«DOV'ERA
DIO?»
QUEGLI
INTERROGATIVI DEL PAPA
di Gianfranco
Ravasi
Una sera, al ritorno dai lavori forzati,
gli internati di un lager nazista scoprono sul piazzale interno tre
impiccati. Sono due adulti e un bambino, "l'angelo dagli occhi
tristi". Le guardie costringono i prigionieri a guardare in faccia
gli impiccati, come monito contro ogni velleità di ribellione. I due
adulti sono già morti: il ragazzo è ancora vivo, la lingua rossa gli
fuoriesce dalle labbra e gli occhi non sono ancora spenti. Ecco, allora,
la terribile domanda di uno dei prigionieri: "Dov'è il buon Dio?
Dov'è?".
Mentre ascoltavo le domande di Benedetto XVI ad Auschwitz ("Dov'era
Dio in quei giorni? Perché Egli ha taciuto? Perché ha potuto tollerare
tutto questo?"), spontaneamente mi è venuta davanti agli occhi la
scena che Elia Wiesel aveva evocato nel suo noto romanzo "La
notte" con lo stesso implacabile interrogativo. Un interrogativo che
ha tormentato i credenti al punto tale da aver dato avvio a un modello di
pensiero detto appunto "la teologia dopo Auschwitz". Una domanda
che sembra infrangersi davanti alle porte del palazzo della trascendenza
di Dio e lasciare la creatura umana sconcertata e abbacinata.
Ho qui davanti un fascio di ritagli dei giornali italiani e stranieri
sulla visita del Papa ad Auschwitz. Tante sono le questioni affiorate,
come è stato testimoniato anche dal nostro giornale, ma su questo
problema così radicale si è solo balbettato qualcosa. E giustamente,
perché chi ha diritto di interpellare Dio è solo Giobbe o quell'antico
orante ebreo del Salmo 44, citato dal Papa, che era stato "messo a
morte, considerato solo come carne da macello", oppure le vittime di
Auschwitz. Loro solo possono persino rasentare la soglia della blasfemia,
protestando contro un Dio che pare sordo e indifferente alle sue creature
come un imperatore impassibile, "un leopardo che affila gli
occhi", un generale trionfatore, per usare le terribili immagini
giobbiche.
Sì, questo dev'essere per noi il tempo del silenzio, un silenzio che
sarebbe da imporre anche ai teologi chiacchieroni, convinti di essere in
grado di allestire una difesa d'ufficio per il loro Signore, incapaci di
rispettare il mistero del "Dio nascosto", misterioso, cantato da
Isaia (45, 15).
Eppure questo può essere anche il momento di una parola. È una
confessione: prima di mettere Dio sul banco degli imputati, bisogna
ricordare che quell'orrore nasce dalle mani dell'uomo, da quella libertà
che è dono mirabile ma che può essere un esplosivo dirompente. Dio ha
preso sul serio questa qualità che ci ha assegnato creandoci. Non la
smentisce per comodità sua e nostra, non ci blocca come un sasso a leggi
obbligatorie e a meccanismi fissi quando traligniamo.
Eppure la sua non è un'assenza o un silenzio assoluto, anche se la sua
voce è inascoltata dalle coscienze accecate e dalla libertà impazzita e
impazzata. E alla fine una risposta Dio a suo modo l'ha data. Vorrei
ancora ritornare a Wiesel: anch'egli era tra quei prigionieri e quando
aveva sentito la domanda: «Dov'è il buon Dio? Dov'è?», aveva
confessato: «Io sentivo in me una voce che rispondeva: "Dov'è?
Eccolo: è appeso lì, a quella forca!"». Paradossalmente quella
dello scrittore ebreo è la risposta cristiana che sulla forca vede
Cristo, il Figlio stesso di Dio che, rompendo l'isolamento perfetto della
sua trascendenza, non è solo accanto alle vittime come un consolatore
magnanimo, ma è lui stesso vittima e impiccato.
E, allora, valgono le parole di un altro martire dei nazisti, il teologo
Dietrich Bonhoeffer, che nel lager di Flossenburg scriveva: "Dio non
ci salva in virtù della sua onnipotenza. Egli ci salva in virtù della
sua impotenza in Cristo Gesù crocifisso e morto". Lassù, infatti,
sulla croce non cessa di essere Dio e quindi di essere Salvatore
testo
integrale pubblicato da "Avvenire" - 31 maggio 2006