"Tempo Perso - Alla ricerca di senso nel quotidiano"
FONTE:
MicroMega 1/07 - Cattolici per l’eutanasia Ecco le testimonianze di quattro preti: don Andrea Gallo, Giovanni Franzoni, don Paolo Farinella, don Aldo Antonelli. C'è anche un'altra Chiesa, oltre a quella di Ratzinger,
di DON ANDREA GALLO
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VIVERE IL PROPRIO MORIRE
di GIOVANNI FRANZONI
Una seconda fondamentale distinzione va fatta sulle motivazioni di una richiesta di suicidio assistito, o meglio, senza paura della parola, di eutanasia. Si nomina in genere la sofferenza, fisica o psicologica, talmente insostenibile da rendere non-vita, la vita. Ma bisogna tenere conto di un altro fattore che sta stretto nella nozione di «sofferenza»: il non riconoscersi più, sul piano etico ed esistenziale, in una certa condizione. Un caso classico è quello citato da sant'Agostino delle vergini cristiane (ma perché, oggi, non considerare anche le non vergini e le non cristiane?) che per evitare l'esposizione al postribolo si gettarono nel fuoco e furono considerate sante e martiri. Nell'area del pensiero etico e degli esempi storici, bisogna ricordare il pensiero stoico per cui, quando una persona si trova in obiettiva e inamovibile contraddizione con se stessa, ha come unica soluzione il suicidio. Dante (dell'ortodossia del quale nessuno ha mai dubitato) affida la custodia del Purgatorio a Catone l'Uticense che si tolse la vita per non accettare l'insopportabile comportamento politico di Cesare: «Libertà va cercando che sì cara / come sachi per lei vita rifiuta». E qui Dante pronuncia la parola fatidica «libertà» che è nel cuore del nostro discorso. Ho avuto occasione di dare un certo spazio alla pratica dei monaci giainisti che praticano il «digiuno estremo» (fino alla morte) quando le circostanze impediscono loro di vivere secondo la disciplina che hanno adottato (si veda La morte condivisa, pp. 43-47). Gandhi, che era giainista, adottò una volta questa decisione - era stata finalmente emanata in India una legge che concedeva il voto politico agli «intoccabili» ma in collegi separati, cosa accettata dalle organizzazioni dei paria ma insopportabile per il Mahatma - e poi la revocò quando ritenne, ma lo ritenne lui, che le circostanze fossero mutate. Nuovamente a regnare sovrana è la libertà che si sottomette solo quando la coscienza la orienta verso un fine - secolare o religioso - che le consente di esprimersi non in forma capricciosa ma secondo modalità condivisibili e condivise. Si potrebbero citare infiniti casi di persone, molto spesso medici, che conoscono bene il decorso del loro caso clinico, che, prevedendo di trovarsi prigionieri di una vita solo vegetativa, hanno lasciato nel loro testamento biologico la volontà di non essere alimentati artificialmente perché, da quel momento, non si sarebbero riconosciuti nella condizione di totale dipendenza. Sia pur priva di dolore fisico o psicologico. Ultima distinzione, infine, forse la più delicata, è circa la vita come dono. In particolare, come osserva Flamigni in un recente fondo sul Manifesto, per i credenti è «dono di Dio» e pertanto sacra; disporne a proprio piacimento sarebbe irriverente e blasfemo. Altro discorso per i non credenti che non facendo riferimento a Dio, potrebbero essere liberi di disporre della propria vita. In realtà la difficoltà c'è anche per l'etica laica. Immanuel Kant considera la vita un bene «non disponibile» dal momento che non ce la siamo dati da soli e quindi considera negativamente il suicidio. È necessario approfondire il concetto di «dono». La donazione, nel diritto, è definita un contratto e quindi suppone delle regole di accettazione, come in tutti i contratti. Nel pensiero filosofico come in quello religioso la donazione potrebbe essere considerata in modo diverso: quando il rapporto è gratuito e quindi il donatore non accampa diritti di dipendenza su coloro che ricevono il dono, si suppone una responsabilità connessa al ricettore del dono. Questo vale soprattutto quando il dono è la vita umana che ha come dna specifico di essere libera. Che il donatore sia il Creatore o che sia il popolo o i genitori da cui nasci, essi ti donano la libertà e si attendono solo che tu la eserciti con responsabilità e non con stoltezza e leggerezza. La maturità della coscienza resta l'arbitro di questa suprema ed esaltante sfida.
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di DON PAOLO FARINELLA
Questo è l'orizzonte entro cui, come credente prete, posso interrogarmi anche sul tema attualissimo della «eutanasia», che le cronache hanno riportato all'onore della cronaca. Lo sa bene san Paolo che desiderò ardentemente la morte vista come un bene, ma accettò di restare «terreno» per servire i Filippesi che ne avevano bisogno: «Per me il vivere è Cristo e il morire un guadagno [.] sono messo alle strette tra queste due cose: da una parte il desiderio di essere sciolto dal corpo [= morire] per essere con Cristo, che sarebbe assai meglio; d'altra parte è più necessario che per voi io rimanga nella carne» (Filippesi 1,21-24). Se come cristiano, e ancora più come prete, ragiono di «eutanasia», so già di correre il rischio di cadere nel frullatore della polemica ideologica e di essere considerato come «eretico». Il metodo di approccio corrente infatti è di schieramento preventivo in forza della propria appartenenza socio-culturale o confessionale. Provo ad uscire da questo schematismo ideologico per tentare uno sguardo secondo la mia coscienza alla luce della mia esperienza personale (Dasein) e della Parola di Dio che per me è la chiave di lettura degli avvenimenti della vita, premettendo che rappresento solo me stesso come individuo e nessun altro.
La mia esperienza Ho visto soffrire mia mamma e l'ho vista morire. Ho pregato con tutta l'anima per la sua morte, nonostante nel mio inconscio la considerassi eterna già sulla terra. Io e la mia famiglia l'abbiamo amata fino allo spasimo, eppure ne abbiamo desiderato ardentemente la morte, invocandola da Dio come liberazione delle sue e nostre sofferenze. Nell'omelia della «Liturgia dell'arrivederci» (17-5-2005) dissi in chiesa: «Sotto morfina 24 su 24 ore, la mamma cominciò un lento cammino verso la morte, senza lamentarsi per le virulenze del dolore. Quando le dissi, ancora in ospedale: "Mamma, abbiamo un tumore", mi guardò, pianse in silenzio, fece la Comunione e disse: "Facciamo quello che Dio vuole" traducendo per sé le parole di Israele ai piedi del Sinai: "Ciò che il Signore ha detto, noi faremo e ascolteremo" (Esodo 24,7) e del Padre nostro: "Sia fatta la tua volontà" (Matteo 6,10). Guardando la mamma abbiamo visto la Donna dei dolori, che ha patito tutto ciò che si poteva patire. Solo le parole del profeta Isaia (53,3.7) la sanno descrivere: "Uomo dei dolori, conoscitore della sofferenza, simile a uno davanti al quale ci si nasconde la faccia. Maltrattato e umiliato, non aperse bocca. Come un agnello condotto al macello, come pecora muta davanti ai suoi tosatori non aperse bocca". Il suo viso dolcissimo fu scavato e scarnificato dalla pienezza della sofferenza: la deformazione della spina dorsale, la rottura del femore, poi il tumore alle vie biliari, le degenerazioni ai polmoni e allo stomaco e infine un'atroce infiammazione alla lingua e alla bocca che le ha impedito di nutrirsi, bere e parlare. Rimasero solo le parole silenziose degli occhi. Alla mamma Dio ha tolto anche il dono/consolazione della Comunione che era diventata il suo unico cibo quotidiano. Come Cristo, è stata spogliata, incoronata di spine, crocifissa, trafitta e martoriata: "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonata?"» (Marco 15,34) Di fronte a lei, assisa sul trono della sofferenza, noi, la famiglia, fummo attivi ma impotenti e inutili: col desiderio volevamo schiodarla da quella croce per porre fine al dolore tracimante e incontenibile, di fatto non abbiamo potuto o saputo alleviarle le sofferenze. Unica consolazione: morì in casa attorniata dai figli.
Natura e dignità Il magistero della Chiesa cattolica si appella alla «legge naturale» come espressione della «legge divina» per esigerel'intangibilità della vita dalla nascita fino al suo compimento, appunto naturale. È un argomento delicato perché a guardare dentro la «natura», nulla vi si scorge di sacrale, mentre tutto sembra dominato dalla violenza e dalla sopraffazione. Il debole soccombe, il malato è eliminato, il forte prevarica. Se dovessimo scegliere la natura come modello di comportamento umano, dovremmo improntare i codici alla legge naturale del più forte, annientando il concetto stesso di polis che è regolazione degli interessi particolari in vista dell'armonia del bene comune. Oggi si dice con superficialità che si è allungata la prospettiva di vita, ma forse si è prolungata solo la sofferenza delle
persone. Quando si parla di «vita» si pensa all'anima e al suo opposto, il corpo. Questa distinzione tra anima e corpo è
un'impostazione greca (platonico-aristotelica) che non appartiene al patrimonio culturale biblico-semita che parla
della persona come un tutt'uno, un unicum visto attraverso tre categorie: tutta la persona è «basàr-carne/fragilità/caducità» (in termini moderni corporeità, come capacità di relazione con le cose create); tutta la
Immagine di relazione Genesi 1,27 afferma (traduco alla lettera dall'ebraico): «E creò Èlhoim l'Adam [= genere umano] a sua immagine, a immagine di Èlhoim lo creò, pungente e perforata li creò». Dal punto di vista di fede, la vita per essere espressione di Dio deve essere «vita piena» con due caratteristiche: essere immagine rappresentativa della pienezza creativa di Dio che si esprime (è la seconda caratteristica) nella relazione affettiva di pungente e perforata che le traduzioni sviliscono in «maschio e femmina». La vita umana è fondamentalmente relazione di comunione in cui convergono tre orizzonti della persona: testa, cuore, pelle in una sintesi perfetta di armonia d'amore. Se l'amore è la chiave, il metodo e il fine, un credente può volere la sua morte? Per un cristiano, vita e morte sulla terra non sono valori assoluti perché la prospettiva di vita non è temporale, ma si dilata oltre la soglia della morte per entrare nell'abisso del mistero dell'eternità, tarato su un fondamento invalicabile che è l'amore o, per usare il vocabolario di Paolo, la legge dell'Agápe. «L'Agápe non avrà mai fine» (1 Corinzi 13,8), mentre la fede, la speranza, le profezie finiranno. Nella logica di Paolo, l'Agápe, il dono totale di sé senza contropartite di alcun genere, è Cristo stesso che ci ha lasciato il comandamento dell'amore come sua legge suprema e contrassegno della nostra e sua credibilità. Al di fuori di questo confine, nemmeno Dio è possibile come relazione.
Imparare a vivere in attesa di morire L'Agàpe di chi crede si fa carico del dolore e della sofferenza del mondo e si pone a servizio della persona in quella
condizione di vita o di non-vita in cui si trova e non in una condizione teorica e astratta dove il volto sofferente del
«crocifisso» è assente. Forse è venuto il tempo d'imparare prima a vivere la vita in tutta la sua estensione di dignità e
poi, quando giunge il momento, a morire con dignità, con umanità, con amore, piuttosto che costringere altri anche
contro la loro volontà e la pesantezza del loro dolore a restare schiacciati da una condanna a morte sempre più Il credente che celebra la vita si carica della croce altrui e come il cireneo sale al Calvario dalla cui vetta si proietta verso il Risorto: «Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d'oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo» (Concilio Vaticano II, Gaudium et spes, 1).
Il dovere della polis Come credente prete cattolico non posso mai né invocare leggi positive dello Stato per imporre la mia fede, la mia etica o una visione o una scelta (oggi l'eutanasia), uniforme per tutti. Ogni «principio», specialmente se riferito alla persona, deve essere «incarnato», in base alla regola d'oro del vangelo di non fare agli altri ciò che non si vorrebbe fosse fatto a se stessi (Matteo 7,12). Difendere la vita vegetale separata dalla persona reale ad ogni costo, costi quel che costi, anche contro il livello minimo di dignità è puro materialismo perché sull'altare di un principio ancora da verificare non si esita ad immolare le persone. In una società multiculturale, è lecito che lo Stato ponga ordine in questa materia e disponga criteri e modalità perché ogni approccio etico-religioso o agnostico-ateo abbia la possibilità di scegliere senza ulteriori traumi perché la morte è una cosa seria ed è il punto più alto della vita che deve essere circondata di affetto e preservata da speculazioni di qualsiasi genere. Vivere è un diritto e a volte morire è anche un dovere. Quando verrà il mio momento, vorrei essere consapevole di varcare la soglia della vita e abbracciare «sorella nostra morte corporale» decidendone il come nel contesto di una vita vissuta nell'attesa dell'incontro con un Dio a cui ho regalato la mia libertà e la mia stessa vita. Vorrei essere in grado di offrirgli anche la mia morte. Nella pace.
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di DON ALDO ANTONELLI
Sia chiaro: non si vuole con ciò legittimare la trasformazione della tecnica in strumento di morte né benedire l'ambiguità profonda di una scienza che diventa un delirio di onnipotenza. No! La complessità del problema non deve spingere nessuno ad una apertura qualunquista e superficiale, ma non deve nemmeno imprigionare le possibili scelte nella condanna più assoluta. Giustamente, il teologo Giannino Piana scrive, a proposito di eutanasia: «Al di là delle complesse e delicate questioni di ordine politico e giuridico, che vanno affrontate con grande prudenza in una prospettiva non puramente individualista ma attenta ai risvolti sociali e culturali delle decisioni, il nodo fondamentale che occorre sciogliere riguarda l'esistenza o meno del diritto di autodeterminazione nei confronti della morte» (Rocca, n. 21, p. 37). Di fronte al radicale rifiuto del diritto di autodeterminazione da parte della Chiesa ufficiale, a partire dal presupposto che la vita è un dono di cui noi non possiamo disporre, vanno emergendo, anche in ambito cattolico, ipotesi alternative (sia pure minoritarie). Intanto già di fronte alla motivazione addotta contro ogni forma di eutanasia sorgono domande che qualcuno potrebbe vedere «impertinenti» ma che toccano il cuore della teologia. Si dice, appunto: «La vita è un dono di Dio di cui l'uomo non può pienamente disporre». Ma che dono è ciò che non viene pienamente e definitivamente dato? E che responsabilità è quella per cui si è costretti a gestire la vita per conto terzi? E questo Dio che concede con una mano e trattiene con l'altra cosa ha a che fare con quel Dio che «dona oltre ogni misura»? Sono forse due dei diversi? Si ha l'impressione, insomma, che la posizione della Chiesa ufficiale sia fondata più su preoccupazioni ideologiche che su motivazioni teologiche. Nel panorama della produzione teologica cattolica, poi, non mancano posizioni dall'atteggiamento «possibilista» nei confronti dell'eutanasia. Tali ipotesi, dopo tutto, si fondano su un principio comunque incontestato, anche se completamente rimosso nell'attuale dibattito. Si parte dal principio che per un cristiano la vita non è «il bene assoluto» cui tutto subordinare! Tanto è vero che il sacrificarla per altri alti valori (la giustizia, la fede, la castità eccetera) è ritenuto, dalla tradizione cristiana, un atto di eroismo e di santità. «Rebus sic stantibus», direbbero i filosofi, perché ritenere immorale il cessare di vivere quando la vita ha perso ogni connotato di relazionalità con gli altri, ogni traccia di autocoscienza, ogni altra dimensione che, andando oltre la pura vegetalità, dia dignità al vivere stesso? Personalmente ho avuto modo, in più di un'occasione, di trovare più dignitoso il gesto disperato di un suicida che non il pecoreccio vivacchiare di gente senza scrupoli. Il teologo tedesco Hans Küng, poi, si spinge anche oltre. Dall'affermazione che «il diritto alla vita non può essere scambiato per una coercizione a vivere» alla tesi che «essendo l'inizio della vita umana posto da Dio nelle mani della responsabilità dell'uomo, si può analogamente pensare che anche la fine della vita venga da Dio posta sotto tale responsabilità». Il problema dell'eutanasia va correlato sì alla morte, ma questa a sua volta va connessa strettamente alla nozione di «vita» che è qualcosa di molto più alto che il semplice vegetare. L'arroccamento della Chiesa in difesa della vita a prescindere da tutto, dalle condizioni oggettive e soggettive e perfino dalle persone stesse che della vita dovrebbero essere le beneficiarie, lo trovo anche antievangelico come colui che sacrifica le persone concrete ai principî astratti e che antepone il sabato all'uomo. Una morale autenticamente evangelica dovrebbe stabilire delle finalità di vita piuttosto che esporre regole di condotta. A tal proposito Gabriel Ringlet, prete belga e vicedirettore dell'Università di Lovanio scrive: «I nostri contemporanei vogliono senso, ma rifiutano il pensiero normativo. E la Chiesa fa fatica a produrre senso senza produrre norme. Ecco la straordinaria conversione che le è chiesta». Mi si permetta, infine, un'ultima osservazione sul problema dell'accanimento terapeutico. Il catechismo della Chiesa cattolica all'articolo 2278 recita: «L'interruzione di procedure mediche onerose, pericolose, straordinarie o sproporzionate ai risultati attesi può essere legittima. In tal caso si ha la rinuncia all'accanimento terapeutico. Non si vuole così procurare la morte: si accetta di non poterla impedire. Le decisioni devono essere prese dal paziente se ne ha competenza e capacità». Riguardo poi all'uso degli analgesici nell'articolo 2279 si legge: «L'uso di analgesici per alleviare le sofferenze del moribondo, anche con il rischio di abbreviare i suoi giorni, può essere moralmente conforme alla dignità umana, se la morte non è voluta né come fine né come mezzo, ma è soltanto prevista e tollerata come inevitabile». Posto così il problema sembra risolto. L'interrogativo si pone quando, considerati i grandi progressi della medicina, si tratta di distinguere il dovere di cura dall'accanimento terapeutico. Dove finisce l'uno e comincia l'altro? Qui, naturalmente, si richiede un altissimo senso di responsabilità ed una grande maturazione di coscienza. Il dramma cui oggi siamo costretti ad assistere è costituito dallo scollamento che si è prodotto tra la scienza e la coscienza, tra l'avanzamento delle possibilità tecniche e l'arretramento del sentire morale al punto tale di ritrovarci tra le mani strumenti che la coscienza non sa gestire. Le tragiche conseguenze di questo handicap morale e culturale sono sotto gli occhi di tutti. Abbiamo messo su (e la difendiamo a denti stretti) un'economia che miete milioni di vittime ogni giorno e in gran parte del mondo. Ci facciamo sostenitori di una politica che crea emarginazioni di ogni tipo. Nel contempo, però, ci precipitiamo sul capezzale del povero crocifisso di turno per farne motivo di crociate ideologiche di parte, strumentalizzando senza pudore il suo calvario. Insomma ci ritroviamo pienamente immersi in una società nella quale si inneggia alla vita mentre si programma scientificamente la morte. Qualche anno fa Giorgio Agamben, su uno dei più diffusi quotidiani italiani, ebbe a scrivere che il paradigma politico
dell'Occidente non è più la città ma il campo di concentramento. Non Atene, nemmeno quella di Eschilo, ma
Auschwitz. E non vorrei che in questa moderna Auschwitz si impiantino nuove strumentazioni che torturino le |