"Tempo Perso - Alla ricerca di senso nel quotidiano"
Il rito domenicale della
violenza di
Umberto Galimberti A
Catania hanno ucciso un poliziotto e altri ne hanno feriti. Chi? I
facinorosi da stadio. Quelli che ogni domenica in qualche città italiana,
con una cadenza ormai rituale, sono soliti provocare incidenti, guerriglie
neppure tanto simulate, con i loro passamontagna calati, perché la
violenza è codarda, coi loro fumogeni che annebbiano l´ambiente per
garantire impunità, le loro sassaiole che piovono come grandine da tutte
le parti in modo che non ti puoi difendere, con i petardi, che quando non
spaventano, feriscono, con le loro sassaiole e le loro bombe carta che,
come a Catania, uccidono. Qui i colori politici sono irrilevanti, perché
il calcio si è sempre definito, con un po´ di ipocrisia, «politicamente
neutrale», e questa neutralità apre le porte al piacere dell´eccesso,
allo sconfinamento dell´eccitazione, al rituale ripetuto della messa in
scena, alla festa del massacro, alla socievolezza dell´assassinio, al
lavoro di gruppo dei complici, alla pianificazione della crudeltà, alla
risata di scherno sul dolore della vittima, dove la freddezza del calcolo
è inscindibilmente intrecciata alla furia del sangue, la noia dello
spirito alla bestialità umana. Finito il rito della crudeltà tutti
spariscono, e solo le registrazioni delle telecamere consentono di
individuare qualcuno di quei pavidi che si nascondono nella massa per i
loro gesti di violenza. Si sentono innocenti, semplicemente perché non
sono in grado di fornire uno straccio di giustificazione ai loro gesti.
L´ignoranza e l´ottusità che li caratterizza sono, ai loro occhi,
un´attenuante. L´analfabetismo mentale, verbale ed emotivo con cui
rispondono a chi li interroga sono per loro una giustificazione. La loro
violenza è cieca perché è assurda, ed assurda perché non è neppure un
mezzo per raggiungere uno scopo. È puro scatenamento di forza che non si
sa come impiegare, e perciò si sfoga nell´anonimato di massa, senza
considerazione e senza calcolo delle conseguenze. La mancanza di scopi
rende la violenza infondata, e quindi assoluta. Ma proprio nel momento in
cui la violenza è libera da qualsiasi considerazione e da qualsiasi
scopo, e quindi da qualsiasi razionalità, la violenza diventa
completamente se stessa e si trasforma in pura e sfrenata crudeltà. Le
pene miti finora inflitte ai violenti, come ad esempio l´interdizione a
frequentare gli stadi o i patteggiamenti, abituano progressivamente a
ripetere, con la cadenza del rito, ciò che all´inizio era solo un fatto
isolato. È come aprire una chiusa. E siccome il primo gesto è rimasto,
senza particolari conseguenze, dopo che il divieto era stato violato, il
percorso è libero. Tutto diventa possibile. Al primo atto ne segue un
secondo, e poi un terzo, e infine ogni volta che c´è una partita di
calcio. E così la violenza si ritualizza. Si ritualizza secondo quel
meccanismo che Freud ci ha spiegato là dove scrive che la violenza,
latente nell´inconscio individuale di ciascuno di noi, diventa manifesta
nell´inconscio collettivo di massa, dove la responsabilità individuale
diventa difficile da identificare e l´impunità generale diventa un
salvacondotto per gesti più esecrati e senza motivazione, perché la
violenza assoluta è autosufficiente. E allora l´orgia della crudeltà si
ripete con la monotona regolarità con cui si succedono i sabati e le
domeniche di campionato. E nel rito i tifosi più scalmanati agiscono
secondo routine. E siccome la routine annoia, come i drogati, anche i
criminali da stadio hanno bisogno di dosi sempre più forti, per
allontanare la noia sempre incombente. La violenza da stadio, infatti, non
ha creatività e lascia poco spazio alla fantasia. E dal momento che è
ripetitiva e qualitativamente identica, l´unica variazione può essere
solo quantitativa, e perciò ogni volta si aumenta la dose e, con la dose,
l´euforia di un incontrollato sconfinamento di sé, di una sovranità
illimitata e di un´assoluta libertà dal peso della morale e del vincolo
sociale. Siccome la violenza da stadio è ormai rituale, bisogna
assolutamente interrompere il rito delle partite di calcio, a cui la
ritualità della violenza si aggancia. Bisogna interrompere il rito di
quegli agitatori televisivi che ogni lunedì, martedì e mercoledì, sulle
reti pubbliche e private, aizzano gli animi, scambiando la passione per il
calcio con una non troppo celata istigazione all´eccesso, perché se loro
per primi autoeliminano i freni inibitori, cosa possiamo pretendere da chi
ne dispone di molto limitati, come sono quegli analfabeti mentali ed
emotivi che frequentano gli stadi per scatenare la violenza, essendo la
violenza l´unica cosa di cui dispongono per sentirsi vivi? E perciò
infliggono morte. La caratteristica rituale della violenza da stadio rende
questa violenza diversa dall´insurrezione o dal tumulto che, avendo di
mira uno scopo, si placa quando lo scopo è raggiunto. Proprio perché è
senza scopo, non c´è altro modo di interrompere questo tipo di violenza
se non interrompendo il rito. Il rito delle domeniche di calcio a cui la
violenza da stadio si è abitualmente legata. Spiace per gli sportivi non
violenti, che peraltro già hanno qualche difficoltà a frequentare gli
stadi, ma se non vogliamo diventare complici di questa immotivata e
perciò ancora più assurda violenza, tutti dobbiamo concorrere, anche con
qualche sacrificio, a interrompere la crudeltà di questo rito. testo integrale pubblicato da "La Repubblica" - 5 febbraio 2007 |