Nel nome del
padre e del padrino
di Alfio Caruso
Nella
filippica dell’Osservatore Romano contro Baudo, autore di
condivisibili rilievi sull'indifferenza di fondo della Chiesa nei
confronti di quanto accaduto venerdì sera a Catania, stupisce l'invito
al presentatore di prendersi un anno di riposo dalla tv. Una richiesta
sproporzionata e senza precedenti anche quando sarebbe servita. Proviamo
a immaginare, infatti, quali straordinari effetti si sarebbero
riverberati sulla vita pubblica in Italia, e in Sicilia, se l'organo
ufficiale del Vaticano avesse rivolto lo stesso invito - di ritirarsi
cioè dal proprio lavoro, e sarebbe bastato un mese, non un anno - a
tutti i parroci, i monsignori e i vescovi scoperti a trescare con la
mafia.
Tre sacerdoti alle nozze in latitanza di Riina
Nella sua universale missione la Chiesa ha fatto rientrare il vescovo di
Agrigento, Giovan Battista Peruzzo, che nel decennio in cui la sua
provincia stabiliva il triste primato dei delitti politici ('46-'56) si
faceva proteggere dai picciotti, incurante persino delle vibrate
proteste dei carabinieri. Né ha mai rivelato l'identità dei tre
sacerdoti ben felici nel '74 di celebrare le nozze in latitanza di Totò
Riina con Ninetta Bagarella. D'altronde tre anni prima monsignor
Cantarinicchia aveva lanciato una raccolta di firme in favore della
Bagarella, prima donna a esser processata per mafia. Ai giornalisti
spiegò che «i Bagarella sono una famiglia esemplare, bersagliata dalla
malasorte e dalla legge persecutrice della professoressa sol perché è
fidanzata con Salvatore Riina. Figuratevi che mamma Bagarella viene ogni
mattina a messa e fa pure la comunione». All'epoca la famiglia
esemplare era così composta: papà Salvatore e un figlio, Giuseppe, al
confino per mafia; un altro figlio, Calogero, ufficialmente latitante,
in realtà ammazzato durante la battaglia di viale Lazio a Palermo nel
1967; un terzo figlio, Leoluca, già aggregato tra i fedelissimi di
Riina.
Nonostante Wojtyla, Pappalardo e don Puglisi
Malgrado la veemente ammonizione di Wojtyla ai mafiosi nella
Valle dei Templi, malgrado l'apostolato del cardinale Pappalardo,
malgrado il martirio di don Puglisi, la Chiesa ha avallato che don
Frittitta provasse più simpatia per i picciotti che per i
rappresentanti delle istituzioni; che l'arciprete incaricato di
celebrare il funerale di Francesco Messina Denaro, morto da latitante,
intimasse a poliziotti e magistrati di non osare giudicare le azioni del
defunto, compito spettante solo al Padreterno; che nel 2002 il parroco
di Corleone negasse che la cattura di Provenzano avrebbe rappresentato
un bel giorno per la sua comunità essendo ben altri i problemi. Insomma
il povero e innocuo don Vitaliano Della Sala, folcloristico sostenitore
dei No global, è stato sospeso per molto meno.
E per ritornare a Catania, da dove tutto è partito, mai alcun
arcivescovo o monsignore ha intimato ai tanti mafiosi di togliere la
veste bianca dei devoti di Sant'Agata. E perfino nel sermone del
prossimo arcivescovo di Palermo, Romeo, durante i funerali
dell'ispettore Raciti, traspariva l'intento di occuparsi più di Agata
che dell'ultimo eroe del dovere vittima della mafia. È inutile girarci
intorno: un agguato di quelle proporzioni lo si carica sulle spalle
degli sprovveduti ragazzotti, ma non lo si organizza senza il consenso
delle cosche. Eppure la Chiesa così drastica e perentoria con Baudo lo
è molto meno con i suoi incerti pastori.