"Tempo Perso - Alla ricerca di senso nel quotidiano"
Il consiglio di un laico:
non abusare di Dio nel discorso pubblico di Gian Enrico RusconiDio
è trendy" scrivono i rotocalchi, deliziando i monsignori e
agenzie giornalistiche religiose. Ma nel contempo gli uomini di chiesa
insistono con toni accorati di "non escludere Dio dalla sfera
pubblica”. A fasi alterne si sente parlare di rivincita o di
mortificazione della religione. In questa situazione l'atteggiamento
più saggio è quello di non abusare di Dio nel discorso pubblico. Questo
invito non equivale a porre restrizioni all'espressione pubblica di
convincimenti dei cittadini che deve essere garantita a tutti:
credenti, non credenti e diversamente credenti. Ma è in gioco la
salvaguardia della sostanza laica della democrazia che tutti, a
parole, dichiarano di volere. L'invito
a non abusare di Dio esige chiarezza nel definire i confini tra sfera
pubblica in generale e discorso pubblico mirato alla decisione
politica. Invita a non utilizzare in modo implicito, surrettizio,
allusivo argomenti religiosi in contesti deliberativi che portano
alla produzione di leggi che devono valere per tutti. Non dissimulare
come etica razionale o naturale quella che è una dottrina religiosa,
storicamente e culturalmente condizionata. Per
il laico le questioni attinenti la "natura umana", con le
loro implicazioni scientifiche, etiche e politiche, e la questione di Dio
sono separate. Questa separazione tra Dio e natura, che crea grande
turbamento nel credente tradizionale, non discende da un
pregiudizio ateistico , bensì si fonda sull'assunto dell'etsi deus non
daretur. Questa
formula lungi dal rappresentare un mascherato disimpegno dalle grandi questioni
etiche sull'uomo e sul mondo, contesta la presunzione di parlare
autoritativamente in nome di Dio su questioni
razionalmente/ragionevolmente controverse, in particolare sul tema
della natura umana... Proprio la formula dell'etsi deus non daretur enuncia
l'impegno di ripensare radicalmente il rapporto tradizionale tra
"fede e ragione" — per usare un'espressione molto cara a Papa
Ratzinger che al tema della convergenza positiva, anzi fondativa, tra
razionalità e fede investe tante energie intellettuali. A
questo proposito la lezione da lui tenuta all'università di
Regensburg/Ratisbona è davvero rilevante, non tanto per l'enorme risonanza
mondiale, imprevista e imputabile ad un difetto comunicativo da parte
del Pontefice, quanto perché mostra una concezione della
ragione/razionalità che si presta ad un serrato confronto critico.
E' paradossale che un discorso dedicato all'allargamento del
concetto (europeo-occidentale) di ragione, esteso sino ad includere
tutte le religioni, ai fini di un dialogo più ampio, abbia rischiato
di pregiudicare i buoni rapporti con la cultura religiosa islamica accusata
di fatto (al di là delle buone intenzioni) di essere contro la ragione,
quanto meno nella legittimazione della violenza nella forma
dello jihad. Ma
non è neppure irrilevante notare che tutto l'equivoco si sia
prodotto proprio mentre il Pontefice esercitava senza restrizioni il
suo ruolo nella sfera pubblica. La
ragione naturale e i sottintesi religiosi Oggi
la strategia comunicativa degli uomini di chiesa punta con
particolare insistenza sui motivi della "ragione naturale" o
"umana". Eppure ai fini dell'influenza pubblica l'efficacia
delle loro argomentazioni si basa sul peso del loro ruolo
istituzionale. E su sottintesi religiosi. Se, ad esempio, molte
affermazioni perentorie sulla "famiglia vera o naturale" o
il ricorso nel dibattito sulle biotecnologie ad un "primato della
vita" intesa in senso totalizzante, non si appoggiassero su un
sottinteso re ligioso, esse perderebbero gran parte della loro
efficacia persuasiva. Naturalmente
la questione, vista più da vicino, è più complessa. Prendiamo ad esempio
l'idea dell'uomo come "creatura di Dio" quale fondamento
dei suoi diritti fondamentali. Si tratta di una tesi che è
convergente con la concezione laica degli stessi diritti umani.
E' vero che ad alcuni può apparire problematica l'affermazione che i
diritti fondamentali dell'uomo siano "ultimamente rinviabili
al Creatore". Ma questo nulla toglie alla positività del fatto
che, qualunque sia la motivazione, credenti tradizionali e laici
sono convinti della intangibilità dei diritti fondamentali dell'uomo
che devono rimanere sottratti all'arbitrio del legislatore. Non
importa il linguaggio e l'itinerario motivazionale che porta
all'affermazione di questo principio. Il
problema nasce invece quando in nome della stessa logica "creaturale"
si rivendica ad esempio nella discussione sulle biotecnologie al
"concepito" (o addirittura all'ovulo fecondato fuori dal
corpo materno) i diritti fondamentali dell'uomo, "troncando
prematuramente una discussione che noi vorremmo sviluppare per
disteso, visto che su tali questioni di fondo intendiamo trovare un
accordo politico che rispetti sino in fondo, come vuole la
Costituzione, il pluralismo ideologico della nostra società". In
breve, i problemi sorgono quando il riferimento a Dio o alle
tradizioni religiose porta ad affermazioni sui temi della scienza, in
particolare della biogenetica o nella definizione di modelli di
relazione sessuale o sulla natura umana tout court, che sono
altamente controversi e risolvibili soltanto con una ragionevole
intesa nel rispetto di tutte le visioni della vita. Il
quadro è reso ancora più complicato da un altro dato di fatto.
Nella religione di chiesa più tradizionale, in Italia in
particolare, assistiamo ad un progressivo utilizzo dell'apparato
teologico-dogmatico in funzione quasi esclusiva della dottrina morale
e della sua pastorale. Anzi è in atto una sorta di
de-teologizzazione del messaggio religioso a favore della
raccomandazione morale in gran parte di carattere privato-sessuale, anche
se nobilitata come "difesa della famiglia". Per non parlare
dell'appello culturalista alle "radici cristiane" o
all'esposizione del crocifisso in luogo pubblico considerato alla
stregua di un simbolo nazional-popolare. Non credo che il
Papa-teologo Ratzinger, con la sua preoccupazione per i contenuti dogmatici
sarà in grado di invertire questa tendenza. La
fase postsecolare dello stato secolarizzato Di
fronte a questa situazione in campo laico si fanno sempre più
frequenti le voci che non si limitano a denunciare una crescente invadenza
della chiesa, ma contestano in linea di principio la sua presenza nella
sfera pubblica. Ogni apertura del discorso pubblico ad argomenti
religiosi — affermano — è una minaccia ai principi della libertà
di coscienza, ai fondamenti stessi della laicità, all'idea dello
stato laico. Ritengo
che questa posizione critica debba armarsi di strumenti più
sofisticati. Per cominciare il dibattito pubblico non si sviluppa immediatamente
su argomenti religiosi ma attorno a "natura umana a visioni della
vita" e alle loro regolazioni giuridiche. In questo mutamento di
confine nell'etica pubblica molti laici "conservatori" si
trovano di fatto, loro malgrado, dalla parte dove milita la
chiesa. In secondo luogo il pezzo forte della laicità tradizionale
— la distinzione tra privato e pubblico — ha cambiato
completamente di senso. Oggi
il confine passa tra il diritto della persona di disporre
incondizionatamente delle proprie sue risorse generative e la
necessità di una normativa comune e condivisa che impedisca
effetti degenerativi. Siamo davanti al conflitto tra la rivendicazione del singolo
di disporre liberamente del proprio corpo e il principio etico della
indisponibilità della dotazione biologica in nome della "dignità
umana". Sul punto si può discutere a lungo appassionatamente ma
intanto è un'aporia da governare. Lo
stato laico, secolarizzato, che deve rispettare l'autonomia e la
libertà dei cittadini, si trova davanti a compiti imprevisti ed esposto
a pressioni morali e ideologiche di frazioni importanti di suoi
stessi cittadini che si ispirano alla dottrina della chiesa, senza
per questo sentirsi più "religiosi". Si parla così di una
fase postsecolare in cui viene a trovarsi lo stato secolarizzato. A
questo punto vorrei ricordare quanto scriveva alcuni decenni fa un
maestro di laicità, Arturo Carlo Jemolo, parlando della ”ideologia
dello stato laico", di cui lui stesso era interprete. Questa
formula — diceva "può tenere” se vi è un numero sufficiente di cittadini
che vogliono vivere in un clima di libertà, che abbiano rinunciato alla
violenza e accettata l'idea dello stato come di una grande associazione
di uomini aventi una morale comune ed interessi comuni, ma non le
medesime idee su ogni cosa, specie su cose riguardanti la
religione. Ma il giorno in cui tali condizioni venissero a mancare
tutta la costruzione crollerebbe". Ebbene,
questo giorno è arrivato, ma non nel senso temuto da Jemolo. Gli
italiani infatti non rinunciano a godere della loro libertà, ma non
hanno più "le medesime idee" non soltanto sulle "cose
riguardanti la religione" bensì sulla "morale
comune", su temi che toccano più intimamente la loro vita
privata e i suoi riflessi pubblici: idee di vita/morte, di
famiglia, ingegneria genetica eccetera — questioni tutte che
toccano la "natura umana". In questo contesto molti cittadini
(magari senza dichiararsi credenti) guardano al magistero della
chiesa come ad un punto di riferimento in problemi morali di
rilevanza pubblica. La chiesa diventa influente nella formazione
dell'opinione pubblica che accompagna la determinazione delle leggi
dello stato. Ma
"la costruzione che crolla" non è lo stato laico come
tale, bensì lo specifico apparato culturale e motivazionale che lo
aveva accompagnato nel suo costituirsi. Oggi tutti si affrettano
a proclamarsi laici — Corti e giurisprudenza in prima fila — ma
l'impressione complessiva è di insicurezza e confusione. Si
tratta di dare ai principi della laicità una nuova solidità ed
efficacia sul piano politico-istituzionale ma soprattutto di ricreare una
cultura e una capacità comunicativa pubblica nuova. Laicità
come espressione istituzionale e laicità come espressione culturale
o atteggiamento morale sono intimamente connesse, ma è
soprattutto a quest'ultima dimensione che ora prestiamo attenzione. L'uomo
e il cittadino Il
criterio-base della laicità consiste nella autonoma determinazione
delle norme di comportamento morale e quindi della loro istituzionalizzazione
— in vista della creazione di un ethos pubblico. Dove ethos
significa, al di là della somma delle norme propriamente dette,
costume, abitudine morale, sensibilità reciproca tra i cittadini,
attenzione alle differenti esperienze di vita e disponibilità a
ridefinire sempre insieme le regole della convivenza. In una parola,
senso della cittadinanza. La
laicità è anche una concezione della natura umana. La natura umana
infatti è laica. Questa affermazione va argomentata attentamente, come
vedremo, perché implica anche attenzione privilegiata alle scienze sull'uomo.
E qui incontriamo il grande paradosso: con lo sviluppo scientifico,
dalla biologia alla neurologia, sappiamo sempre meno "che
cosa è l'uomo" (metafisicamente parlando) ma sappiamo "chi
è il cittadino" (eticamente parlando), perché i criteri della
cittadinanza dipendono dalle nostre intese e decisioni comuni. Ritroviamo
così la classica dialettica tra ”uomo” e "cittadino"
che dà centralità all'idea di libertà, di autonomia della
coscienza e della ricerca scientifica — concetti che sono costitutivi
della nostra civiltà. Si tratta di concetti da rivisitare e
rimeditare alla luce delle più recenti acquisizioni scientifiche in un
età che — come abbiamo visto - si presenta ad un tempo
secolarizzata e postsecolare. Ancora.
Il principio costitutivo della laicità è l'autonomia di giudizio e
la libertà di coscienza dell'individuo che si considera maggiorenne
nelle grandi questioni etiche del nostro tempo. Questa autonomia non
è affidata a insindacabili valutazioni soggettive bensì a
motivazioni che sono aperte allo scambio di ragioni degli altri verso
cui si ha pieno rispetto. La laicità non è un mero atteggiamento privato
perché l'ambito in cui essa si qualifica in modo significativo è il
discorso pubblico e l'etica pubblica. E' nello spazio pubblico
che acquista pieno senso la laicità. Non
possiamo chiudere queste anticipazioni di alcuni motivi della nostra
riflessione, senza una battuta sulla insistente evocazione nel
discorso pubblico delle "radici cristiane" della nostra
civiltà. E' ovvio che esse sono parte integrante della genealogia
della ragione occidentale, e dopo il discorso di Ratzinger a
Regensburg dovremmo sempre parlare di "radici greco-cristiane"
. Ma queste noi oggi le traduciamo come "ragioni laiche”. E'
inutile insistere sul fatto che nel corso degli ultimi anni molta
pubblicistica ha caricato l'evocazione delle radici cristiane o della identità
cristiana tout court come una rivendicazione identitaria globale di
contro ad una vera o presunta minaccia islamica/Islamista. Questo
atteggiamento elude la questione cruciale che il tratto qualificante
dell'Europa politica non è l'identità cristiana ma la sua natura
laica. Radici cristiane diventate ragioni laiche, appunto.
testo integrale pubblicato da "Il Foglio" - 18 ottobre 2006 |