La chiesa senza pastori

di FILIPPO DI GIACOMO

Nessuno deve essere considerato colpevole prima di una sentenza passata in giudicato, insegna la nostra Costituzione. E le vicende che coinvolgono sacerdoti a Terni e a Torino sembrano fatte per ricordarci, come ogni volta che le forche mediatiche iniziano di nuovo a penzolare dai teleschermi, che è per vera profezia sociale che la legge ci impone di chiamare «giustizia» solo gli atti e le sentenze dei giudici. E ai magistrati bisogna sempre affidarsi, come ha detto don Luigi Ciotti, per vedere rispettati i diritti di tutte le parti in causa, degli accusati e degli accusatori.

Sui giudici di Terni che lo hanno interrogato, don Pierino Gelmini ha fatto correre il sospetto di anticlericalismo. E sui magistrati che in molti Paesi hanno dovuto dirimere sui guasti esistenziali causati da un gruppuscolo di pedofili con la tonaca, lasciati liberi di infierire per anni e a volte persino cooptati per alte responsabilità, ha lanciato l’accusa di congrega radical-massonica-filoebraica. Su questa esilarante interpretazione della libertà di parola e della libertà della Chiesa, il cattolico normale, dopo aver smaltito la sua sacrosanta rabbia, ha cristianamente riflettuto. Partendo da un sano esame di coscienza, così come insegna il catechismo. Da questa pia pratica, nascono diverse domande.

La prima: a quale Chiesa appartengono i preti che in questi giorni si sono dati persino dell’imbecille sui giornali? Nella struttura dell’agire ecclesiale, un battezzato, anche quando è un ministro ordinato, interagisce con una comunità, ha una guida, un pastore, qualcuno che lo consiglia e lo indirizza. E, se necessario, gli fa anche da superiore. La Chiesa «fai da te» non esiste. Erano tutti impegnati altrove i superiori dei sacerdoti che urlano e piangono, in questi giorni, con i giornalisti? Don Gelmini, salvo errore, è stato ordinato sacerdote nella Chiesa cattolica latina. Da anni, lo vediamo con gli abiti del corepiscopo (l’equivalente del nostro monsignore) della Chiesa greco-melchita. Ama apparire sull’altare, per celebrare la messa secondo il rito latino, con la corona, il bastone e la croce pettorale. Spesso, sull’altare, vescovi e cardinali gli fanno da accompagnatori. Nessuno di questi sa che un prete cattolico-latino non può essere un dignitario di un altro rito? Quando è in clergymen, ha la croce pettorale come i nostri vescovi latini: tra i tanti prelati suoi amici, nessuno sa che il Codice di diritto canonico proibisce, e punisce, il chierico che esibisce i segni di una dignità ecclesiastica che non possiede?

Un suo assistente, battezzato cattolico latino, ha persino annunciato che sta per essere ordinato diacono secondo il rito greco-melchita, probabilmente sotto la guida di don Gelmini: tra i tanti frequentatori delle Comunità Incontro, nessun canonista ha mai avuto modo di dirgli che questo non è permesso dal Codice di diritto canonico? Essendo sacerdote, e qualunque sia lo status giuridico delle sue comunità, ogni opera fondata da don Gelmini è sottoposta al controllo dell’autorità ecclesiastica locale. Oltretutto, senza la sua autorizzazione don Gelmini non potrebbe celebrare né messa né sacramenti all’interno dei suoi centri.

Quanti parroci, quanti vescovi hanno esercitato il loro diritto-dovere di visita? E se hanno visitate le sue case, trovandovi solo cose ottime, perché ora tacciono? Nella stanza di uno degli indagati di Torino sono stati trovati dei fogli di carta che dimostrano che il taglieggio subito durava da mesi e mesi: un calvario esistenziale facilmente immaginabile. Vissuto in disperata, e spaventata, solitudine.

Mentre questo accadeva, nessun confratello aveva occhi per vedere, orecchie per sentire e un po’ di fiato, mettendosi a fianco di chi era in difficoltà, per lanciare almeno due improperi contro il ricattatore? Mentre le risposte tardano, al cattolico serio non resta che tifare forte per la partita giocata da Benedetto XVI e dai pochi che, a quanto si dice, lo stanno sinceramente aiutando. Con fatica, papa Ratzinger sta riuscendo a far giungere all’episcopato «umili lavoratori nella vigna del Signore», secondo la visione pastorale da lui desiderata per l’episcopato cattolico. Ancora un paio d’anni, e anche l’Italia riavrà pastori costruttori di comunità. Nel frattempo, speriamo che la nottata non sia troppo buia.

 

 testo integrale tratto da "La Stampa" - 11 agosto 2007