Il Diritto Canonico è legittimo, necessario quanto si vuole,
ma forse è troppo sospettoso verso i carismi, la libertà dei figli di
Dio, la ricchezza della diversità, la chiarezza costruttiva di una santa
"parresìa". Se oggi c’è un paradosso nella Chiesa è la
canonizzazione (riduzione a leggi canoniche) dei carismi degli ordini e
degli istituti religiosi, con la conseguenza di una omologazione che li
rende tutti uguali e tutti inutili. Una Chiesa per il mondo? Una Chiesa del mondo? Un altro fascio di difficoltà mi sembra che nella Chiesa sorga dal suo rapporto col mondo (…). È un problema molto serio perché non è affatto scontato per tutti che la Chiesa abbia da dire qualche cosa al mondo. A meno che non si intenda "mondo delle anime". Di solito si concepisce la religione come un settore separato dell’esistenza. Come l’idraulico ha una sua competenza autonoma, come il medico ha un suo settore di lavoro dove nessun carrozziere ha una parola risolutiva, così l’uomo di Dio parla di anima e di eternità, lasciando ai politici e agli economisti il resto del mondo. Uomo di Dio, non uomo di questo mondo né per questo mondo. Eppure
"il Verbo si è fatto carne ed ha posto la sua tenda in mezzo a
noi". Eppure Dio ha incontrato uomini in carne ed ossa ed ha loro
proposto una esistenza che avesse il sapore dell’eternità fin da ora,
fin da subito, perché si fosse grati della vita, e nella pace si vivesse
come gloria vivente del Padre. Eppure il "regno" è stato
annunziato perché questo mondo fosse trasformato in Corpo di Cristo ed i
valori portati dal Cristo divenissero criterio di ogni scelta per la vita
di tutti. Per sé questa storia è vecchia, fin troppo. Agli albori dell’epoca moderna (nel 1492, con l’occupazione del-l’America), la Chiesa consentì a considerare "inesistenti" quei popoli che non erano armati, né bianchi, né tanto meno cristiani. Ed all’inizio della rivoluzione industriale poche "sentinelle" vigilarono sul fatto che si stava progettando una società ineguale. Si diceva allora dei "due terzi", ma comunque si condannava un terzo dei figli di Dio a pagare con la loro disperazione il benessere di quanti invece nascevano al posto giusto da quei genitori "giusti" che ostentavano la loro ricchezza come segno della benevolenza divina nei loro riguardi. In ogni caso sfuggì anche ai più illuminati degli uomini di chiesa che si stava progettando una società dove le cose contavano più delle persone e dove parole come giustizia, amore, dono, solidarietà finivano di essere valori sociali per venire ricacciati nella buona volontà del privato che, attraverso l’elemosina, poteva affermare, ancora una volta, la sua superiorità umana e perfino cristiana. E quando si profilò all’orizzonte un movimento operaio che esigeva correttivi o proponeva modelli alternativi di organizzazione sociale, ancora una volta si fu più attenti a marchiare di ateismo quei "visionari" che a difendere i diritti e la dignità di tutti i figli di Dio. Questa storia continua ancora oggi e rende soffocante quella saccenteria di basso profilo di ecclesiastici lettori del "Foglio" che marchiano di comunismo e di antiamericanismo chiunque oggi parli di diritti umani, di welfare, o sia per il rapido ritiro delle forze di occupazione in Iraq. Mi sembra di potere amaramente constatare che il mondo entra alla grande nella Chiesa. A volte ho l’impressione che non sia essa ad evangelizzare il mondo ma, al contrario, il mondo ad "evangelizzarla" - se così si può dire. Non vedo con molta evidenza quel tentativo che dovrebbe essere incessante di "non conformarsi alla mentalità di questo mondo" per assumere la "forma del Cristo", la sua mentalità, il suo stile. La "libido dominandi" (che fa tutt’uno con quella "docendi") è ben presente, a volte in maniera tragica, a volte solo patetica, come quando uomini pii sono alla ricerca di una "diocesi di prestigio", di una "parrocchia autorevole", di contatti con "gente che conta", perfino di vittorie elettorali da fare pesare al momento opportuno nelle contrattazioni con i potenti. Il guaio è che spesso si entra così in una cerchia di cattive compagnie. Il potere è un genere quasi sacro, ed i potenti si appoggiano a vicenda. Poco importa se uno è detentore del potere economico, un altro di quello mafioso, altri di quello politico o religioso. Solo che così si volatilizzano altre categorie cristiane: il bene comune, il potere come servizio e la politica come la forma più grande di amore. (…) Quale "bella notizia" oggi è la Chiesa per l’umanità? Come traduce in speranza viva la risurrezione del Cristo per l’uomo disperato del terzo millennio? In giorni bui, in momenti sconsolati, giungo a chiedermi tuttavia se le risposte a queste o simili domande, importino davvero a molti. Evidentemente non è del tutto insensato il mio dubbio se anche tra i preti si fa strada la figura del manager, l’uomo dalle grandi realizzazioni visibili che ostenta capacità di affari, rilevanza di fatturato, magari - naturalmente - a fin di bene. Quando mi trovo a contatto con questa sete (tutta benedetta in alto loco) di visibilità, di collateralismo con i ceti sociali forti, quando vedo canonizzati uomini che hanno fatto la scelta dei ricchi, e so che in Vaticano sulla politica finanziaria mondiale si decide di ascoltare - a porte chiuse - un Michel Novak, quando dunque mi imbatto in cose come queste, oso ancora avere il coraggio di chiedermi che fine abbia fatto la povertà evangelica e dove sia andata a finire la nostra testimonianza cristiana (…).
Ma con chi sta la Chiesa? Io non so se quanto preoccupa me, povero anonimo consacrato, tolga il sonno anche a tutti i responsabili della Chiesa contemporanea, quale che sia il loro grado di coinvolgimento istituzionale. Cioè mi chiedo se l’evidente difficoltà dei seguaci di Cristo di essere autentica comunità credente e segno del "regno" nel mondo di oggi sia o no presente nella vita degli uomini di chiesa. Se la risposta a questa domanda fosse sicuramente positiva, oserei dire che… siamo sulla buona strada. La coscienza di un problema (nel nostro caso, la coscienza di un possibile, involontario tradimento del Vangelo), sarebbe premessa per la conversione. Purtroppo non sono così ottimista. Ed allora affermo che mi preoccupa molto questo oscillare della Chiesa tra i benpensanti, gli uomini di ordine con i quali si sente connaturale, e gli esclusi a cui riserva briciole di carità e pranzi natalizi o giubilari. Il mondo produce inesorabilmente "esclusi", "esuberi", ed a chi è inviata questa buona notizia del "regno" se non ad essi? Chi, se non la Chiesa, dovrebbe mostrare con chiara fermezza che si sta stravolgendo ogni pietà, ogni fede ed ogni umanità? Ma sulla Boss-Fini che trasforma in delinquente un disperato continuiamo a tacere. Siamo molto titubanti sui "Centri di Permanenza Temporanea" e sul loro discutibilissimo stile di intervento. E continuiamo a sancire ogni giorno il peccato originale del cristianesimo storico, quello che ai tempi di Costantino mise il segno dello "Sconfitto", la croce, sui labari degli oppressori vincenti. È così che si benedicono bombe atomiche o portaerei o valorose truppe di occupazione. Pensando
a cose così, non mi meraviglio se una filosofia o una affascinante
teologia dell’ospitalità la trovo fuori da pagine pie di intellettuali
o teologi ortodossi. Questi ultimi sanno tutto su Dio in cielo, ma così
poco di quel Dio che nei suoi figli approda sulle coste della Sicilia in
cerca di un inferno meno atroce di quello lasciato alle spalle. Del resto
l’ospitalità è anch’essa lasciata alla libera iniziativa
caritatevole dei privati. Non è un valore politico. Ha rilevanza il
commercio, il mercato, e quindi, per necessaria conseguenza, la categoria
più plausibile che dirige i rapporti infraumani è quella che si gioca
attorno all’asse amico-nemico. L’altro da me è un concorrente, uno
con cui sono in necessario conflitto (…). Non dichiaratamente con gli
esclusi, non con i "diversi", essa stessa a volte escludente e
fautrice di scomuniche ed emarginazioni, questa mia Chiesa con chi sta?
Dove trova l’immagine del Figlio di Dio? Su quale volto vede il suo
riflesso? E dobbiamo aggiungere: non con i poveri, non con i giovani, non
con la classe operaia, non con i disoccupati. Di chi davvero si preoccupa
questa mia madre che è la Chiesa? Perché vede di malocchio quanti dei
suoi figli osano trattare non solo il corpo eucaristico di Cristo ma anche
il suo corpo mistico, ben visibile tra i crocifissi ed i reietti del Terzo
Mondo e delle nostre periferie urbane? Questo silenzio mi scandalizza, mi
soffoca, perché vorrei poter dire, non solo in nome di Cristo ma anche in
nome di chi credo lo rappresenti in maniera del tutto particolare, vorrei
poter dire che la Chiesa c’è per ogni disperato, lei portatrice di una
"felice parola" per il mondo dei poveri e degli esclusi. Quali speranze nella Chiesa di oggi? Salvo rare eccezioni, non vediamo giungere molta luce dalla ufficialità istituzionale (…). Ma la Chiesa non è solo istituzione. C’è il popolo di Dio, ci sono anonimi vescovi che tirano la carretta anche tra gli scranni della Cei ed aspettano tempi migliori. Ci sono vescovi che scomunicano i mafiosi, remando contro una prassi consolidata di omertosa neutralità. Ci sono istituti religiosi in calma ebollizione, preti che tentano di dare voce al Vangelo rischiando emarginazione e incomprensione. C’è una vivacità nel cattolicesimo italiano che ha stupito laici e credenti (…). Indubbiamente
la mia prima radicale speranza è il fatto che Cristo è risorto. Diceva
La Pira: "La pace è ineluttabile perché Cristo è risorto".
Qualcosa del genere illumina i miei giorni. La Chiesa vedrà tempi
migliori – mi dico. Perché Cristo è risorto. Un mondo più umano è
possibile perché Cristo è risorto. I giovani scopriranno la
responsabilità e la bellezza della vita, perché Cristo è risorto. Su
questa radice fondante si innestano altri "segni" di
speranza". (…) C’è un desiderio di apertura all’Altro, a
questo Dio "che viene", senza calcoli, con l’unica
precomprensione che non può averci lasciati nella nostra piattezza di
creature credenti perché dedite a pie pratiche, e con un’anima di
accaniti bottegai. Quasi convinti che non può essere questa banalità la
salvezza portata da Cristo, non può essere questa la sua Chiesa; deve
esserci altro da cercare sempre di nuovo, sempre più aperti ad
accoglierlo. Circolano sempre più nella Chiesa idee che distinguono con
sempre maggiore chiarezza il cristianesimo evangelico da quello storico.
Ben presto, molto presto abbiamo cominciato a credere in un Cristo che
aveva solo la parvenza di quello conosciuto dagli Apostoli. Forse, a
nostro uso e consumo, abbiamo inventato un Vangelo storico che distorceva
del tutto quello… evangelico, impedendo così al Cristo di essere noi la
sua "invenzione", la novità portata da lui su questa terra.
(…) Sto dicendo che già nel IV secolo si rese va-na la venuta del
Verbo. Rimaneva una pia illusione quel grido angosciato dell’Apocalisse
che invocava la sua "venuta": "Vieni, Signore Gesù!".
Trasformato il suo messaggio in un calcolabile rischio, o in un motivo di
prestigio, lo si adattò alle nostre dimensioni abbastanza terrene,
lasciando ad un pugno di uomini il compito di vivere di Vangelo e di
"consigli evangelici". Un Gesù calcolabile, umanamente
comprensibile, scusa dello splendore e del potere degli uomini che lo
rappresentano in esclusiva, non potrà mai salvare questo mondo. Bisogna
ritornare alla "follia della croce", al nudo Vangelo, tentando
seriamente che la sua luce sia "la vita degli uomini" perché ne
determina scelte e stili di vita. Non c’è altra base plausibile per
quella pace che attendiamo, o per la convivialità gioiosa di 6 miliardi
di figli di Dio sul pianeta. Si tratta, in altri termini, di fare
esperienza del Vangelo nella concretezza di tutta l’esistenza umana, di
riportare quindi in primo piano la fede prima della religione,
l’autenticità e la convinzione sul-l’appartenenza anagrafica, la
qualità di vita umana e cristiana sul numero di battezzati. In questa
prospettiva la Chiesa diventa non tanto luogo di riti e neppure custode di
una tradizione, ma inerme memoria di un avvenimento e di una promessa che
continuano ad interpellarci anche se fino ad oggi siamo stati incapaci di
dire al Messia il nostro "vieni!". Credenti che queste speranze
nutrono ed in questa direzione tentano di portare la loro comunità
ecclesiale sono già di fatto una speranza per la Chiesa intera. p. Felice Scalia, gesuita dell’Istituto Superiore di Scienze Umane e Religiose (Issur) di Messina |