Bullismo.
Perché
si è giunti allo scontro fisico?
di
Umberto Galimberti
Il
bullismo c’è sempre stato come eccesso dell’esuberanza giovanile.
Oggi ha passato paurosamente il limite, al punto da generare nei genitori
angoscia, negli insegnanti impotenza, e nella società nel suo complesso
disorientamento. Le ragioni vanno cercate nell’eredità del passato,
nella cultura del presente e nell’incertezza del futuro. Vediamole ad
una ad una.
A partire dal Sessantotto si è registrato un passaggio dalla "società
della disciplina" dove ci si dibatteva nel conflitto tra permesso e
proibito alla "società dell’efficienza e della performance
spinta" dove ci si dibatte tra il possibile e l’impossibile, senza
nessun riguardo e forse nessuna percezione del concetto di
"limite".
Questo passaggio s’è registrato verso la fine degli anni Sessanta,
quando la parola d’ordine dell’intero continente giovanile era
"emancipazione" all’insegna del "tutto è
possibile", per cui la famiglia era una camera a gas, la scuola una
caserma, il lavoro un’alienazione, il consumismo un aberrazione, e la
legge uno strumento di sopraffazione di cui ci si doveva liberare. La
parola d’ordine era: "vietato vietare".
Su questa cultura preparata dal Sessantotto, ma che il Sessantotto aveva
pensato in termini "sociali", si impianta, per uno strano gioco
di confluenza degli opposti, la stessa logica di impostazione americana,
giocata però a livello "individuale", dove ancora una volta
tutto è possibile, ma in termini di iniziativa, di performance spinta, di
efficienza, di successo al di là di ogni limite, anzi con il concetto di
limite spinto all’infinito, per cui oggi siamo a chiederci: qual è il
limite tra un atto di esuberanza e una vera e propria aggressione, tra un
atto di insubordinazione e il misconoscimento di ogni gerarchia, tra le
strategie di seduzione troppo spinte e l’abuso sessuale?
E questo solo per fare degli esempi che dimostrano come le frontiere della
persona e quelle tra le persone siano saltate, determinando un tale stato
d’allarme da non sapere più chi è chi. Questa è la ragione per cui i
giovani non si sentono mai sufficientemente se stessi, mai
sufficientemente colmi di identità, mai sufficientemente attivi se non
quando superano se stessi, senza essere mai se stessi, ma solo una
risposta ai modelli o alle performance che la televisione e internet a
piene mani distribuiscono, con conseguente inaridimento della vita
interiore, desertificazione della vita emozionale, insubordinazione alle
norme sociali.
Nel 1887, un anno prima di scendere nel buio della follia, Nietzsche
annunciava profeticamente «l’avvento dell’individuo sovrano
riscattato dall’eticità dei costumi». Oggi, a cento anni dalla morte
di Nietzsche, possiamo dire che l’emancipazione ha forse affrancato i
nostri giovani dai drammi del senso di colpa e dallo spirito
d’obbedienza, ma li ha innegabilmente condannati al parossismo
dell’eccesso e dell’oltrepassamento del limite. Per cui genitori e
insegnanti non sanno più come far fronte all’indolenza dei loro figli o
dei loro alunni, ai processi di demotivazione che li isolano nelle loro
stanze a stordirsi le orecchie di musica, all’escalation della violenza,
allo stordimento degli spinelli che intercalano ore di ignavia. Tutti
questi sintomi sono iscrivibili, come scrive il filosofo francese
Benasayag: «nell’oscurarsi del futuro come promessa e
nell’affacciarsi di un futuro come minaccia».
La mancanza di un futuro come promessa arresta il desiderio
nell’assoluto presente. Meglio star bene e gratificarsi oggi se il
domani è senza prospettiva. O come scrive il sociologo tedesco Falko
Brask: «Meglio esagitati ma attivi che sprofondati in un mare di
tristezza meditativa, perché se la vita è solo uno stupido scherzo,
dovremmo almeno poterci ridere sopra».
Ciò significa che nell’adolescente non si verifica più quel passaggio
naturale dalla "libido narcisistica" (che investe sull’amore
di sé) alla "libido oggettuale" (che investe sugli altri e sul
mondo). In mancanza di questo passaggio, accade che si inducano gli
adolescenti a studiare con motivazioni "utilitaristiche",
impostando un’educazione finalizzata alla sopravvivenza, dove è
implicito che "ci si salva da soli", con conseguente
affievolimento dei legami emotivi, sentimentali e sociali.
E così i nostri giovani hanno smesso di dire "noi" come lo si
diceva nel Sessantotto, l’hanno detto sempre meno dopo il crollo delle
ideologie, si sono rifugiati in quello pseudonimo di se stessi che ripete
ossessivamente "io" dalle pareti strette come quelle di un
ascensore. E di quella dimensione sociale che non ha più trovato dove
esprimersi: né in chiesa, né a scuola, né nelle sezioni di partito, né
sul posto di lavoro, è rimasto solo quel tratto primitivo o quel cascame
che è la "banda".
Solo con gli amici della banda oggi molti dei nostri ragazzi hanno
l’impressione di poter dire davvero "noi", e di riconfermarlo
in quelle pratiche di bullismo che sempre più caratterizzano i loro
comportamenti nella scuola, negli stadi, all’uscita delle discoteche. Lo
sfondo è quello della violenza sui più deboli e la pratica della
sessualità precoce ed esibita sui telefonini e su internet dove,
compiaciuti, fanno circolare le immagini delle loro imprese.
E questo perché oggi i nostri ragazzi si trovano ad avere un’emotività
carica e sovraeccitata che li sposta dove vuole a loro stessa insaputa,
senza che un briciolo di riflessione, a cui non sono stati educati, sia in
grado di raffreddare l’emozione e non confondere il desiderio con la
pratica anche violenta per soddisfarlo. L’eccesso emozionale e la
mancanza del raffreddamento riflessivo li portano a oscillare tra lo
"stordimento dell’apparato emotivo", attraverso quelle
pratiche rituali che sono le notti in discoteca o i percorsi della droga,
o il "disinteresse per tutto", messo in atto per assopire le
emozioni attraverso i percorsi dell’ignavia e della non partecipazione
che conducono all’atteggiamento opaco dell’indifferenza.
Di fronte a questi ragazzi, che inconsciamente avvertono l’incertezza
del futuro che li induce ad attardarsi in una sorta di adolescenza
infinita, resta solo da dire a genitori e professori: non interrompete mai
la comunicazione, buona o cattiva che sia, qualunque cosa i vostri figli o
i vostri studenti facciano. A interromperla ci pensano già loro e, come
di frequente ci dicono le cronache quotidiane, anche in maniera
distruttiva.
testo
integrale pubblicato da "La Repubblica" - 13 marzo 2007