"Tempo Perso - Alla ricerca di senso nel quotidiano"  -  Sezione "SPIRITUALITA' E FEDE"

 

Riflessione pubblicata su  HOREB numero 45 – 3/2006 "Educare al desiderio"

 LA CHIESA ASCOLTA

 I DESIDERI DELL’UOMO? *  

di Felice Scalia

      

  Il vangelo di Giovanni – è risaputo – ci presenta un Gesù stanco, bisognoso di una bella brocca d’acqua fresca, inchiodato ad un pozzo ed in attesa di qualcuno che abbia di che attingere. Arriva poi una figura di donna. Strano in quell’ora. L’acqua si attinge al mattino. Appunto è una donna strana. Ed a lei Gesù chiede da bere.

   Di volta in volta, lungo i secoli, cambiano le identificazioni e le interpretazioni di un passo altamente simbolico oltre che umanamente realissimo. In Gesù c’è la chiesa che incrocia l’umanità da redimere? Quella donna dai desideri contrastanti, confusa, insoddisfatta, in attesa, è l’umanità? Oppure è la donna simbolo della chiesa, mai limpida, piuttosto riluttante ad incontrare il suo Signore, e tuttavia nostalgica dell’adempimento di una promessa e stufa dei suoi equivoci “amorosi”? E quel Maestro stanco, sconfitto quasi da un sole cocente e dalla fatica del viaggio, è il credente che nella storia trova solo fatica e così poca gratificazione? È inesauribile la ricchezza simbolica. Noi tuttavia preferiamo vedere a quel pozzo l’incontro, il rapporto tra il Cristo mistico, la chiesa, e l’uomo di oggi. Preferiamo vedere in quella donna “strana”, capace di dimenticare anche la sua sete per “correre in città” a portare una bella notizia, questo nostro mondo così infognato nei suoi idoli ma anche così travagliato da nostalgie profonde, da desideri di infinito. È a questo punto che si pone la domanda: ma questa chiesa della samaritana esiste? È una realtà viva nelle nostre città, o una pia illusione di chi ha pena delle sofferenze del mondo e vuole portare redenzione?

   Che la chiesa presenti se stessa come una risposta ai bisogni dell’uomo è un dato dogmatico che noi non discutiamo. Gli equivoci nascono quando si va più a fondo al problema e si cerca di guardare meglio a quali domande del cuore umano essa risponda, o si senta chiamata a rispondere. E ancora: che orecchie essa ha per percepire tutti o alcuni dei desideri dell’uomo. Per discernere il suo vero campo di ascolto e di azione.

   Certamente non tutti i desideri dell’uomo sono sani. Ieri come oggi. C’è un desiderio iniquo che divora l’altro, che si fa rapina, possesso, tentativo di sfuggire alla grande angoscia della insignificanza attraverso un insaziabile dominio su cose e creature umane. Questo desiderio è inchiodato da due comandamenti secchi e perentori: “Non concupisces” – “non desiderare”, se non vuoi creare ineguaglianze e, alla fine, lacrime e sangue. Ma c’è in noi un desiderio di divenire ciò che si è, di attingere ad un pozzo profondo, di vivere in relazioni di amore con tutto e con tutti. È sacro questo desiderio. È chiamata alla bellezza, alla verità, ad osare essere se stessi, perché radicalmente ancorati all’infinito di Dio. Questo desiderio crea pace, redenzione di dannati.

   Dette così, le cose sono fin troppo chiare. La chiesa discerne il “grano” dalla pula”, “l’acqua che disseta” dai vari beveraggi da intruglio, e fa scaturire “acqua perfino dalle rocce”. Ma la vita è diversa. Molti sacrosanti desideri umani sanno di terra, di concretezza, e quella mai scomparsa diffidenza dell’uomo pio di tutti i secoli per quanto è “terreno”, può renderci ciechi di fronte a tante attese o ritenerci esonerati dal rispondervi. Per molti cristiani la fame sul pianeta è un problema di economia, non di spiritualità. È un dato di natura a cui si può venire incontro con l’elemosina, mai con la giusta distribuzione dei beni. Così anche la guerra è un problema politico, più grande di noi. Più che crocerossine al fronte noi non possiamo mandare. Allo stesso modo, la casa è un affare di mercato, è un bisogno soggetto alle leggi di questo mondo che sono quelle semplici della domanda e dell’offerta. Noi chiesa che c’entriamo? Possiamo esortare la gente ad avere pazienza, a vivere da cristiani nelle favelas, a sopportare topi e fogne all’aperto. Possiamo dedicare una intenzione nella “preghiera dei fedeli” a messa: “Perché i senza-tetto abbiano una baracca, noi ti preghiamo!”.

   Non vorremmo sembrare ironici. Solo che ci preoccupa molto questa virulenta ripresa di una spiritualità e di un andazzo teologico che vanno restringendo sempre più l’annunzio del vangelo alla morale individuale (in gran parte al controllo sessuale) e alla conquista di un posto in paradiso dopo la morte. Posto in cielo, tanto più assicurato quanto più si è stati pazienti nell’inferno che noi creiamo sulla terra. I movimenti spiritualisti di gran moda remano in questo senso. E si fanno sentire sempre di più teologi che dichiarano non autenticamente cristiana la categoria di “regno di Dio” annunziato presente da Gesù nel mondo, dato che essa – dicono erroneamente - “è assente dai detti del Gesù postpasquale”. Ci stiamo rimangiando il Vaticano II sulla scia di quei lefebvriani che attribuiscono l’attuale crisi della chiesa al Concilio. 

   A complicare le cose (cioè a renderci difficile l’ascolto dei desideri veri della gente) ci sono poi, “le foglie di fico” di adamitica memoria. Non ci riferiamo per nulla a problemi di pruderie. Stiamo pensando ad uno uso ideologico di determinati valori che ci rendono praticamente ciechi e sordi alle sofferenze ed alla aspettative dell’uomo di oggi. Abbiamo assistito per anni all’occultamento di ogni voce profetica che chiedeva alla chiesa di rimanere sulla scia della “Pacem in terris” di Giovanni XXIII, a costo anche di inimicarsi i potenti del mondo. Qui la “foglia di fico” era la parola “comunismo”. Sarebbe stato da “comunisti” “ripudiare la guerra” come voleva la Costituzione e la coscienza di milioni e milioni di cattolici., la sofferenza inaudita di miliardi di innocenti. L’essere quell’uomo politico un ex alunno delle nostre scuole cattoliche, gli ha fatto meritare l’appoggio incondizionato di interi Istituti religiosi o di curie diocesane. L’appartenenza diventava ideologia, e garanzia della “difesa della chiesa”. Solo che ci si rendeva sordi al bisogno di uscire dall’abiezione, dalla malavita organizzata, così pressante in giovani ed adulti stanchi di secoli di vessazioni mafiose e di politici e medici collusi con “Cosa nostra”. Altra “foglia di fico” è il valore della famiglia. Sacrosanto questo valore, ma quando se ne fa un uso ideologico, adatto a coprire magagne e politiche contro la vita e la possibilità stessa della nascita di nuove famiglie, allora ci si accorge che sono diventati inudibili i desideri dei giovani di avere un lavoro dignitoso, l’accesso a fitti ragionevoli, la stabilità occupazionale, la sicurezza di servizi sanitari efficienti, quel desiderio profondo che si chiama coinvolgimento amoroso nella vita di una persona, scelta come compagna di cammino. E che dire dell’impegno per la salvaguardia della vita intrauterina o embrionale? O della fase terminale dell’esistenza? Ci edifica la chiesa quando ci ricorda la sua visione dell’uomo, questa sua attenzione trepida per ogni vita. Ma scade in ideologia astratta quella preoccupazione, appena la chiesa dà l’impressione di dimenticare il desiderio di vita della gente già nata, di non ascoltare sufficientemente il bisogno di “buonasanità”, di salvaguardia del creato, di preminenza dell’uomo sulle cose. O quando non si rende conto che la richiesta di eutanasia è solo un disperato grido dei vecchi perché non si sentano “palla al piede” della nostra economia..

   Questo uso ideologico di alcuni valori, e quindi questa diffusa pratica incapacità di ascoltare la totalità dei desideri umani, non è affatto scomparsa dal nostro orizzonte cristiano. Ed è tragico per noi che proclamiamo ad ogni angolo la dignità intangibile dell’uomo, il nostro diritto ad essere “esperti in umanità. Siamo in fiduciosa attesa che diventi effettiva pratica pastorale quanto i vescovi italiani, nel lontano 1970, suggerivano alla chiesa: “la parola di Dio deve apparire ad ognuno come un’apertura ai propri problemi, una risposta alle proprie domande, un allargamento ai propri valori ed insieme una soddisfazione  alle proprie aspirazioni” (RdC 52).

   Utopia di ingenui questa attesa? Diciamo meglio che ci troviamo di fronte ad una autentica illusione consolatoria fino a quando la chiesa non assumerà, come stile ordinario di governo e di pastorale (e non come scelta solitaria di eroi condannati in vita e canonizzati in morte) l’ascolto fiducioso “di ogni uomo, di tutto l’uomo”. L’uomo “simpliciter” è il pozzo a cui può dissetarsi. Quello è il luogo in cui la sua stanchezza e l’oppressione asfissiante della calura possono trovare un approdo per divenire ciò che è, “mistero di unità e di salvezza per tutto il genere umano”. Lo aveva capito bene Paolo quando proclamava che “in Cristo non c’è più né uomo né donna, né barbaro né scyta, né schiavo né libero”. C’è l’uomo, il volto di ogni uomo. Allora forse bisogna prendere le distanze dal pozzo dell’uomo occidentale sazio e privilegiato. Non è pozzo sano quello dell’uomo “potente”, magari generoso con le nostre opere di beneficenza. Non disseta il pozzo di una cultura occidentale che disprezza e annulla ogni altra cultura come “inferiore” e “canaglia”. Non verrà nessuna donna assetata, nessuna “samaritana”, ad un pozzo dove bisogna pagare il pedaggio della rinunzia alla propria identità, alla propria storia, se si vuole evitare il marchio indelebile di una inferiorità irredimibile. Fino a quando a custodire il pozzo c’è gente che se ne crede padrona e costringe gli assetati a riconoscere in essi una eccelsa perfetta umanità a cui tutti si devono piegare, possiamo essere certi che quell’acqua per molti sarà come se non ci fosse, e per altri porterà una vita avvelenata e quindi indegna di essere vissuta.

   Non se ne parla quasi più, se non per folklore. 40 anni fa una stranezza nella storia delle religioni: una chiesa, un potere sacro, si definisce “chiesa dei poveri”. Rende retorico così ogni splendore di culto ed ogni autorità di esperti. Consegna i testi sacri al popolo di Dio (non “alla plebaglia”!), rinnega ogni centralizzazione dei competenti in fede e dottrina. “Pazzia pura” – la definirono alcuni – “becero pauperismo di bassa lega”. Forse si trattava di ben altro. Noi almeno la pensiamo così. La chiesa si affacciò sul pianeta uomo, sul nudamente umano. Su quel vincolo che sussiste quando tutto crolla e nulla è identico. Al Concilio ci si rese conto che l’uomo da redimere, amato dal Padre, non era il colto o il ricco o il bianco. Costoro hanno sempre un “di più” accessorio. Hanno umanità e soldi. Umanità e tecnologia. Stare dalla loro parte ci rende settoriali, partigiani, non “cattolici”. Ma se ci si rivolge al “povero” allora si sta parlando all’uomo, ad ogni uomo.

   Troppo difficile questa conversione. Perché anche la chiesa doveva diventare “povera”. Era chiamata a lasciare da parte ogni presupponenza, ogni presunto diritto ad imporre con forza la verità. Doveva evitare che i suoi figli preposti ad un servizio si sentissero prescelti per un onore.

   Noi non ci scandalizzeremo per questa ritrosia così umana. Siamo tutti in bilico tra una risposta alla chiamata dello Spirito ed un ripiegamento sul nostro narcisismo. Ci basta vedere che in tanti questo sforzo esiste, ed è per persone come queste (laici, preti, religiosi) che la speranza di un pozzo “zampillante d’acqua viva” rimane fissa nei nostri pensieri. Sono questi gli uomini del dialogo. Anche se si trovano in posti di responsabilità e di dibattito dottrinale, uomini come questi rendono possibile il cercare insieme, e quella stima dell’altro che apre alla comprensione delle stesse parole.  

   Il nostro vero dramma comunque è il constatare ogni giorno che al “pozzo di Sicar” non c’è molta folla, anche se la gente muore di “sete”. A volte ci sembra che ad attendere assettati non ci sia neppure il prete. Meno che mai credono che sia dovere loro avvicinarsi al “pozzo di Giacobbe” i molti cristiani che magari affollano le feste di Natale e Pasqua. Un po’ tutti preferiamo “cisterne screpolate” ai pozzi d’acqua viva, come diceva Geremia? Ce la facciamo alla larga da quel Gesù che ci ha promesso un pane che estingue la fame ed un’acqua che estingue la sete? Probabilmente sì. Questo è il nostro dramma. Rifiutiamo ciò che ci farebbe vivere. Perché un po’ tutti abbiamo “amanti” che facciamo fatica a lasciare per accogliere le parole di un “estraneo”, di uno “straniero”.

   Ha “amanti” il mondo che di Cristo “via, verità e vita” non sa che farsene. Preferisce gli idoli, quei desideri assolutizzati che reclamano con tirannia una soddisfazione immediata. Soldi, squadra del cuore, vestiti firmati, potere politico, ritrovati tecnici, matrimoni di comodo, avventurette sessuali, posti di prestigio (comprese diocesi e parrocchie), amici potenti; cosa non si sacrifica a queste divinità! Anche le proprie idee ed il proprio onore. Si rinuncia ad avere amici, a pensare, ad avere un dignità, perché – lo diceva con amarezza un giovane – “queste cose non danno pane”.

   Abbiamo “amanti” anche noi battezzati, dato che proviamo difficoltà serie a prendere il posto di quel Gesù che come suo unico cibo aveva la volontà del Padre e come suo unico amore l’uomo da riportare alla vita ed alla gioia. “Amante” che ci rende infedeli a Cristo è la passione per la nostra riuscita, la nostra carriera – ecclesiastica e no - quella benevolenza elemosinata perché qualcuno, in alto, si ricordi noi. “Amante” è la sicurezza economia che sconfina nell’avarizia. “Amante” è quella freddezza che fa contento un prete di essere funzionario del sacro e professionista della chiesa, quella pigrizia nell’appiattirci sul già saputo e nel non cercare ancora le disposizioni necessarie per sentire, accogliere, comprendere l’umanità di oggi. Non ci addentriamo qui su spinosi problemi che toccano alla lettera le nostre immaturità affettive ed i possibili “accomodamenti” che hanno reso alcuni di noi manifestamente ipocriti e legalmente delinquenti. Diciamo solo che questo strano “amante” che è il nostro narcisismo immaturo, l’enfasi sui nostri problemi e sulle nostre manie idolatriche (nella Bibbia idolatria e prostituzione agli amanti è tutt’uno), non sempre toglie attivismo e laboriosità, ma sempre “estingue lo Spirito”. Il cristiano e il prete non si salvano, cioè non estinguono la loro “sete”, solo perché “fanno” molto e conoscono a menadito tutte le risposte alle 597 domande poste dal “Compendio del catechismo della Chiesa cattolica”. La salvezza, “la soddisfazione dei nostri bisogni” autenticamente umani, la realizzazione dei nostri desideri è l’incontro con una Persona viva, non con una dottrina. È un’avventura mai conclusa. Una ricerca in cui l’aver trovato è premessa e bisogno per cercare ancora.

   È davvero una disgrazia che l’umanità traduca quel desiderio di pienezza che dà senso alla vita nella ricerca di piccole sciocchezze di un momento, in apparenze fatue, e non lo guardi fino in fondo. Così non sa che è assetata di infinito e desiderosa di una dedizione affettiva che sia come una nuova creazione. Non sa che è anelito di eternità, capacità di creare un mondo ed una esistenza umana davvero liberate da ogni paura. Ma ancora più grave è la disgrazia quando chi dovrebbe vegliare sul destino e l’orientamento del cuore umano, dimentica questo divino mandato e svende autentiche perle per bigiotterie di poco conto.

   

Felice Scalia

Via Ignatianum 23

98121 Messina

                                                                                       

 

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