Il
clima spacca anche l'Onu
di
Marina Forti
Il
Consiglio di sicurezza della Nazioni unite si è riunito ieri per trattare
della grave “minaccia alla pace internazionale” che va sotto il nome
di “cambiamento globale del clima”. E' la prima volta che il massimo
organo dell'Onu, preposto a vegliare sulla pace e la sicurezza delle
nazioni, si occupa del cambiamento del clima: e questo è in se un fatto
di rilievo. A volerlo è stata la Gran Bretagna, che ha la presidenza di
turno (oltre a essere uno dei membri permanenti del Consiglio); il motivo
è che “le implicazioni del cambiamento del clima sulla sicurezza sono
più fondamentali e più ad ampio raggio di ciascun singolo conflitto”,
ha dichiarato Margaret Beckett, ministro degli esteri del governo
britannico, alla vigilia della fatidica riunione.
L'idea di discutere la crisi del clima nel Consiglio di sicurezza però
non è piaciuta a molti, e in particolare alla Cina e alcuni paesi in via
di sviluppo, che ieri hanno lanciato un attacco frontale e combinato. “I
paesi in via di sviluppo pensano che il Consiglio di sicurezza non abbia
la competenza professionale per trattare il cambiamento del clima, né sia
la sede decisionale appropriata per una partecipazione ampia che porti a
proposte accettabili e condivise”, ha dichiarato martedì sera il vice
ambasciatore della Cina all'Onu Liu Zhenmin. Alla Cina si sono aggiunti
Pakistan e Cuba, che hanno indirizzato lettere a nome del G77 (il gruppo
dei paesi in via di sviluppo, una volta detti Non allineati, che in realtà
sono circa 130): anche loro dicono che il Consiglio di sicurezza non è il
luogo per decidere misure concrete a proposito della crisi del clima. In
questo senso si sono espressi anche Russia, Qatar, Indonesia e Sudafrica.
“A nostro modo di vedere, questa riunione è una eccezione, a cui non
seguiranno né documenti ne azioni concrete”, ha sottolineato il
viceambasciatore cinese.
Le ragioni di Londra per chiedere al Consiglio di sicurezza dei discutere
una crisi globale come il clima sono ineccepibili, in teoria. “La nostra
responsabilità in questo Consiglio e mantenere la pace e la sicurezza,
dunque anche prevenire i conflitti”, ha fatto notare Beckett: “Un
clima instabile porterà a esacerbare alcune delle cause di fondo dei
conflitti, come la pressione migratoria e la competizione per le
risorse”. Più che vero: da tempo ormai molti esperti in sicurezza
parlano delle trasformazioni del clima come di una minaccia. Solo pochi
giorni fa il Pentagono, cioè il ministero della difesa della prima
superpotenza mondiale, ha diffuso un rapporto di suoi consulenti secondo
cui fenomeni normalmente associati all'ambiente - la crescita degli
oceani, le siccità, i fenomeni meteorologici estremi - sono anche una
minaccia alla sicurezza nazionale perché porteranno a migrazioni su larga
scala, tensioni di frontiera, conflitti per il cibo e l'acqua o per le
fonti d'energia...
Anche le obiezioni però sono fondate. Il principale argomento di paesi
come la Cina e gli altri è che il Consiglio di sicurezza “invade”
sempre di più le prerogative di altri corpi democratici, come l'Assemblea
generale dell'Onu (di cui fanno parte 192 paesi) - per non parlare delle
varie agenzie e programmi delle Nazioni unite: la Convenzione sul clima
(che ha prodotto un trattato internazionale, quello di Kyoto, a cui gli
Stati uniti non aderiscono), quella sulla biodiversità, o sulla
desertificazione. L'oggetto del contendere dunque sono poteri e
prerogative del Consiglio di sicurezza, o (anche se nessuno lo dice in
questi termini) il sospetto di una sorta di “neocolonialismo”
strisciante da parte di potenze occidentali - questa volta sotto la
bandiera della crisi ambientale. La questione del clima del resto continua
a dividere anche le potenze occidentali: gli Stati uniti non aderiscono al
Protocollo di Kyoto, che è un trattato internazionale vincolante, mentre
l'Unione europea fa la parte dei paladini del clima. La Russia ripete, con
il suo ambasciatore all'Onu Vitaly Churkin, che bisogna evitare “il
pamico e le drammatizzazioni eccessive”.
testo
integrale pubblicato da "Il Manifesto" - 19 aprile 2007