Parlano
tutti, nel nostro Paese, salvo il Parlamento che dovrebbe essere il luogo
della discussione ponderata e della decisione. Chi ha più voce, chi ha
maggiore copertura mediatica, ritiene d’avere più ragione. «Piazza San
Giovanni» è evocata come evento politico inappellabile. Una volta la
piazza era rossa, adesso è bianca. La dinamica sembra la stessa, ma senza
l’enorme copertura mediatica e la ricattabilità morale di moltissimi
politici, non saremmo arrivati alla situazione attuale. Siamo approdati ad
una democrazia post-parlamentare. È un paradosso che soltanto il nostro
Paese poteva inventare.
Ai tempi del governo Berlusconi si denunciava con enfasi (anche da una
parte cattolica) la deriva verso una democrazia populista e mediatica. Se
adesso dicessimo che sta avvenendo qualcosa di simile per la mobilitazione
cattolica - sia pure ad un livello più alto - saremmo subissati da
critiche irritate. Eppure da settimane stiamo assistendo a una massiccia
campagna di contro-informazione che assicura che i Dico sono politicamente
liquidati. La piazza extra-parlamentare canta vittoria e alza la posta. Il
punto è che con questa maggioranza parlamentare insicura e litigiosa
tutto è possibile.
Ma che cosa significa la «non negoziabilità» di valori presuntivamente
assoluti se non la virtuale paralisi del sistema parlamentare? Si parla di
valori presuntivamente condivisi dalla stragrande maggioranza degli
italiani. Ma si dimentica che questa presunzione contraddice il principio
della pluralità dei valori (legittimamente condivisi dalle minoranze) e
del loro riconoscimento pubblico. Altrimenti non ha senso parlare di
democrazia laica.
Al di là dei contenuti su cui si discute (politiche più o meno
strumentali per la famiglia, qualità dei diritti delle coppie di fatto e
omosessuali ecc.) ciò che colpisce è lo stile della comunicazione
pubblica. In realtà non si dialoga affatto, si proclama. Nel giro di
pochi mesi dagli enfatici appelli dei vescovi a non «escludere Dio dal
discorso pubblico» si è arrivati all’uso sistematico del
discorso-in-pubblico (nelle piazze, nei macroconvegni, nelle zelanti
corrispondenze mediatiche dal Vaticano) che mira a orientare, spesso con
toni intimidatori, i parlamentari. E ci sta riuscendo.
Nelle cosiddette questioni eticamente sensibili il governo è paralizzato.
È un governo-travicello che galleggia grazie al gioco delle correnti
della politica. Ma non ha una direzione propria. Senza reagire, si lascia
dire dalla Cei che cosa sia la «vera laicità» dello Stato. Temo che il
«cattolico adulto» Romano Prodi non sia in grado di andare oltre
l’appello tradizionale alle «questioni di coscienza». Non si rende
conto che la posta in gioco non è più la coscienza individuale, ma
l’etica pubblica, che è cosa completamente diversa.
Non ripeteremo qui ancora una volta le ragioni della laicità in
democrazia o le linee di una ragionevole politica per la famiglia e per le
unioni di fatto e omosessuali. Questo giornale lo ha fatto decine volte,
con più voci. Non serve più ripeterlo, perché quelli della «piazza San
Giovanni» non ascoltano (ammesso che l’abbiano fatto qualche volta nel
passato). Anzi sono gli altri che sono pressati ad ascoltarli, o meglio a
seguire le loro indicazioni.
Invece di finire queste considerazioni con toni di sconforto, invito i
laici (quelli che non aspettano l’autorizzazione ecclesiastica per
ritenersi «veri» laici) a riconoscersi e a considerarsi minoranza nel
Paese. È a partire da questa condizione di minoranza che dovranno essere
riprese le battaglie per una matura estensione dei diritti di
cittadinanza. Nell’interesse generale e senza abusare di Dio.