"Tempo Perso - Alla ricerca di senso nel quotidiano"

  ETICA SCIENZA SOCIETÀ 

La malattia e

 la dignità del vivere

di Giannino Piana 

La vicenda di Piergiorgio Welby ha sollevato una serie di inquietanti interrogativi, che spaziano dagli ambiti della medicina e dell' etica fino a quelli della politica e della legislazione. La complessità delle questioni messe in campo dalla sua coraggiosa testimonianza - va ascritto a suo merito l'aver saputo trasformare una situazione personale (peraltro drammatica) in evento pubblico con un preciso significato politico - impone la necessità di approfondimenti e di chiarificazioni in più direzioni. Le tematiche affiorate sono infatti di estrema delicatezza e le molteplici sfaccettature sotto le quali si presentano rendono difficile l'approdo a soluzioni univoche e del tutto presuntuosa la pretesa di posizioni apodittiche. 

 

eutanasia e/o accanimento terapeutico? 

Il primo (e più importante) ordine di questioni si riferisce al campo dell' etica; riguarda cioè la natura della richiesta fatta da Welby. La battaglia politica, che si è aperta e che ha avuto come principale protagonista il partito radicale, è stata contrassegnata da incongruenze e da contraddizioni, che hanno concorso a ingenerare pericolose confusioni. Mentre infatti all'inizio è stata chiamata in causa l'eutanasia (lasciando intendere che di questo si trattava), successivamente si è ripiegato sulla tesi dell'accanimento terapeutico, per affermare, in un terzo momento, che ambedue le questioni andavano accantonate e che la richiesta di Welby trovava, più semplicemente, giustificazione nel diritto del paziente a decidere le cure cui sottoporsi. A ben guardare, le tre ipotesi avanzate non possono essere considerate, nel caso in questione, del tutto alternative. Una chiara distinzione è tuttavia importante fare tra le prime due, che riguardano la natura dell'atto, perciò la definizione in termini oggettivi della sua portata etica, e la terza che ha, invece, a che fare con il rispetto della volontà del paziente, e dunque con la relazione medico-paziente. 

Sul primo versante - quello della natura dell'atto - tutto dipende dal significato che si attribuisce al termine «eutanasia». Se si accetta infatti - come riteniamo - che l'uso di tale termine vada ristretto a quelle azioni direttamente finalizzate a dare la morte (la cosiddetta eutanasia «attiva»), non si può parlare, nel caso di Welby, di eutanasia. Questo non significa che tale situazione non ponga, come del resto molte altre situazioni di fine-vita, seri interrogativi di ordine morale, ma semplicemente che essa appartiene a quella area assai fluida, dove in gioco vi è, da un lato, il pericolo di lasciare ingiustamente morire una persona che ha ancora buone possibilità di sviluppare una vita umanamente dignitosa (a questo ci si riferiva in passato quando si parlava di eutanasia «passiva») e, dall'altro, quello di incorrere nell'accanimento terapeutico, prolungando indebitamente, mediante cure sproporzionate, la vita biologica di una persona con grave detrimento della sua qualità umana. 

L’esigenza di una chiara delimitazione del campo dell'eutanasia non è dunque motivata soltanto dal bisogno di pulizia linguistica, cioè dalla necessità di evitare che si ingenerino gravi fraintendimenti nella coscienza della gente comune - si pensi alle difficoltà che potrebbero nascere, in occasione di una eventuale campagna per la legalizzazione dell' eutanasia, da una estensione indebita di tale concetto - ma soprattutto dalla consapevolezza del forte incremento che tali situazioni hanno avuto (e avranno soprattutto in futuro) a causa dell'evolversi rapidissimo della tecnologia in campo biomedico, perciò della possibilità di interventi sempre più sofisticati nella fase terminale della vita. 

La soluzione di questioni tanto delicate reclama un supplemento di responsabilità etica; ad essere chiamato in causa è in prima persona il medico, al quale spetta l'individuazione di ciò che è giusto fare in rapporto alla concreta situazione del paziente, ricorrendo alla propria coscienza illuminata da criteri di valutazione oggettivi che consentono di distinguere tra diverse tipologie di azioni e di omissioni: altro è infatti non attaccare alla macchina un paziente che risulta essere, dal punto di vista clinico, nelle condizioni di assoluta impossibilità di ricupero (ed è quanto si dovrebbe fare con maggiore frequenza per evitare l'accanimento terapeutico) e altro è invece - come nel caso di Welby ­staccare la macchina, impedendo ad un paziente di continuare a vivere. Tuttavia anche in questo ultimo caso, che presenta aspetti di maggiore problematicità dal punto di vista morale, non ci si può non interrogare sulle conseguenze negative indotte dagli sviluppi della tecnologia: quale «naturalità» del vivere e del morire può infatti essere salvaguardata, laddove il prolungamento della vita è esclusivamente dipendente dall'impiego di mezzi artificiali, la cui assenza avrebbe consentito al paziente di andare incontro, da tempo e più serenamente, alla morte? Nascita e morte sono eventi che l'uomo ha da sempre elaborati. Ma tale elaborazione ha raggiunto oggi livelli tali da rendere doveroso chiedersi come intervenire per contenerla. Non è legittimo ipotizzare, nel caso di Welby, una forzatura della natura divenuta con il trascorrere del tempo insopportabile? E non si deve fare credito alla sensibilità di una persona come Welby quando giudica non più accettabile il trattamento artificiale cui è stato sottoposto e chiede pertanto di esserne esentato? 

 

il principio di autodetenninazione 

Questi ultimi interrogativi aprono la strada ad un altro nodo critico - sempre di ordine morale -, alla questione cioè dell'autodeterrninazione del paziente nei confronti delle cure e, più radicalmente, nei confronti della morte. Ora non vi è dubbio che il principio di auto determinazione è un pilastro essenziale della bioetica: con esso viene tutelato un valore fondamentale, quello della libertà personale. Ma riconoscerne !'importanza non può equivalere a decretarne l'esclusività. Esistono altri principi con i quali occorre fare i conti, come quelli di non maleficità e di beneficità, ai quali il medico deve ispirare la pro­pria condotta se intende perseguire il bene del paziente, o quello di giustizia, che richiama l'attenzione sulla valenza sociale dei problemi attinenti la sfera della salute, sottolineando !'importanza che riveste la tutela dell'interesse di tutta la collettività. La complessità delle situazioni non sempre facilita la composizione di tali principi: la soluzione dei conflitti, peraltro frequenti, tra libertà e bene e tra libertà e giustizia, esige che si individuino, di volta in volta, forme di mediazione il più possibile rispettose dell'insieme dei valori in gioco. La tendenza ad esasperare il principio di auto determinazione è frutto di un'antropologia individualista, che non tiene in alcun conto la dimensione sociale dei problemi e perciò l'esigenza di affrontarli (e di risolverli) in una prospettiva di un'au­tentica solidarietà. La riduzione della libertà a libertarismo e del diritto a semplice diritto soggettivo, oltre a ridimensionare l'intervento del medico ridotto a puro atto tecnico, rende del tutto marginale il compito della politica, alla quale spetta soltanto la creazione di condizioni per il rispetto e la promozione della libertà del singolo. 

Non si può negare che il diritto all'autodeterminazione si estenda anche alle decisioni relative alle modalità secondo le quali affrontare la propria morte; ma il riconoscimento pubblico di tale diritto deve essere valutato in base a una seria verifica delle conseguenze che possono derivare sul piano sociale dalla sua applicazione. Da questo punto di vista, il «no» all'eutanasia «attiva» costituisce - almeno ci pare - un limite invalicabile; diverso è il giudizio circa le varie forme di intervento rese possibili dagli sviluppi della tecnica e nelle quali è in gioco la qualità della vita personale. 

 

la questione della legge 

Il caso Welby ha reso, d'altronde, manifesti i limiti dell'attuale legislazione, l'assenza cioè di una concreta definizione dei confini (almeno di quelli precisabili) dell'accanimento terapeutico. La estrema fluidità della situazione legislativa spinge talora i medici a sottoporre a terapie sproporzionate (magari contro la propria stessa coscienza) pazienti che andrebbero invece lasciati morire, per la giustificata paura di incorrere in procedimenti giudiziari con pesanti strascichi penali. La necessità di una riforma della legge, che offra I maggiori garanzie tanto ai medici che (soprattutto) ai pazienti, è dunque fuori discussione. 

È illusorio tuttavia pensare che il semplice cambiamento dei dispositivi legislativi risolva ogni problema. La rapidità con cui avvengono le trasformazioni nell' ambito della medicina provoca (e non può non provocare) !'insorgenza di nuove questioni, che la legge non può prevedere e definire preventivamente. D'altra parte, non va dimenticato che ogni situazione personale è un caso a sé, che va pertanto affrontato analizzando con cura l'insieme dei fattori soggettivi che incidono, in misura determinante, sulla percezione che ciascuno ha della malattia, della sofferenza e della morte. 

Un ruolo importante potrebbe (forse) venire svolto, in questo quadro, dai Comitati etici - soprattutto da quelli ospedalieri ­che, affrontando di volta in volta protocolli legati a singoli casi, sono in grado di fornire una fitta rete di orientamenti giurisprudenziali - simile a quella presente in ambito giudiziario - che potrebbe diventare un importante paradigma per affrontare casi analoghi (non si danno mai situazioni del tutto identiche) e fornire loro adeguata soluzione. Questo, ovviamente, lasciando intatto al medico lo spazio di responsabilità che gli compete, essendo demandata a lui, in ultima analisi, la decisione. 

 

i risvolti di ordine politico 

Di grande rilievo sono state poi - come si è già ricordato - le ripercussioni della vicenda di Welby sul terreno politico, dove è emersa una situazione di disagio e di grave confusione. Non sono mancati interven­ti di raro equilibrio, come quelli del Ministro della Sanità Livia Turco e del Presidente della Commissione Sanità del Senato Ignazio Marino; ma, nella maggior parte dei casi, le posizioni assunte hanno manifestato una scarsa capacità di padroneggiare razionalmente e con competenza i diversi (e complessi) risvolti delle questioni sul tappeto. 

Accanto alla spettacolarizzazione - cui è peraltro difficile sottrarsi nell' era massmediale -, inaccettabile è stato soprattutto l'uso strumentale che si è fatto della vicenda, con la formulazione di giudizi affrettati e sommari, spesso dovuti a superficiali semplificazioni. La drammaticità di situazioni come quella di Welby, dove sono in causa questioni di grande spessore umano che hanno a che fare con le frontiere della vita e della morte, dovrebbe imporre a tutti atteggiamenti ispirati alla discrezione e alla riservatezza, a un senso di grande prudenza sia nelle valutazioni che nelle decisioni, e a una forte coscienza del limite, che si traduce nella consapevolezza dell' opinabilità delle proprie convinzioni. La tendenza ad avanzare con grande sicurezza valutazioni nette e inappellabili, oltre a rivelare una scarsa capacità di attenzione allo spessore reale dei problemi, è indice - sotto qualsiasi segno si presenti e da qualunque parte provenga - del persistere di una mentalità ideologica che impedisce di analizzare con il necessario distacco i risvolti problematici di questioni come quelle «eticamente sensibili» e di affrontarle con senso critico, al di fuori di condizionamenti emotivi o di pressioni indotte dalle appartenenze religiose, sociali e culturali. 

 

e la Chiesa? 

Quanto detto vale anche per la Chiesa, dove si sono alternate posizioni di equilibrio e di moderazione con altre di stampo integralista e fondamentalista. E' giusto difendere la vita umana per il valore inestimabile che possiede e perché essa è, per chi crede, dono di Dio; Ma non ci si può non domandare se di vita umana si possa ancora parlare quando si è del tutto dipendenti (magari da molto tempo come nel caso di Welby) da una macchina, con un fortissimo restringimento della libertà di espressione personale. Del resto, non è proprio la Chiesa a richiamare con insistenza (persino esasperata) l'attenzione sulla necessità di salvaguardare la «naturalità» del nascere, del vivere e del morire, facendo di tale naturalità uno dei cardini della sua dottrina? E non è forse proprio questa naturalità ad essere pesantemente violata (oltre ogni limite accettabile) da interventi tecnici sempre più artificiosi? 

Al rifiuto dell'eutanasia va opposto un altrettanto netto rifiuto dell'accanimento terapeutico, in quanto attentato alla vita umana nella sua dimensione più profonda, quella personale. Purtroppo, questo rifiuto non è sempre presente negli atteggiamenti che la Chiesa assume di fronte a situazioni concrete; !'impressione è che si usino spesso due pesi o due misure; che si sia cioè estremamente severi nei confronti dell'eutanasia e invece eccessivamente indulgenti verso l'accanimento terapeutico. La durezza dei giudizi nei confronti di situazioni complesse, dove si imporrebbe una maggiore cautela, segnala la presenza di un atteggiamento difensivo, che nasce dalla paura, la quale provoca istintivi arroccamenti e conduce a sottovalutare la complessità dei nodi critici con cui occorrerebbe con onestà misurarsi. Il rispetto del mistero della vita e della morte, e più radicalmente del mistero dell'uomo, meriterebbe l'assunzione di ben altri atteggiamenti! 

Anche per queste ragioni è suonata del tut­to inopportuna (e anacronistica) la decisione - peraltro affidata a un freddo e lapidario comunicato ufficiale del Vicariato di Roma - di negare il funerale religioso a Welby. Al di là della gravità del giudizio espresso nei confronti del comportamento di una persona che, vivendo in uno sta­to di grave sofferenza, ha dato prova di grande senso civile, non è questa - almeno a noi pare -la via attraverso la quale è possibile dare trasparenza efficace alla verità cristiana. Una verità il cui asse focale è ­giova ricordarlo - la rivelazione di un Dio che ha fatto della misericordia la «cifra» privilegiata della sua presenza nella vicenda storica degli uomini. 

testo integrale pubblicato da  "Rocca" n. 2  - 15 gennaio 2007

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