"Tempo Perso - Alla ricerca di senso nel quotidiano"  -  Sezione "SPIRITUALITA' E FEDE"

 

Ringraziamo P. Alberto Neglia  per averci messo a disposizione questa sua preziosa riflessione pubblicata su  HOREB numero 45 – 3/2006 "Educare al desiderio".

DAI DESIDERI ALLA GIOIA DELL'INCONTRO *  

La proposta di S. Giovanni della Croce

di Alberto Neglia

       “Gesù, fissatolo, lo amò…” (Mc 10,21). La vita cristiana inizia da questi intrecci di sguardi, dove l’iniziativa è di Gesù. È lui che vede Simone e Andrea mentre gettano le reti in mare e li coinvolge: seguitemi (Mt 4,18-19). È lui che, durante la sua passione, si volta per guardare Pietro che lo rinnegava (Lc 22,54-62). Lo sguardo di Gesù è rivelativo dello sguardo del Padre che è sempre alla ricerca dell’uomo. 

 Nel libro dell’Esodo, per esempio, leggiamo: “Il Signore disse: “Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sorveglianti; conosco infatti le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo dalla mano dell’Egitto e per farlo uscire da questo paese verso un paese bello e spazioso, verso un paese dove scorre latte e miele”” (Es 3,7-8)

I grandi mistici hanno tutti consapevolezza che all’inizio della loro avventura spirituale c’è lo sguardo di Dio che li ha sedotti e conquistati.

 

“Il guardare di Dio è amare”

Tra questi c’è certamente Giovanni della Croce. Egli nel Cantico spirituale e nella Fiamma viva d’amore evidenzia che chi mette in movimento l’uomo, nel suo cammino spirituale, è lo sguardo di Dio amante. È alla luce di queste opere, quindi che vanno lette Salita del monte Carmelo e Notte oscura, dove il mistico spagnolo evidenzia di più l’impegno dell’uomo per rispondere alla sollecitazione di Dio (1) .

Nel Cantico spirituale, Giovanni della Croce, più volte ci ricorda: “Il guardare di Dio è amare” (el mirar de Dios es amar) (Cantico B, 19,6). Egli evidenzia che lo sguardo di Dio non è mai superficiale o di curiosità, ma è uno sguardo appassionato, da innamorato che scruta e abbraccia, penetra nella vita di chi è guardato e si fa suo compagno di viaggio.

Quindi per Giovanni della Croce, non è l’uomo che inizia la salita verso Dio, né sale i gradi della perfezione da solo, è proprio Dio che prende l’iniziativa della discesa verso l’uomo.

Illustra questo dinamismo il grafico del Crocifisso. Il Crocifisso vi appare in prospettiva discendente, come se il pittore si fosse situato nell’alto del divino mistero Trinitario, e l’intero corpo contorto con lo sguardo già quasi irriconoscibile è teso verso il basso dell’umanità infangata nel mondo del peccato. L’intera consegna amorosa di Dio agli uomini in Cristo sulla Croce viene qui plasmata: il Figlio di Dio vi rimarrà, ed è proprio nella sua croce per amore del Padre e degli uomini che il Padre lo risuscita e lo glorifica nella potenza dello Spirito (2) .

 

“Io sono tuo e per te”

Quella di Dio, inoltre, non è una discesa di semplice condiscendenza che lascerebbe l’uomo al suo posto, “lo sguardo di Dio, chiarisce Giovanni della Croce, produce nell’anima quattro beni: la purifica, l’abbellisce, l’arricchisce e la illumina, comportandosi come il sole il quale con i suoi raggi prosciuga, riscalda, abbellisce e illumina” (Cantico B, 33,1).

Amandoci, Dio non ci offre dei doni, ma ci comunica tutto se stesso con quello che è: “Infatti chi ama e fa del bene ad un altro, chiarisce ancora il mistico, lo ama e gli fa del bene a seconda della propria natura e delle qualità che possiede. E così il tuo Sposo, stando in te, ti fa le grazie degne di sé, poiché, in quanto onnipotente ti fa del bene e ti ama con onnipotenza; perché sapiente, senti che ti benefica e ti ama con sapienza, perché è buono, senti che ti ama con bontà, perché santo ti ama e ti elargisce grazie con santità, perché è giusto ti ama con giustizia, perché misericordioso, pietoso e clemente, tu esperimenti la sua misericordia, la sua pietà e la sua clemenza, (…) dicendoti con grande tua gioia: “Io sono tuo e per te, ho piacere di essere quale sono per darmi a te e per essere tuo”” (Fiamma B, 3,6).

Questo ci consente di avere un’altra immagine di noi stessi: quella che gli psicologi chiamano “una buona stima di sé”. Perché Dio donandosi all’uomo lo rende partecipe della sua vita divina. Dio, infatti “quando ama un’anima, in certo modo la mette dentro di sé e l’uguaglia a sé” (Cantico B, 32,6).

Egli ci rende partecipi della sua vitalità, dello stesso amore che circola tra il Padre e il Figlio: “Come l’amore è unione del Padre e del Figlio, così unisce anche l’anima e Dio” (Cantico B, 13,11), e ad essere sulla terra epifania del dinamismo trinitario: “Come il Padre e il Figlio e quello/ che procede da loro due,/ l’un nell’altro ha la sua vita,/ così avverrà alla sposa,/ che tutta assorta in Dio,/ vivrà vita divina”. (Romanza 4).

La presenza di Dio diventa effusione e circolarità continua della vita divina che trasforma  profondamente la struttura dell’uomo, comunicandogli lo stesso dinamismo trinitario: Questo amore ci consente di diventare figli, partecipi della bellezza di Dio.

Questa è la vocazione dell’uomo, la sua dignità!

“Avendomi ferito: ti uscii dietro gridando”

L’uomo scopre un "tu" amante, e ferito da quell’amore comincia a vivere veramente iniziando il rapporto con l’Amato.

L’abbraccio di Dio provoca una ferita d’amore: “Avendomi ferito: ti uscii dietro gridando” (Habiéndome herido: salì tras ti clamando) (Cantico B, 1) che fa nascere nell’uomo il desiderio di un coinvolgimento in questo abbraccio d’amore e, quindi, la capacità di un’avventura nuova.

Comincia un esodo. È l’uscita dell’innamorata alla ricerca dell’Amato, il desiderio dell’Amato è determinato dall’irruzione di Dio nell’esistenza dell’amata. È questo “fuoco che consuma e non dà pena” (con llama che consume y no da pena) (Cantico B, 39), come quello che avvertì Mosè, che mette in movimento.

Ne consegue che, lungi dall’essere un volontarismo che si avvale della bravura dell’uomo, il cammino spirituale, scaturisce dalla consapevolezza della gratuità coinvolgente di Dio.

Si tratta quindi di un’uscita da sé all’incontro di colui che è sceso per primo dal cielo. Paradossalmente quest’uscita equivale ad un’entrata dentro sé, ove Dio stesso si degna di lasciarsi trovare. Si tratta di sottrarsi a una vita vuota banale, avvitata a desideri fugaci, inconsistenti, per scoprire la presenza di un Amico in noi e approfondire il rapporto con lui. Se glielo consentiamo egli ci darà il suo respiro e la dignità di figli amati.

Se glielo consentiamo, dico, perché la sua iniziativa chiede docilità e collaborazione responsabile da parte dell’uomo.

Mentre Dio si dona all’uomo “in modo conforme al suo passo, cioè tutto in una volta” (Cantico B, 23,6), il coinvolgimento dell’uomo, al suo sguardo d’amore, avviene “per via di perfezione, a poco a poco…, al passo dell’anima” (Cantico B, 23,6).

Per accogliere la carezza di Dio, infatti, bisogna fare spazio, vuoto. Chi si apre alla luce di Dio, però, spesso avverte che la sua esistenza è piena, un io ipertrofico la fa da padrone imponendo i suoi desideri, una sua logica, le sue esigenze i suoi progetti, che Giovanni della Croce chiama appetiti, che non consentono spazio ad alcuno.

 

“Gli appetiti come sanguisughe…”

Il termine appetito, psicologicamente sta ad indicare la tendenza, l'inclinazione naturale a desiderare e cercare il proprio appagamento in un oggetto esterno, colto confusamente dalla coscienza come piacevole e rispondente ai bisogni vitali di cui il soggetto sperimenta la carenza.

Negli scritti di S. Giovanni della Croce, il termine appetito torna continuamente. Egli lo usa per indicare il desiderio in modo positivo, ma molto spesso lo adopera per indicare un desiderio, una tendenza/inclinazione disordinata dell'affettività, con la partecipazione della volontà. È ogni inclinazione, desiderio, bramosia naturale in quanto si oppone alla legge della ragione e della fede e in quanto resiste e si ribella alla vita animata dallo Spirito (cf Gal 5, 16-20). In questa accezione, per il mistico spagnolo, radice e humus di tutti gli appetiti sono: “La concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi e la superbia della vita (1Gv 2,16), tre inclinazioni che spadroneggiano nel mondo e dalle quali procedono tutti gli altri appetiti” (1Salita, 13,8).

Nell’individuare l’humus degli appetiti il mistico spagnolo cita esplicitamente la prima lettera di Giovanni, dove la concupiscenza (epithymìa = anche: desiderio, voglia, bramosia) e la superbia (alazoneìa = anche: spacconeria,arroganza, impostura, l’idolatria di se stessi) nella nostra situazione storica, descrivono il mistero del male che ci riguarda a livello radicale a prescindere dalla colpevolezza morale.

Gli appetiti sono modulazioni di questo mistero del male che non solo ci raggiunge ma è parte di noi. Giovanni della Croce descrivendo l’uomo dominato dagli appetiti, delinea quello che è il livello primitivo, primordiale della vita dell’uomo, un livello istintuale, cieco, potremmo dire, con terminologia paolina dominato dai desideri della carne. Egli evidenzia che l’uomo, visitato dalla Trinità santa, e quindi destinato a sviluppare una sua capacità d’infinito nella sua relazione con l’altro, scopre invece che, di fatto, si trova orientato verso una pienezza, verso una realtà che invece è altra da Dio, è altra da sé, è altra dalla verità che ha dentro.

 Quando questo accade, quando l’uomo vive dei suoi appetiti, di questo investimento affettivo disorientato nei confronti della realtà, egli vive una vita smarrita, non vera perché essi hanno effetti devastanti nella persona (3)  “la stancano, la tormentano, l'oscurano, l'insudiciano, l'indeboliscono, la feriscono” (1Salita, 6,1),

Essi “sono come le sanguisughe che succhiano continuamente il sangue delle vene” (1Salita, 10,2) e quindi provocano come una disintegrazione nella vita dell'uomo, atrofizzando le relazioni d'amore a tre livelli: con se stessi, con gli altri e con Dio. Dice esattamente il mistico: “È cosa veramente degna di compassione considerare in quale stato riducano la povera anima gli appetiti che in essa vivono: quanto sia sgradita a se stessa, quanto arida verso il prossimo e quanto pigra verso le cose di Dio” (1Salita, 10,4).

 

“Rinnega i tuoi desideri e troverai quello che il tuo cuore desidera”

Proprio perché essi “vagano sempre come cani affamati” (1Salita, 6,3) danneggiano la parte vitale dell'uomo in quanto la privano dello spirito di Dio, e non consentono relazioni vere, Giovanni della Croce è radicale nel non consentire ad essi diritto di cittadinanza nella vita dell’uomo. Il suo radicalismo lo esprime con la polarità “tutto” (todo), “niente” (nada) nelle famose sentenze del primo libro de Salita:

Per giungere a gustare il tutto, / non cercare il gusto in niente.

Per giungere al possesso del tutto, / non voler possedere niente.

Per giungere ad essere tutto, / non voler essere niente (1Salita, 13,11).

“Tutto e niente”, questo lessico antitetico e paradossale di Giovanni della Croce credo abbia una radice paolina. Ai Filippesi, l’apostolo, scrive: “Tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo” (Fil 3,8).

Per Paolo, il “tutto” è la conoscenza di Cristo, è l’esperienza di Gesù che salva, il “niente” è la “spazzatura”: la presunzione dell’uomo di salvarsi con le proprie risorse, la logica mondana, la vita “secondo la carne”.

Anche per Giovanni della Croce il “tutto” non è qualcosa, né l’insieme di tutte le cose, è invece “qualcuno”, è il Signore Gesù: “Il Padre ci donò tutto (todo), cioè suo Figlio” (2Salita, 22,4). Essendo dono, il Figlio, coinvolge anche il donante, cioè lo stesso Padre, ecco perché il mistico afferma anche: “Soltanto Dio è per l’anima il Tutto” (Fiamma, 1,32).

Per il mistico spagnolo, l’uomo trova l’appagamento dei suoi desideri, la pienezza della sua vita, il “tutto”, solo consentendo al dono di Dio, Gesù, di occupare il suo spazio vitale per trasformare lui e innalzarlo fino a sé.

Come per Paolo, anche per Giovanni, il "niente" non sono le persone e le cose, ma ciò che scaturisce dalla presunzione e da una logica mondana: peccato, appetito, bramosia, vanità, inconsistenza, dispersione, agire disordinato dell’uomo sono nulla, inoltre annullano o riducono al nulla tutto quanto raggiungono nel loro operare, anche se gli oggetti come tali sarebbero dotati di grande valore. Il nulla non si riferisce agli oggetti, ma alla comunione teologale, che viene distrutta da questo attaccamento egoistico e indipendente (4) .

Il “niente” è tutto ciò che non consente all’uomo di realizzare il tutto: l’unione d’amore con Dio in Cristo Gesù. Scrive il mistico: “Se l’anima si libererà da ciò che non è conforme e ripugna alla volontà di Dio, rimarrà trasformata in Dio per amore. (…) Poiché qualsiasi creatura con le sue azioni e con le sue capacità non è conforme e non arriva a ciò che è Dio, l’anima deve spogliarsi di ogni cosa creata e di tutte le sue azioni e abilità – cioè del suo modo di intendere, di gustare, di sentire – affinché, allontanato quanto c’è di dissimile e di non conforme a Dio, ella, non restandole cosa opposta alla volontà dell’Altissimo, possa ricevere la somiglianza di Dio e così trasformarsi in Lui”. (2Salita, 5,3-4).

Questo svuotamento non avviene in un giorno, richiede un lavorio quotidiano, un’ascesi che il linguaggio biblico ci ha descritto in termini di aspra lotta. L’ascesi è un esercizio costoso, inerente, determinato da un “amore ansioso per Lui” (1Salita, 14,2) e conseguente al sì iniziale che vede impegnato, in compagnia della Parola e dello Spirito, tutto l’uomo contro tutto ciò che si oppone al compimento dell’opera iniziata da Dio in lui.

Si tratta di lasciarsi sedurre dal Risorto e affascinati da lui lasciar morire in noi quel disordine affettivo e relazionale che porta a ripiegarci su noi stessi; e di consentire, alle inclinazioni - tendenze considerate positivamente di canalizzarsi “come costante desiderio”, per usare ancora il linguaggio di Giovanni della Croce, “di osservare esattamente la legge di Dio e di prendere sopra di sé la croce di Cristo” (1Salita, 5,8); “di imitare Cristo” (1Salita 13,3), e di dirigere “l'affetto della volontà verso il possesso dell'Amato di cui (l'anima) ha sentito il tocco” (Cantico 1,19). L'ascesi in quest’ottica pasquale è mistagogia che introduce il credente a divenire spazio di Dio e luogo della sua epifania per la salvezza di molti, ed è esperienza che non sopprime o inibisce i desideri ma li educa, li trasforma e vitalmente li orienta a una comunione maggiore con se stessi, con gli altri e con Dio.

       Chi consente a questo mistero, e si lascia abitare dal Risorto, si scopre generato a vita nuova e, sorpreso, constata che Dio non gli ha tolto niente, anzi, sorpassando ogni suo desiderio, ogni sua attesa, lo ha arricchito della dignità di figlio, per cui, con verità può dire a Dio “ciò che dice lo stesso suo Figlio in San Giovanni (17,10) all’Eterno Padre: Padre, tutte le mie cose sono tue e le tue sono mie” (Cantico B, 36,5).  Egli scopre che nel frammento della sua esistenza, benché fragile, risplende già la bellezza di Dio: “Così io vedrò te nella tua bellezza e tu me nella tua bellezza, e tu ti vedrai in me nella tua bellezza ed io mi vedrò in te nella tua bellezza. Che io sembri te nella tua bellezza e tu sembri me nella tua bellezza e la mia bellezza sia la tua e la tua sia la mia, così io sarò te nella tua bellezza e tu sarai me nella tua bellezza poiché la tua stessa bellezza sarà la mia” (Cantico B, 36,5).

 

                                                                                           Alberto Neglia

Fraternità Carmelitana

Via U. Foscolo 54

98051 Barcellona P.G. (ME)

 

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