"Tempo Perso - Alla ricerca di senso nel quotidiano"
La notte della speranza di Gianfranco Ravasi «È sperare la cosa difficile / a voce bassa e vergognosamente./ E la cosa facile è disperare / ed è la grande tentazione». Così, nel poema Il portico del mistero della seconda virtù (1911), dedicato appunto alla seconda delle tre virtù teologali, Charles Péguy celebrava questa "sorella più piccola" delle altre due, fede e carità. Tra le oltre venti figure di Padri, di santi, di pensatori citati da Benedetto XVI nella sua enciclica Spe salvi, il poeta francese non appare, ma il suo appello affiora lungo i cinquanta paragrafi di un testo in continua interpellanza con la cultura contemporanea e la sua fatica nello sperare. Non per nulla i "luoghi" nei quali questa virtù sboccia sono tutti impegnativi e il Papa ne evoca quattro: la preghiera, l'azione, la sofferenza, il giudizio finale sulla storia. Abbiamo deciso di porre la nostra riflessione natalizia all'insegna della speranza, proprio perché la nascita di Cristo è per i credenti un segno di luce e di redenzione e per tutti è un simbolo di vita che fiorisce nel grembo oscuro della storia. Persino Brecht in una delle sue poesie invocava: «Vieni, buon Signore Gesù, da noi, / volgi lo sguardo: / perché Tu ci sei davvero necessario». Anzi, l'antica cristianità aveva persino cercato di connettere la speranza cristiana a quella pagana, facendone quasi un unico anelito. Basti solo pensare alla rilettura della quarta egloga di Virgilio che annunziava: «Torna la Vergine, ormai una nuova progenie è inviata dall'alto cielo. Col fanciullo che ora nasce cesserà finalmente l'era del ferro e sorgerà in tutto il mondo quella dell'oro. Egli riceverà la vita divina e con le virtù patrie reggerà il mondo pacificato». Certo, gli studiosi sanno che il rimando del poeta latino è probabilmente rivolto al figlio del console Pollione, a cui è dedicata l'egloga, o a un figlio di Ottavia, la sorella di Ottaviano, il futuro Augusto, o semplicemente a una personificazione della nuova era augustea attesa come un'età dell'oro. Tuttavia il cristianesimo come accadrà per altri temi religiosi intuirà già nella ricerca spirituale e culturale delle alte figure della classicità il fremito della stessa speranza cristiana. Una virtù che l'enciclica perlustra in tutte le sue nervature interiori, a partire da quel celebre asserto della Lettera agli Ebrei ove fede e speranza sono intimamente intrecciate tra loro: «La fede è hypóstasis delle cose che si sperano e prova di quelle che non si vedono» (11,1). Benedetto XVI appunta la sua attenzione proprio su quel vocabolo greco, che la traduzione latina renderà con substantia, per marcare la qualità profonda della fede che non è solo attesa soggettiva, ma è già radice e fondamento "sostanziale" dello sperare cristiano. Questo percorso capitale dell'esistere e del credere che porta il nome di speranza provoca una gamma molto variegata di interrogazioni e rivela una serie di crocevia decisivi. Non è ora possibile dipanare questa trama di connessioni, a partire da quella che ha spossato il pensiero costante dell'umanità, ossia l'identificazione dell'anima segreta che unisce vita ed eternità. Al riguardo il pontefice ricorre a un'analogia essenziale, quella dell'esperienza d'amore. «Possiamo cercare di uscire col nostro pensiero dalla temporalità della quale siamo prigionieri e in qualche modo presagire che l'eternità non è un continuo susseguirsi di giorni del calendario, ma qualcosa come il momento colmo di appagamento, in cui la totalità ci abbraccia e noi abbracciamo la totalità. È il momento dell'immergersi nell'oceano dell'infinito amore, nel quale il tempo il prima e il dopo non esiste più». In questa luce la speranza di un "oltre" s'incrocia con la carità. Il discorso attorno a questa seconda virtù teologale che conosce anche i sentieri aspri e sassosi della storia, pronti a soffocarla («I miei giorni scorrono veloci come una spola, svaniscono senza un filo di speranza», confessa Giobbe che continua: «La mia speranza dov'è mai nascosta? Qualcuno ha intravisto la mia felicità?») si allarga, dunque, a dismisura. Attingendo all'enciclica Spe salvi, vorremmo solo evocare due snodi. Il primo è quello della speranza nel progresso. Citando il Novum organum di Bacone, ove si celebra la victoria cursus artis super naturam, Benedetto XVI sottolinea la grande svolta che ha scandito l'epoca moderna: «La redenzione, la restaurazione del paradiso perduto, non si attende più dalla fede ma dal collegamento appena scoperto tra scienza e prassi». Entra in scena il potente motore del progresso, «superamento di tutte le dipendenze, progresso verso la libertà perfetta» e affrancamento della ragione da ogni laccio dogmatico. Una svolta che è poi proceduta di tappa in tappa, in un'avanzata apparentemente trionfale, imboccando itinerari molteplici (si pensi a quello illuministico o al progetto marxiano) e affascinando anche un certo cristianesimo tutto proteso verso una salvezza che fosse una nuova "strutturazione del mondo", ma che ha registrato più di una delusione amara: «La scienza può contribuire molto all'umanizzazione del mondo e dell'umanità. Essa però può anche distruggere l'uomo e il mondo». E il Papa cita la «problematicità della fede nel progresso» severamente indicata da Adorno con l'immagine del transito dalla fionda alla megabomba. È in questa crisi di ottimismo "scientifico" che si innesta di nuovo la speranza cristiana come annunzio di una redenzione non intramondana, autoreferenziale e autosalvatrice, bensì come offerta di un amore "esterno", perfetto e trascendente. Per usare un'immagine, dalle sabbie mobili del proprio limite creaturale e morale non ci si libera alzando le mani in un vano tentativo di auto-emersione, bensì afferrando la mano che ti è tesa da chi è posto su una roccia stabile, al di là delle sabbie fluttuanti. È questo il senso ultimo del Natale cristiano, con l'ingresso nell'umanità di Dio stesso, scegliendo la condivisione del nostro statuto mortale, ma anche proponendo la donazione del suo statuto immortale: ecco, perché il Natale di Cristo s'intreccia necessariamente con la sua Pasqua «Con questa grande speranza Dio può proporci e donarci ciò che, da soli, non possiamo raggiungere», travalicando così tutte le "piccole speranze" reali ma insufficienti. «L'uomo ha bisogno di una speranza che vada oltre» perché la sua volontà è tesa verso l'infinito, come ci ammoniva Pascal: «L'uomo supera infinitamente l'uomo». È da qui che si può far brillare l'altro profilo dello sperare cristiano a cui vogliamo far riferimento, anche se in modo solo allusivo. Per due volte nell'enciclica Benedetto XVI ripete questa affermazione: «La speranza cristiana è sempre essenzialmente anche speranza per gli altri». Certo, la persona è al centro della speranza, ma essa non vive in uno splendido isolamento soggettivo quasi fosse una monade.Entra in scena, allora, la concezione paolina del corpo di Cristo che è uno e molteplice, capace di cancellare ogni individualismo della salvezza. Alla sorgente di questa "comunione" c'è, infatti, un atto d'amore divino trascendente, espresso in Cristo «che ha dato se stesso in riscatto per tutti. Egli è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto per tutti», scrive san Paolo (i Timoteo, 2,6 e 2 Corinzi 5,15). «Nella comunione con lui diventa possibile esserci veramente per gli altri, per l'insieme», commenta Benedetto XVI. Concludiamo, allora, questa riflessione sulla seconda virtù teologale, condotta alla luce del Natale e dell'enciclica Spe salvi, con un'osservazione del filosofo Ernst Bloch, autore del monumentale saggio Il principio della speranza (1954-59, tradotto in italiano da Garzanti). Egli suggestivamente ricordava che «finché c'è fede, c'è speranza», al contrario del motto tradizionale «finché c'è vita, c'è speranza». L'olio della fede alimenta la lucerna della speranza e ci spinge a trascendere il male, a sostenere il giogo delle prove con fedeltà, a proseguire verso quell'orizzonte di luce che ancora è lontano ma che è certo e preparato da Dio stesso. È per questo che san Pietro ripete ai cristiani, oggi come allora, il suo appello: «Siate sempre pronti a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi» (i Pietro 3,15). E non dobbiamo sconcertarci se il timore è spesso in agguato. Karol Wojtyla nella Bottega dell'orefice, dramma composto prima della sua missione di pontefice, scriveva: «Non c'è speranza senza paura, ma anche non c'è paura senza speranza». testo integrale pubblicato da Il Sole-24 Ore (Domenicale) - 24 dicembre 2007 |