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Riflessione pubblicata su HOREB numero 54 – 3/2009    "Ospiti e ospitali" 


TESTIMONI DEL NOSTRO TEMPO

DARE LA PAROLA

Don Lorenzo Milani*

di Alberto Neglia

 

«Essere affrancati dalla miseria, garantire in maniera più sicura la propria sussistenza, la salute, un'occupazione stabile; una partecipazione più piena alle responsabilità, al di fuori da ogni oppressione, al riparo da situazioni che offendono la loro dignità di uomini; godere di una maggiore istruzione; in una parola, fare conoscere e avere di più, per essere di più: ecco l'aspirazione degli uomini di oggi, mentre un gran numero d'essi è condannato a vivere in condizioni che rendono illusorio tale legittimo desiderio» (Populorum progressio 6).

Questo brano della Populorum progressio, pubblicata da Paolo VI il 26 marzo 1967, quindi qualche mese prima che don Milani morisse, credo abbia fatto gioire don Lorenzo, veniva infatti a confermare le sue intuizioni, ma anche l’impegno di una vita sacerdotale spesa per dare concretezza storica al “legittimo desiderio” degli uomini descritto nell’enciclica.

Don Lorenzo quando, nell’ottobre del 1947, dopo la sua ordinazione a presbitero, viene inviato a S. Donato a Calenzano, come cappellano del parroco (don Daniele Pugi), si rende conto subito che tra i contadini e gli operai della zona oltre alla povertà di beni c’è un analfabetismo diffuso: “i ragazzi son troppo ignoranti, scrive alla zia Silvia. Ignoranti un pochino va bene, ma troppo no”[1]. Questa situazione di ignoranza li pone in stato di penosa inferiorità, ed egli intuisce che la chiave di volta per consentire che “il legittimo desiderio” degli uomini ad “essere di più” non diventasse “illusorio” era quello di metterli in condizione di “godere di una maggiore istruzione”.

Proprio per questo, quando inizia il suo ministero pastorale, invece di attivare i circoli ricreativi, come facevano gli altri parroci, si preoccupa di “dare la parola”, cioè la capacità di pensare e di esprimersi liberamente, a tutti, perché ritiene che la parola è la chiave di volta perché l’uomo esca da una situazione di oppressione e di miseria, sviluppi una adeguata coscienza critica, si affranchi da situazioni che offendono la sua dignità e partecipi con responsabilità alla costruzione di un futuro diverso. E quindi, come ricorda P. Turoldo: «Farà della sua scuola la sua unica consumante pastorale, la legge del suo sacerdozio e il suo messaggio più rivoluzionario»[2].

 

“La scuola…

necessaria

più del pane”

 

Don Lorenzo è convinto che la povertà più radicale è la mancanza di parola, lo evidenzia esplicitamente in Esperienze pastorali: “La povertà dei poveri non si misura a pane, a casa, a caldo. Si misura sul grado di cultura e sulla funzione sociale” (EP 209).

“Dare la parola”, la cultura, significa per don Milani rimuovere le radici della povertà, egli ritiene “la parola” chiave di volta di ogni conquista.

A una signora di Firenze il 12-10-1950, scrive: «La scuola serale di cui le parlai più volte dove vengono i giovani operai. È sempre stata l’opera su cui ho posto più speranze. Necessaria più del pane. Istruire gli ignoranti, levar la ruggine a tante belle intelligenze abbrutite nel lavoro e nell’inferiorità sociale. Estendere a tutti il privilegio più geloso dei figli dei ricchi perché è la chiave di ogni conquista» (L 23).

I poveri analfabeti non hanno diritto di cittadinanza nella società, essi, scrive il priore di Barbiana a Gian Paolo Meucci il 30-3-1956: «Non vengono menzionati dalla storia altro che quando uccidono i letterati. E questo avviene proprio perché sono analfabeti e prima di quel giorno non sanno scrivere né farsi in altro modo valere e così son condannati a scrivere solo colla punta dei loro forconi quando è già troppo tardi per essere conosciuti e onorati dagli uomini per quelli che erano innanzi a quel triste giorno» (L 80).

Solo dando la parola si può «tentar di prevenire la rivoluzione sanguinosa con una rivoluzione volontaria e interiore» (L 23).

In sostanza, scrivono don Milani e suoi ragazzi in Lettera a una professoressa: «... è solo la lingua che fa eguali. Eguale è chi sa esprimersi e intende l’espressione altrui. Che sia ricco o povero importa meno. Basta che parli. [...] Quando possederemo tutti la parola, gli arrivisti seguitino pure i loro studi. [...] Basta che non chiedano una fetta più grande di potere come han fatto finora» (LP 96).

Quindi la scuola che si impegna a “dare la parola” sottrae i poveri da una situazione endemica di inferiorità e conferisce a ogni uomo una grande dignità: li “fa eguali”.

La scuola, inoltre, diventa palestra per una vita cristiana più consapevole, offre, infatti, «le premesse intellettuali alla rinascita religiosa in un mondo di poveri che non vive più una vita cristiana solo perché la sua vita non ha più neanche l’umano» (L 23).

È questo il motivo, scrive don Milani, «per cui il meglio del mio tempo e della mia passione di prete lo spendo sulla scuola» (L 23).

E farà scuola sempre anche da ammalato, il 4-1-1966 scrive: «La mia malattia non pesa sui ragazzi e sulla scuola. Quando sto meglio faccio scuola da una poltrona a sdraio, quando sto peggio da una brandina» (L 295).

L’ultima fatica, quasi il suo testamento spirituale sarà Lettera a una professoressa, scritto assieme ai ragazzi di Barbiana e pubblicato solo qualche mese prima della sua morte.

Coinvolge anche altri in questa sua passione, per esempio, a Gian Paolo Meucci il 2-3-1955, scrive: «Fatti apostolo tra i tuoi compagni laureati cattolici per dar vita a una grandiosa scuola popolare a Firenze. Non come un dono da fare ai poveri, ma come un debito da pagare e un dono da ricevere. Non per insegnare, ma solo per dare i mezzi tecnici necessari (cioè la lingua) ai poveri per poter insegnare essi a voi le inesauribili ricchezze di equilibrio, di saggezza, di concretezza di religiosità potenziale che Dio ha nascosto nei loro cuori quasi per compensarli della sperequazione culturale di cui son vittime» (L 54).

 

“La parola

è la chiave fatata

che apre

ogni porta”

 

Al direttore del “Giornale del mattino” di Firenze, Ettore Bernabei, il 28-3-1956 scrive una lettera, purtroppo non pubblicata, in cui spiega il significato dell’istruzione, tra l’altro annota: «L’uomo non vive di solo pane, c’è dei beni che sono maggiori del pane e della casa. […] Questo tipo di beni che chiamerò ora per comodità di discorso istruzione e comprende tutte le infinite piccole grandi cose che pongono un montanaro in condizioni di inferiorità e d’umiliazione di fronte al cittadino» (L 74-75). Per dare questa istruzione, per “dare la parola” — continua il priore di Barbiana — «sono otto anni che faccio scuola ai contadini e agli operai. [....] La parola è la chiave fatata che apre ogni porta [....] Quando il povero saprà dominare le parole come personaggi, la tirannia del farmacista, del comiziante e del fattore sarà spezzata. Una utopia? No. E te lo spiego con un esempio. Un medico oggi quando parla con un ingegnere o con un avvocato discute da pari a pari. Ma questo non perché ne sappia quanto loro di ingegneria o di diritto. Parla da pari a pari perché ha in comune con loro il dominio della parola. Ebbene a questa parità si può portare l’operaio e il contadino senza che la società vada a rotoli. Ci sarà sempre l’operaio e l’ingegnere, non c’è rimedio. Ma questo non importa affatto che si perpetui l’ingiustizia di oggi per cui l’ingegnere debba essere più uomo dell’operaio (chiamo uomo chi è padrone della sua lingua). Questa non fa parte delle necessità professionali, ma delle necessità di vita di ogni uomo, dal primo all’ultimo che si vuol dir uomo» (L 75-78).

Essere uomini con pari dignità. Questa possibilità va offerta a tutti, la scuola, quindi, non può essere discriminatoria.

Con Lettera a una professoressa don Milani e i ragazzi di Barbiana denunciano che la scuola pubblica spesso è selettiva, e, invece, di promuovere diventa uno spazio in cui si acuiscono le differenze tra quelli che nella Lettera sono chiamati Pierino, i figli del “dottore”, e quelli che sono chiamati Gianni, i figli dei “proletari”. Una scuola impostata così è simile a «un ospedale che cura i sani e respinge i malati» (LP 20).

Una scuola che coltiva questa logica ha un humus razzista che sentenzia che “i cretini e gli svogliati” stanno solo dalla parte dei poveri: «Voi dite d’aver bocciato i cretini e gli svogliati. Allora sostenete che Dio fa nascere i cretini e gli svogliati nelle case dei poveri. Ma Dio non fa questi dispetti ai poveri. È più facile che i dispettosi siate voi» (LP 60).

In quest’ultimo scritto, non solo si ha uno sguardo critico sulle inadempienze della scuola, ma si propone un itinerario che offra a tutti la possibilità di imparare a volare: «Chi sa volare non deve buttar via le ali per solidarietà coi pedoni, deve piuttosto insegnare a tutti il volo» (EP 192), e di recuperare la propria dignità umana.

Poter volare insieme (avere la parola) è esperienza che dà un respiro non solo ai “montanari”, ma anche a chi ritiene di sapere. È espressione di cultura vera che «è fatta di due cose: appartenere alla massa e possedere la parola. Una scuola che seleziona distrugge la cultura. Ai poveri toglie il mezzo di espressione. Ai ricchi toglie la conoscenza delle cose» (LP 105).

 

“La scuola

mi è sacra come

un ottavo

Sacramento”

 

“Dare la parola” non solo è premessa per crescere come uomo, ma lo è anche per crescere come cristiani.

Volere evangelizzare senza aver dato un minimo di strumentario per comprendere ciò che viene proposto è come voler costruire una casa senza fondamenta. D. Lorenzo annota: «Ho visto una costruzione che tenta invano di reggere il comignolo mentre le manca ancora fondamenta e muri. E allora ne ho avviata un’altra dalle fondamenta, una costruzione un po’ più ragionevole» (EP 88).

Voler iniziare alla vita cristiana i montanari analfabeti è come voler costruire senza fondamenta, è come voler parlare a dei sordomuti. «I missionari dei sordomuti — scrive don Milani — [....] fanno scuola della parola per anni e poi dottrina poche ore. E il loro agire è logico, obbligato, perfettamente sacerdotale» (EP 200). E spiega ancora: «No. Ai sordomuti non si può insegnare che a parlare. E così ai montanari» (EP 325).

L’istruzione è una tappa umana, ma guai a saltarla. Senza di essa l’uomo viene privato «dell’influsso vivificatore della parola, cioè del mezzo per ricevere l’apporto dei suoi simili e soprattutto quello dei suoi simili migliori di lui e più ancora quello di Un suo Simile che s’è fatto Carne cioè Parola Incarnata per essere Parola più convincente. E che poi ha posto un Libro come fondamento della nostra elevazione e un Magistero per l’interpretazione di quel Libro e poi dei Sacramenti che sono in se stessi più che quel Libro e più che quel Magistero, ma che pure non si possono affrontare neanche loro senza l’anticamera della Parola (il catechismo)» (EP 196-197).

Risulta chiaro da questo passo come l’esperienza educativa di don Lorenzo, il desiderio “dare la parola” a tutti venisse strettamente collegata con il suo impegno sacerdotale di annunciare il Vangelo. A Barbiana, don Lorenzo questo impegno lo esplicitava leggendo il vangelo ai ragazzi la domenica mattina dalle 8 fino alla messa delle 11 e continuava anche nel pomeriggio. Usava i quattro vangeli nella sinossi del Lagrange. Ogni versetto o episodio veniva approfondito o commentato per ore intere[3].

L’istruzione rimane una tappa umana importante, ma ovviamente don Lorenzo non ha una fiducia magica in essa, egli è convinto che la fede è dono che viene dall’alto che richiede un assenso consapevole e responsabile, e lo annota con chiarezza: «... per ora non faccio con convinzione altro che scuola. Non che io abbia della cultura una fiducia magica, come se essa fosse una ricetta infallibile, come se i professori universitari fossero automaticamente tutti più cristiani [....] È che i professori se vogliono possono prendere in mano un Vangelo o un Catechismo, leggerli e intendere. Dopo poi potranno fare il diavolo che vorranno: buttarli dalla finestra o metterseli in cuore, s’arrangino, se sceglieranno male sarà peggio per loro» (EP 200-201).

È chiaro quindi che non è la cultura che fa diventare i montanari di Barbiana cristiani, D. Milani chiarisce: «con la scuola non li potrò far cristiani, ma li potrò far uomini; a uomini potrò spiegare la dottrina e su 100 potranno rifiutare in 100 la Grazia o aprirsi tutti e 100, oppure alcuni rifiutarsi e altri aprirsi» (EP 200-201). Per cui, continua: «E perciò la scuola mi è sacra come un ottavo Sacramento. Da lei mi attendo (e forse ho già in mano) la chiave, non della conversione, perché questa è segreto di Dio, ma certo dell’evangelizzazione di questo popolo» (EP 203).

 

“Bisogna essere

per poter

far scuola”

 

«Spesso gli amici — sottolinea don Milani — mi chiedono come faccio a far scuola e come faccio ad averla piena. Insistono perché io scriva per loro un metodo [....] Sbagliano la domanda, non dovrebbero preoccuparsi di come bisogna fare per fare scuola, ma solo di come bisogna essere per poter far scuola» (EP 239). Ed essere per don Lorenzo equivale ad amare, lo chiarisce a seguire: «Bisogna ardere dell’ansia di elevare il povero a un livello superiore [....] più da uomo, più spirituale, più cristiano, più tutto» (EP 239).

Il segreto della scuola è la capacità di amare fino a perdere la testa. Don Lorenzo lo confida in una lettera a Giorgio Pecorini: «Io i miei figlioli li amo, ho perso la testa per loro, non vivo che per farli crescere, per farli aprire, per farli sbocciare, per farli fruttare [....] E chi non farà scuola così non farà mai vera scuola è inutile che disquisisca tra scuola confessionale e non confessionale, è inutile che si preoccupi di riempire la sua scuola di immaginette sacre e di discorsi edificanti, perché la gente non crede a chi non ama» (L 160).

Don Lorenzo questo amore disinteressato, riflesso della gratuità di Dio, che dà senso a tutto l’impegno educativo, lo esprime in una accorata lettera a Michele, uno dei primi ragazzi di Barbiana, che nel 1963 da Milano, dove fa il sindacalista, scrivendo, muove delle critiche alla scuola di Barbiana: «Accusi — scrive don Lorenzo — me e la mia scuola di essere fuori del mondo e di non conoscere la vita» (L 216). Nella stessa lettera gli esprime il suo affetto e anche la sua gioia perché Michele è già uomo, è capace di pensare con la sua testa. Così si esprime: «Stanotte, non potendo dormire per la tosse, ho pensato tutt’a un tratto che era meraviglioso veder sgorgare dalla mia scuola un virgulto vigoroso e diverso, con tutti i suoi segreti gelosi, con un’infinità di ideali in comune con me e con un’infinità di segreti suoi che non spartisce con nessuno, nemmeno col fratello prete babbo che io sono per lui. Che era meraviglioso da vecchi prendere una legnata da un figliolo, perché è segno che quel figliolo è già uomo e non ha più bisogno di balia, e qui è il fine ultimo di ogni scuola: tirar su dei figlioli più grandi di lei, così grandi che la possono deridere. Solo allora la vita di quella scuola o di quel maestro ha raggiunto il suo compimento e nel mondo c’è progresso.

Ti voglio tanto bene e penso sempre a te, quella sera stessa ho sputato un po’ di sangue (poi è risultato che non era nulla di grave), ma sul momento mi ha fatto sorridere di gioia (sai che gli ebrei pensavano che il sangue fosse la vita?), mi divertiva l’idea di sputar la vita e di non svenire (io che son sempre svenuto alla vista del sangue) perché la sputavo nell’attimo in cui avevo finalmente capito quel che non avevo ancora mai capito, cioè che la scuola deve tendere tutta nell’attesa di quel giorno glorioso in cui lo scolaro migliore le dice: “Povera vecchia, non ti intendi più di nulla!” e la scuola risponde colla rinuncia a conoscere i segreti del suo figliolo, felice soltanto che il suo figliolo sia vivo e ribelle» (L 218-219).

 

Alberto Neglia

Fraternità Carmelitana

98051 Barcellona PG (ME)



[1] L. Milani, Lettere alla mamma 1943-1967, Mondadori, Milano 1977, 94. D’ora in poi citerò questo scritto, all’interno del testo, con la sigla LM e l’indicazione della pagina; gli altri scritti di don Milani con le seguenti sigle: L = Lettere di don Lorenzo Milani Priore di Barbiana, a cura di Michele Gesualdi, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2007. EP = Don Lorenzo Milani, Esperienze pastorali, LEF, Firenze1972. LP = Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, LEF, Firenze 1967.

[2] D. M. Turoldo, Il mio amico don Milani, Bergamo 1997, 25.

[3] Cf. http://www.barbiana.it/opere.html.

 

 

 
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