"Tempo Perso - Alla ricerca di senso nel quotidiano"

Oltre Wojtyla

di Franco Garelli

Quasi nessuno si sarebbe aspettato un gesto innovativo e dirompente come quello che Benedetto XVI ha compiuto ieri pomeriggio nella visita alla Moschea Blu di Istanbul, quando ad un certo punto si è raccolto in silenzio e in preghiera davanti alla nicchia che indica la Mecca. Per tutta la giornata le agenzia di stampa avevano ribadito l'idea che non vi sarebbe stata una preghiera del Papa in questo importante tempio dell’Islam, che il protocollo non lo prevedeva, che non vi erano segni di un cambiamento di stile da parte di un Pontefice teologo molto attento alle verità della fede e alle distinzioni tra le confessioni religiose.

E invece si è verificato il grande evento, l’apertura inattesa, il «gesto» che è diventato dunque la vera icona di questo singolare viaggio pontificio in terra islamica. Il Papa cattolico, visitando la Moschea Blu, non soltanto ha reso un atto di omaggio a una grande religione storica come l’Islam. Non solo, come ogni visitatore è entrato scalzo in questo splendido tempio per ammirarne la grandezza, l’armonia orientale e il richiamo verso l’alto. Ma oltre a ciò - come ha riferito il direttore della sala stampa vaticana Padre Federico Lombardi - «davanti al mihrab, nella Moschea Blu, il papa ha sostato in meditazione e certamente ha rivolto a Dio il suo pensiero». Non c’è alcun dubbio sul significato e valore del gesto, come lo stesso Pontefice ha ammesso quando ha ringraziato «per questo momento di preghiera» il Gran Mutfì che l’accompagnava nella visita.

Con questo gesto il Papa sembra superare il solito cliché degli incontri ecumenici in cui gli esponenti di religioni diverse pregano insieme il proprio Dio; per andare invece verso il riconoscimento dell’esistenza di un Dio comune alle tre religioni monoteistiche, di un Dio dunque condiviso dai figli di Abramo, di Isacco, di Giacobbe. Si tratta certamente di un gesto che sembra proclamare l’esistenza di uno stesso Dio, che può essere pregato sia nella Basilica di San Pietro sia nelle moschee sia nelle sinagoghe di tutto il mondo. E per non lasciar dubbi all’interpretazione, si può citare la frase con cui Ratzinger sempre nel pomeriggio di ieri ha vergato il Libro d’Oro di Santa Sofia, al termine della sua visita a questa ex-basilica, ex-moschea o ora museo: «Nelle nostre diversità ci troviamo davanti alla fede del Dio unico».

Pur nella rilevanza del gesto, occorre però ricordare che non è la prima volta che un Papa visita una moschea e vi prega. L’aveva già fatto a Damasco, nella storica moschea degli ommaidi, Karol Wojtyla, un pontefice la cui capacità di gesti profetici sembrava molto più pronunciata di quella del suo successore. Tuttavia, l’innovazione di ieri di Ratzinger sembra essere per varie ragioni più impegnativa della svolta storica del Papa polacco. Anzitutto, quello siriano è un Islam molto più aperto di quello turco, che si caratterizza per una posizione dominante ma anche anomala rispetto a ciò che accade in altri Stati di religione islamica. L’anomalia dell’Islam turco è di essere ufficialmente una religione tollerata da un regime costituzionale di laicità, ma che svolge di fatto il ruolo di una religione di Stato la cui preponderanza elimina sempre più la presenza delle altre religioni.

Con la sua visita in Turchia, Ratzinger non si è sottratto al confronto con questa ambivalenza ed ha espresso nei suoi discorsi una coerente teologia del dialogo tra monoteismi, accettabile per entrambe le parti. Il gesto della preghiera è dunque solo la logica conseguenza di questo discorso. Se c’è un Dio unico e comune, comune deve essere anche la possibilità di pregarlo, pur nella diversità dell’invocazione o del nome attribuitogli. Se il regime di laicità tollera tutte le religioni, perché non permette l’espressione della religiosità da parte di uno dei suoi leader?

Praticando la preghiera in uno spazio sacro non cristiano Ratzinger afferma con un gesto fortemente simbolico l’esigenza della libertà religiosa, e lo fa in coerenza con una visione teologica del mondo, non semplicemente civile.

Il gesto eclatante di ieri rischia di far passare in secondo piano il significato ecumenico del viaggio, anche se di fatto non è così. Grande era l’attesa da parte del Patriarcato ortodosso che il Papa gli garantisse quel riconoscimento istituzionale e internazionale di cui la Chiesa ortodossa ha assolutamente bisogno per sopravvivere in una terra a netta prevalenza musulmana. Ratzinger ha soddisfatto questa attesa a due livelli: anzitutto nei suoi discorsi, valorizzando il ruolo dell’ortodossia alla realizzazione della pace, e ribadendo il primato di Costantinopoli all’interno delle Chiese ortodosse; ma soprattutto attraverso il gesto simbolico della sua preghiera in una moschea. La libertà religiosa non è solo un auspicio o un diritto astratto, ma anche uno spazio conquistabile concretamente attraverso dei gesti profetici. Come sovente accade, i segni sono più importanti dei discorsi, creano realtà, suscitano condizioni di libertà.

 testo integrale pubblicato da  "La Stampa" - 1 dicembre 2006