Putin deve negoziare

Il mio grido di libertà per la Cecenia

di ANDRÉ GLUCKSMANN

 

Qui peut le plus peut le moins (chi è capace del più è capace del meno). Il 9 maggio 2004, «giorno della Vittoria» e «giorno dell’esercito», le truppe russe sfilano e cantano la loro gloria allorché la tribuna ufficiale, considerata inviolabile, salta in aria. In questo luogo, il più protetto di Grozny, i resistenti ceceni hanno deciso di giustiziare, fra altri ufficiali, il numero uno dell’amministrazione filorussa e il comandante in capo dell’esercito d’occupazione, famosi per la loro ferocia. Sarebbe stato più facile per i resistenti praticare un terrorismo cieco e indiscriminato; è più semplice far scoppiare, a caso, auto imbottite di esplosivo come a Bagdad, lasciarsi esplodere nei bar o sugli autobus come le bombe umane del gruppo Hamas, o, alla maniera di Bin Laden, mirare a stazioni e treni pieni di viaggiatori, ad abitazioni o complessi petroliferi e centrali nucleari, ben più vulnerabili che in Occidente. Non lo fanno. E nessuno si chiede il perché?
Non è che non ci pensino. Alcuni di loro cedono talvolta alla tentazione, come provano i 700 civili presi in ostaggio in un teatro di Mosca con un’operazione spettacolare e inquietante: il viaggio Grozny-Mosca in un convoglio armato senza farsi scoprire per migliaia di chilometri e, alla fine, 131 ostaggi uccisi dalla polizia federale e last but not least , nessun terrorista sopravvissuto per testimoniare.
Non è l'audacia che manca loro: 400 anni di resistenza contro l'occupazione russa non possono che forgiare gli uomini e una pesante tradizione cantata persino dai poeti russi. Oh Puskin! Oh Lermontov! Oh Tolstoi!
Non è la disperazione che manca loro: dieci anni di un'ultima guerra a porte chiuse, dimenticata dal mondo, cancellata dalle coscienze. La capitale, città e villaggi rasi al suolo, oltre un quinto degli abitanti morti, e quanti feriti, torturati, disabili, quante vedove, quanti orfani e quanti ancora ce ne saranno? Cataste umane dilaniate dalle granate, borghi circondati dai carri armati, retate, popolazione presa in ostaggio dagli uomini in uniforme, commercio di cadaveri…
Non è la rabbia che manca loro; da perdere non hanno che le catene. La giornalista moscovita Anna Politkovskaia, che ha fatto più di cinquanta volte il viaggio a Grozny, paragona la Cecenia a un immenso campo di concentramento o al ghetto di Varsavia. All'inizio del XXI Secolo la crudeltà all'ennesima potenza è esposta in questa parte desolata del Caucaso, sulle rive della nostra Europa.
Tuttavia, gli errori dei resistenti sono, ad oggi, eccezionali; il terrorismo contro i civili, russi compresi, è debitamente condannato dalle autorità indipendentiste, in primo luogo dal presidente Maskhadov (l'unico eletto sotto controllo dell'Ocse nel 1997). Forte di una storia pluricentenaria di lotta instancabile contro l'impero zarista, comunista ed eltsin-putiniano, la resistenza cecena se la prende con le forze armate e riesce ancora a padroneggiare i suoi estremisti, capaci di lasciarsi andare ai massacri globali dell'islamismo radicale.
Io chiamo terrorismo l'attacco deliberato alle popolazioni disarmate. In Cecenia, questo orrore è prerogativa dell'esercito e della polizia russa, assecondati dalle milizie e dalle mafie collaborazioniste reclutate da Mosca. Chiamo antiterrorista la resistenza armata che si oppone a quegli apparati repressivi facendo attenzione a risparmiare i civili. L'attentato del 9 maggio 2004 è un atto di resistenza antiterrorista per eccellenza. Si prendono di mira e si uccidono il carnefice e i suoi fedeli.
Invece di festeggiare Putin e di dargli ancora una volta via libera condannando questo atto di guerra strettamente mirato, i governi democratici, fiancheggiati dalle loro opinioni pubbliche indifferenti, dovrebbero trattenere per il braccio quel pompiere piromane. La sua crociata razzista minaccia d'annientare un popolo, certo quantitativamente piccolo, ma immensamente coraggioso: un popolo che non ha mai ceduto né davanti agli zar, né al gulag, dove Stalin lo spedì al completo. Nel momento in cui una giusta indignazione si eleva contro le efferatezze americane nelle prigioni irachene, l'abbandono totale degli sventurati ceceni consegnati a una soldatesca capace di tutto è un cattivo presagio sull'avvenire del mondo.
Cosa vuole l'Occidente? Vuole rischiare il peggio? Vuole che lo scenario afgano si ripeta? Che le devastazioni fisiche, sociali e morali commesse dallo stato maggiore russo lascino il campo libero ai gangster e ai fanatici? Vuole rivivere la sequenza infernale talebani, Al Qaeda, Manhattan? Non serve volgere lo sguardo altrove. E' estremamente urgente esercitare pressioni diplomatiche, finanziarie e morali atte a incitare Putin alla prudenza, quindi al cessate il fuoco. Se le considerazioni strettamente umanitarie gli sono estranee, richiamiamolo ai suoi interessi secolari e di sicurezza. Le «rappresaglie» che annuncia non avranno alcun effetto su chi già soffre il martirio. Il 9 maggio 2004 è la prova che Putin non controlla niente. Deve negoziare con la resistenza.

(traduzione
di Daniela Maggioni)

di ANDRÉ GLUCKSMANN

 

testo integrale tratto da "Il Corriere della Sera" -  maggio 2004