"Tempo Perso - Alla ricerca di senso nel quotidiano"

PASQUA 2007
Resurrezione per la giustizia

nella città di mafiosi e violenti

di Nino Fasullo

Perché lo uccisero? Per quali colpi lo condannarono? «Che male ha fatto?», chiese lo stesso Pilato alla piazza che ne reclamava la crocifissione. La risposta deve essere perentoria: per il Vangelo. 

 La colpa di Gesù (e di Dio) fu, e continua a essere, il Vangelo. Se questo motivo è, tutto sommato, chiaro, come risulta sia dai racconti evangelici sia dalla riflessione teologica in corso da duemila anni, non si può dire però che sia pienamente compreso una volta per tutte. Esige, infatti, che si torni su di esso lucidamente per essere sempre ricompreso. Perché vi siamo tutti direttamente coinvolti. E per più di una ragione. Anzitutto per la morte in sé: il fatto più tremendo con cui ogni vivente, presto o tardi, deve fare i conti. È la morte la vera nemica dell'uomo, quella che ignora la pietà, la giustizia, la verità e soprattutto l'amore. Essa è l'insulto più umiliante che si possa subire. Forse non esistono espressioni adeguate a esprimere l'offesa e lo sconcerto che causa la morte. 

Perciò l'appuntamento del Venerdì santo non è solo una preziosa occasione liturgica per rappresentare drammaticamente la morte di Gesù, primo pilastro della fede cristiana. Costituisce piuttosto un'opportunità, per gli individui e le comunità di riflettere sull'evento più scandaloso che la vita conosca (la morte, appunto), atto finale, ma non singolare, di tutto ciò che l'umanità sperimenta sotto il segno della sofferenza e della pena. Gli uomini, infatti, insieme con la morte sopportano una serie infinita di stigmi che si incidono sulla loro carne e sul loro spirito. 

La solitudine di Gesù, ad esempio, legata alla radicalità delle scelte compiute (troppo innovative e ardite), deve essere considerata uno di essi. Proclamare la libertà, l'uguaglianza, la giustizia in favore dei poveri, di uomini e di donne considerati dei nessuno, dei nulla, degli scarti, e perciò tenuti ai margini della società e fuori dal tempio, non poteva essere senza conseguenze. Gesù, le sue parole e i suoi gesti dovettero apparire non solo folli ma anche bene in grado di scardinare il sistema religioso e politico della nazione. Discorsi come «Beati i poveri», la storia del figlio prodigo, l'episodio dell'adultera non condannata e quello della prostituta in casa di Simone il fariseo perdonata «perché ha molto amato», e moltissimi altri episodi di cui sono pieni i Vangeli, costituirono un complesso di fatti e insegnamenti tali da spingere l'establishrnent di Gerusalemme a organizzare, senza troppi indugi, l'eliminazione di Gesù. Contro di lui, infatti, si formò presto un’occhiuta opposizione che da un lato determinò l'isolamento del maestro, dall'altro condusse alle conseguenze estreme del Venerdì santo. 

Pertanto, per misurare in qualche modo il dramma della solitudine di Gesù, non basta tenere presente l' opposizione, per così dire, istituzionale del tempio. A essa deve aggiungersi l'incomprensione di coloro che lo seguivano con sincera simpatia. La stessa sua madre stenta, relativamente, a capire il figlio. Dei discepoli meglio non parlare: nei loro rapporti col maestro non mancano i malintesi, gli abbandoni, lo stesso tradimento. Il deserto, nel quale trascorse i mitici quaranta giorni, può (deve) essere ritenuto il luogo o la cornice fissa entro la quale si svolse l'intera sua vita nella tentazione, ovvero nell'incomprensione, nel dubbio, nella fatica di dover decidere tutto da solo e di tenere testa al potere del tempio e alle insidie che sacerdoti, scribi e farisei uniti gli tendevano in modo ipocrita e sleale.

Gesù solo. Assediato. Senza vera solidarietà, a parte quella di coloro che non contano nulla. Rinnegato e abbandonato perfino da Dio (i discepoli si misero subito opportunamente in salvo) nel momento più critico del dramma: quando fu appeso al legno della vergogna come un volgare, pericoloso delinquente. Non è facile immaginare una condizione più drammatica di quella di Gesù. Ma difficile non è impossibile: assomiglia troppo, infatti, e si confonde con la solitudine, l'angoscia, la morte che lacerano e offendono, oggi come in passato, la vita non solo dei poveri e dei non-uomini. Si pensi al dolore di Auschwitz o anche a quello, siciliano, causato dal fenomeno mafioso. 

Non a caso l'umanità dolorante si specchia volentieri nella sofferenza di Gesù, flagellato, coronato di spine, coperto di sangue e crocifisso. La dolcissima pietà credente ha sempre tenuto compagnia a Gesù in croce. Così, tra molti altri, quella di Jacopone da Todi, Giovanni della Croce, Alfonso de' Liguori, che dedicarono larga parte delle loro riflessioni alla passione di Gesù

Eppure non sono la solitudine, i flagelli, i chiodi, il Golgota a fare singolare la morte di Gesù. Forse non varrebbe la pena occuparsi del suo caso se non presentasse un'eccezione del tutto particolare - così asserisce la fede - che esige la più attenta considerazione. L'eccezione di Gesù è la sua resurrezione. Il fatto, cioè, che a motivo della sua perfetta «obbedienza fino alla morte e alla morte di croce», Dio gli ha restituito la vita super­esaltandolo e costituendolo Signore al di sopra di ogni creatura. Così l'apostolo Paolo nella  Lettera ai Filippesi.

In questo modo il crocifisso dei sacerdoti, degli scribi e dei farisei ha abbattuto la morte e messo fine al suo dominio sui viventi. La morte e la resurrezione di Gesù sono diventati causa di salvezza nella questione più decisiva: la vita. Questo è il fondamento sul quale si regge l'intera fede cristiana: il fatto che Gesù ha vinto la morte. Con un passaggio essenziale e preciso: Gesù è risorto per conto dell'umanità. Egli è solo il primo di coloro (tutti) che avranno restituita la vita. La gratitudine, la festa, la gioia che invadono il cuore credente che incontra il Signore risorto sono profonde e inconfondibili. Bisogna partecipare alla liturgia della notte del Sabato per sentirne la suggestione. Illumina quell'intimo sapere che fa (dovrebbe fare) del cristiano un figlio della luce, un uomo libero e solidale con i poveri del pianeta, un operatore di giustizia di pace nella città. 

Oggi, tuttavia, il senso profondo della Pasqua non è molto chiaro tra i cristiani. La resurrezione, in particolare, è il fatto che meno convince e lascia increduli: un apostolo Tommaso è nascosto in ogni uomo. Forse perché crederci è troppo esaltante. Ma forse, di più, perché, nei suoi contenuti più concreti, è una Verità troppo distante dalla prassi cristiana. Perciò, per Pasqua, sarebbe molto opportuno porsi qualche domanda sul senso che può avere la resurrezione del crocifisso in una città, una cultura, una politica in cui l'ingiustizia, la violenza, lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo sono prassi piuttosto diffusa. Potrebbero agitare le coscienze perdute tra le nebbie di un cristianesimo sempre meno riconoscibile. 

Testo integrale tratto da “La Repubblica - Palermo ” – 08.04.2007