"Tempo Perso - Alla ricerca di senso nel quotidiano" - Sezione "SPIRITUALITA' E FEDE"
DAI
DESIDERI ALLA GIOIA DELL'INCONTRO La proposta di S. Giovanni della Croce di Alberto Neglia“Gesù, fissatolo, lo amò…” (Mc 10,21). La vita cristiana inizia da questi intrecci di sguardi, dove l’iniziativa è di Gesù. È lui che vede Simone e Andrea mentre gettano le reti in mare e li coinvolge: seguitemi (Mt 4,18-19). È lui che, durante la sua passione, si volta per guardare Pietro che lo rinnegava (Lc 22,54-62). Lo sguardo di Gesù è rivelativo dello sguardo del Padre che è sempre alla ricerca dell’uomo. Nel
libro dell’Esodo, per esempio, leggiamo: “Il Signore disse: “Ho
osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a
causa dei suoi sorveglianti; conosco infatti le sue sofferenze. Sono sceso
per liberarlo dalla mano dell’Egitto e per farlo uscire da questo paese
verso un paese bello e spazioso, verso un paese dove scorre latte e
miele”” (Es 3,7-8) I
grandi mistici hanno tutti consapevolezza che all’inizio della loro
avventura spirituale c’è lo sguardo di Dio che li ha sedotti e
conquistati. “Il
guardare di Dio è amare”
Tra
questi c’è certamente Giovanni della Croce. Egli nel Cantico
spirituale e nella Fiamma viva d’amore evidenzia che chi
mette in movimento l’uomo, nel suo cammino spirituale, è lo sguardo di
Dio amante. È alla luce di queste opere, quindi che vanno lette Salita
del monte Carmelo e Notte oscura, dove il mistico spagnolo
evidenzia di più l’impegno dell’uomo per rispondere alla
sollecitazione di Dio (1) . Nel
Cantico spirituale, Giovanni della Croce, più volte ci ricorda:
“Il guardare di Dio è amare” (el mirar de Dios es amar)
(Cantico B, 19,6). Egli evidenzia che lo sguardo di Dio non è mai
superficiale o di curiosità, ma è uno sguardo appassionato, da
innamorato che scruta e abbraccia, penetra nella vita di chi è guardato e
si fa suo compagno di viaggio. Quindi
per Giovanni della Croce, non è l’uomo che inizia la salita verso Dio,
né sale i gradi della perfezione da solo, è proprio Dio che prende
l’iniziativa della discesa verso l’uomo. Illustra
questo dinamismo il grafico del Crocifisso. Il Crocifisso vi appare
in prospettiva discendente, come se il pittore si fosse situato
nell’alto del divino mistero Trinitario, e l’intero corpo contorto con
lo sguardo già quasi irriconoscibile è teso verso il basso dell’umanità
infangata nel mondo del peccato. L’intera consegna amorosa di Dio agli
uomini in Cristo sulla Croce viene qui plasmata: il Figlio di Dio vi
rimarrà, ed è proprio nella sua croce per amore del Padre e degli uomini
che il Padre lo risuscita e lo glorifica nella potenza dello Spirito (2)
. “Io
sono tuo e per te”
Quella
di Dio, inoltre, non è una discesa di semplice condiscendenza che
lascerebbe l’uomo al suo posto, “lo sguardo di Dio, chiarisce Giovanni
della Croce, produce nell’anima quattro beni: la purifica,
l’abbellisce, l’arricchisce e la illumina, comportandosi come il sole
il quale con i suoi raggi prosciuga, riscalda, abbellisce e illumina”
(Cantico B, 33,1). Amandoci,
Dio non ci offre dei doni, ma ci comunica tutto se stesso con quello che
è: “Infatti chi ama e fa del bene ad un altro, chiarisce ancora il
mistico, lo ama e gli fa del bene a seconda della propria natura e delle
qualità che possiede. E così il tuo Sposo, stando in te, ti fa le grazie
degne di sé, poiché, in quanto onnipotente ti fa del bene e ti ama con
onnipotenza; perché sapiente, senti che ti benefica e ti ama con
sapienza, perché è buono, senti che ti ama con bontà, perché santo ti
ama e ti elargisce grazie con santità, perché è giusto ti ama con
giustizia, perché misericordioso, pietoso e clemente, tu esperimenti la
sua misericordia, la sua pietà e la sua clemenza, (…) dicendoti con
grande tua gioia: “Io sono tuo e per te, ho piacere di essere quale sono
per darmi a te e per essere tuo”” (Fiamma B, 3,6). Questo
ci consente di avere un’altra immagine di noi stessi: quella che gli
psicologi chiamano “una buona stima di sé”. Perché Dio donandosi
all’uomo lo rende partecipe della sua vita divina. Dio, infatti
“quando ama un’anima, in certo modo la mette dentro di sé e
l’uguaglia a sé” (Cantico B, 32,6). Egli
ci rende partecipi della sua vitalità, dello stesso amore che circola tra
il Padre e il Figlio: “Come l’amore è unione del Padre e del Figlio,
così unisce anche l’anima e Dio” (Cantico B, 13,11), e ad essere
sulla terra epifania del dinamismo trinitario: “Come il Padre e il
Figlio e quello/ che procede da loro due,/ l’un nell’altro ha la sua
vita,/ così avverrà alla sposa,/ che tutta assorta in Dio,/ vivrà vita
divina”. (Romanza 4). La
presenza di Dio diventa effusione e circolarità continua della vita
divina che trasforma profondamente la struttura dell’uomo,
comunicandogli lo stesso dinamismo trinitario: Questo amore ci consente di
diventare figli, partecipi della bellezza di Dio. Questa è la vocazione dell’uomo, la sua dignità! “Avendomi
ferito: ti uscii dietro gridando” L’uomo
scopre un "tu" amante, e ferito da quell’amore comincia a
vivere veramente iniziando il rapporto con l’Amato. L’abbraccio
di Dio provoca una ferita d’amore: “Avendomi ferito: ti uscii dietro
gridando” (Habiéndome herido: salì tras ti clamando) (Cantico
B, 1) che fa nascere nell’uomo il desiderio di un coinvolgimento
in questo abbraccio d’amore e, quindi, la capacità di un’avventura
nuova. Comincia
un esodo. È l’uscita dell’innamorata alla ricerca dell’Amato, il
desiderio dell’Amato è determinato dall’irruzione di Dio
nell’esistenza dell’amata. È questo “fuoco che consuma e non dà
pena” (con llama che consume y no da pena) (Cantico B, 39), come
quello che avvertì Mosè, che mette in movimento. Ne
consegue che, lungi dall’essere un volontarismo che si avvale della
bravura dell’uomo, il cammino spirituale, scaturisce dalla
consapevolezza della gratuità coinvolgente di Dio. Si
tratta quindi di un’uscita da sé all’incontro di colui che è sceso
per primo dal cielo. Paradossalmente quest’uscita equivale ad
un’entrata dentro sé, ove Dio stesso si degna di lasciarsi trovare. Si
tratta di sottrarsi a una vita vuota banale, avvitata a desideri fugaci,
inconsistenti, per scoprire la presenza di un Amico in noi e approfondire
il rapporto con lui. Se glielo consentiamo egli ci darà il suo respiro e
la dignità di figli amati. Se
glielo consentiamo, dico, perché la sua iniziativa chiede docilità e
collaborazione responsabile da parte dell’uomo. Mentre
Dio si dona all’uomo “in modo conforme al suo passo, cioè tutto in
una volta” (Cantico B, 23,6), il coinvolgimento dell’uomo, al suo
sguardo d’amore, avviene “per via di perfezione, a poco a poco…, al
passo dell’anima” (Cantico B, 23,6). Per
accogliere la carezza di Dio, infatti, bisogna fare spazio, vuoto. Chi si
apre alla luce di Dio, però, spesso avverte che la sua esistenza è
piena, un io ipertrofico la fa da padrone imponendo i suoi desideri, una
sua logica, le sue esigenze i suoi progetti, che Giovanni della Croce
chiama appetiti, che non consentono spazio ad alcuno. “Gli
appetiti come sanguisughe…” Il
termine appetito, psicologicamente sta ad indicare la tendenza,
l'inclinazione naturale a desiderare e cercare il proprio appagamento in
un oggetto esterno, colto confusamente dalla coscienza come piacevole e
rispondente ai bisogni vitali di cui il soggetto sperimenta la carenza. Negli
scritti di S. Giovanni della Croce, il termine appetito torna
continuamente. Egli lo usa per indicare il desiderio in modo positivo, ma
molto spesso lo adopera per indicare un desiderio, una
tendenza/inclinazione disordinata dell'affettività, con la partecipazione
della volontà. È ogni inclinazione, desiderio, bramosia naturale in
quanto si oppone alla legge della ragione e della fede e in quanto resiste
e si ribella alla vita animata dallo Spirito (cf Gal 5, 16-20). In questa
accezione, per il mistico spagnolo, radice e humus di tutti gli appetiti
sono: “La concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi e la
superbia della vita (1Gv 2,16), tre inclinazioni che spadroneggiano nel
mondo e dalle quali procedono tutti gli altri appetiti” (1Salita,
13,8). Nell’individuare
l’humus degli appetiti il mistico spagnolo cita esplicitamente la
prima lettera di Giovanni, dove la concupiscenza (epithymìa =
anche: desiderio, voglia, bramosia) e la superbia (alazoneìa =
anche: spacconeria,arroganza, impostura, l’idolatria di se stessi) nella
nostra situazione storica, descrivono il mistero del male che ci riguarda
a livello radicale a prescindere dalla colpevolezza morale. Gli
appetiti sono modulazioni di questo mistero del male che non solo ci
raggiunge ma è parte di noi. Giovanni della Croce descrivendo l’uomo
dominato dagli appetiti, delinea quello che è il livello primitivo,
primordiale della vita dell’uomo, un livello istintuale, cieco, potremmo
dire, con terminologia paolina dominato dai desideri della carne. Egli
evidenzia che l’uomo, visitato dalla Trinità santa, e quindi destinato
a sviluppare una sua capacità d’infinito nella sua relazione con
l’altro, scopre invece che, di fatto, si trova orientato verso una
pienezza, verso una realtà che invece è altra da Dio, è altra da sé,
è altra dalla verità che ha dentro. Quando
questo accade, quando l’uomo vive dei suoi appetiti, di questo
investimento affettivo disorientato nei confronti della realtà, egli vive
una vita smarrita, non vera perché essi hanno effetti devastanti nella
persona (3)
“la stancano, la tormentano,
l'oscurano, l'insudiciano, l'indeboliscono, la feriscono” (1Salita,
6,1), Essi
“sono come le sanguisughe che succhiano continuamente il sangue delle
vene” (1Salita, 10,2) e quindi provocano come una disintegrazione nella
vita dell'uomo, atrofizzando le relazioni d'amore a tre livelli: con se
stessi, con gli altri e con Dio. Dice esattamente il mistico: “È cosa
veramente degna di compassione considerare in quale stato riducano la
povera anima gli appetiti che in essa vivono: quanto sia sgradita a se
stessa, quanto arida verso il prossimo e quanto pigra verso le cose di
Dio” (1Salita, 10,4). “Rinnega
i tuoi desideri e troverai quello che il tuo cuore desidera” Proprio
perché essi “vagano sempre come cani affamati” (1Salita, 6,3)
danneggiano la parte vitale dell'uomo in quanto la privano dello spirito
di Dio, e non consentono relazioni vere, Giovanni della Croce è radicale
nel non consentire ad essi diritto di cittadinanza nella vita dell’uomo.
Il suo radicalismo lo esprime con la polarità “tutto” (todo),
“niente” (nada) nelle famose sentenze del primo libro de Salita: Per
giungere a gustare il tutto, / non cercare il gusto in niente. Per
giungere al possesso del tutto, / non voler possedere niente. Per
giungere ad essere tutto, / non voler essere niente (1Salita, 13,11). “Tutto
e niente”, questo lessico antitetico e paradossale di Giovanni della
Croce credo abbia una radice paolina. Ai Filippesi, l’apostolo, scrive:
“Tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della
conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho lasciato perdere
tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare
Cristo” (Fil 3,8). Per
Paolo, il “tutto” è la conoscenza di Cristo, è l’esperienza di Gesù
che salva, il “niente” è la “spazzatura”: la presunzione
dell’uomo di salvarsi con le proprie risorse, la logica mondana, la vita
“secondo la carne”. Anche
per Giovanni della Croce il “tutto” non è qualcosa, né l’insieme
di tutte le cose, è invece “qualcuno”, è il Signore Gesù: “Il
Padre ci donò tutto (todo), cioè suo Figlio” (2Salita, 22,4). Essendo
dono, il Figlio, coinvolge anche il donante, cioè lo stesso Padre, ecco
perché il mistico afferma anche: “Soltanto Dio è per l’anima il
Tutto” (Fiamma, 1,32). Per
il mistico spagnolo, l’uomo trova l’appagamento dei suoi desideri, la
pienezza della sua vita, il “tutto”, solo consentendo al dono di Dio,
Gesù, di occupare il suo spazio vitale per trasformare lui e innalzarlo
fino a sé. Come
per Paolo, anche per Giovanni, il "niente" non sono le persone e
le cose, ma ciò che scaturisce dalla presunzione e da una logica mondana:
peccato, appetito, bramosia, vanità, inconsistenza, dispersione, agire
disordinato dell’uomo sono nulla, inoltre annullano o riducono al nulla
tutto quanto raggiungono nel loro operare, anche se gli oggetti come tali
sarebbero dotati di grande valore. Il nulla non si riferisce agli oggetti,
ma alla comunione teologale, che viene distrutta da questo attaccamento
egoistico e indipendente (4) . Il
“niente” è tutto ciò che non consente all’uomo di realizzare il
tutto: l’unione d’amore con Dio in Cristo Gesù. Scrive il mistico:
“Se l’anima si libererà da ciò che non è conforme e ripugna alla
volontà di Dio, rimarrà trasformata in Dio per amore. (…) Poiché
qualsiasi creatura con le sue azioni e con le sue capacità non è
conforme e non arriva a ciò che è Dio, l’anima deve spogliarsi di ogni
cosa creata e di tutte le sue azioni e abilità – cioè del suo modo di
intendere, di gustare, di sentire – affinché, allontanato quanto c’è
di dissimile e di non conforme a Dio, ella, non restandole cosa opposta
alla volontà dell’Altissimo, possa ricevere la somiglianza di Dio e così
trasformarsi in Lui”. (2Salita, 5,3-4). Questo
svuotamento non avviene in un giorno, richiede un lavorio quotidiano,
un’ascesi che il linguaggio biblico ci ha descritto in termini di aspra
lotta. L’ascesi è un esercizio costoso, inerente, determinato da un
“amore ansioso per Lui” (1Salita, 14,2) e conseguente al sì iniziale
che vede impegnato, in compagnia della Parola e dello Spirito, tutto
l’uomo contro tutto ciò che si oppone al compimento dell’opera
iniziata da Dio in lui. Si
tratta di lasciarsi sedurre dal Risorto e affascinati da lui lasciar
morire in noi quel disordine affettivo e relazionale che porta a
ripiegarci su noi stessi; e di consentire, alle inclinazioni - tendenze
considerate positivamente di canalizzarsi “come costante desiderio”,
per usare ancora il linguaggio di Giovanni della Croce, “di osservare
esattamente la legge di Dio e di prendere sopra di sé la croce di
Cristo” (1Salita, 5,8); “di imitare Cristo” (1Salita 13,3), e di
dirigere “l'affetto della volontà verso il possesso dell'Amato di cui
(l'anima) ha sentito il tocco” (Cantico 1,19). L'ascesi in quest’ottica
pasquale è mistagogia che introduce il credente a divenire spazio di Dio
e luogo della sua epifania per la salvezza di molti, ed è esperienza che
non sopprime o inibisce i desideri ma li educa, li trasforma e vitalmente
li orienta a una comunione maggiore con se stessi, con gli altri e con
Dio.
Chi consente a questo mistero, e si lascia abitare dal Risorto, si scopre
generato a vita nuova e, sorpreso, constata che Dio non gli ha tolto
niente, anzi, sorpassando ogni suo desiderio, ogni sua attesa, lo ha
arricchito della dignità di figlio, per cui, con verità può dire a Dio
“ciò che dice lo stesso suo Figlio in San Giovanni (17,10) all’Eterno
Padre: Padre, tutte le mie cose sono tue e le tue sono mie” (Cantico B,
36,5). Egli scopre che nel frammento della sua esistenza, benché
fragile, risplende già la bellezza di Dio: “Così io vedrò te nella
tua bellezza e tu me nella tua bellezza, e tu ti vedrai in me nella tua
bellezza ed io mi vedrò in te nella tua bellezza. Che io sembri te nella
tua bellezza e tu sembri me nella tua bellezza e la mia bellezza sia la
tua e la tua sia la mia, così io sarò te nella tua bellezza e tu sarai
me nella tua bellezza poiché la tua stessa bellezza sarà la mia”
(Cantico B, 36,5). Fraternità Carmelitana Via U. Foscolo 54 98051 Barcellona P.G. (ME)
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