"Tempo Perso - Alla ricerca di senso nel quotidiano"

di Enzo Bianchi

Il deserto della barbarie pare avanzare inesorabile: si disprezzano le regole fissate per la convivenza civile, ogni confronto diviene scontro, il dialogo è semplice genere letterario per continuare a disprezzare l’altro, le divergenze di opinioni formano steccati insormontabili e intanto si invocano a parole radici religiose o ideologiche senza chiedersi quanto profonde o vitali o ormai appassite esse siano, senza interrogarsi su quale linfa stiano trasmettendo all’albero, quali frutti stiano alimentando.

Così, in questa era di post-cristianità accade che le grandi feste cristiane continuino a trovarsi integrate nel tessuto e nelle abitudini sociali, ma svuotate della loro valenza specifica. Così il Natale viene trasformato in una sagra del regalo e del festoso preludio al capodanno, in cui gli elementi religiosi fanno qualche timida comparsa con un generico invito a essere “più buoni” o con un rimando a una non meglio definita “pace sulla terra”. Per la Pasqua le cose vanno ancora peggio dal punto di vista del messaggio cristiano: un po’ di dolciumi a forma di uova o di colomba, una scampagnata fuori porta, qualche allusione alla rinascita della primavera con magari la prima corsa verso le spiagge... Ma l’annuncio, la “buona notizia” della risurrezione di Gesù Cristo da morte non dovrebbe essere il cuore del vangelo e, quindi, della testimonianza cristiana? In che modo farlo risuonare oggi come credibile, capace di trasmettere qualcosa di vitale anche per gli uomini e le donne che non lo assumono come proprio?

“Credo la resurrezione della carne e la vita eterna” recita la professione di fede cristiana che fino a poco tempo fa tutti conoscevano a memoria, almeno in Italia. Che ne hanno fatto i cristiani di questa affermazione centrale della loro fede? Va riconosciuto che questa “materialità” dell’annuncio evangelico ha conosciuto ostacoli e ridimensionamenti fin dal suo primo confrontarsi con la mentalità ellenistica ed è stata rapidamente convertita in una “immortalità dell’anima”, più agevole da contrapporre alla caducità del corpo fisico, brutale realtà con la quale era ed è impossibile non fare i conti. Così per secoli anche all’interno della chiesa e della teologia cristiana si è elaborata una dottrina debitrice del dualismo platonico tra anima e corpo e dimentica dell’intreccio tipicamente semitico tra mente, corpo e soffio vitale. Ai giorni nostri, poi, si sono fatte strada da un lato una specie di idolatria del corpo, una pretesa di renderlo sempre bello e incorruttibile, anche a costo di espropriarlo dal suo intimo legame con l’insieme della persona, e d’altro lato, una sorta di indifferentismo tra risurrezione e reincarnazione, una nebulosa indefinita in cui sentimenti, stati d’animo, speranze, illusioni, sensazioni navigano in un oceano di benessere cosmico, una miscela di “spirituale” che provocherebbe effetti benefici anche sul corpo. Ed è scomparsa la “differenza cristiana”, vittima di una fuga – anche di molti cristiani – verso una religiosità à la carte, meno impegnativa e più soddisfacente per i mutevoli desideri personali.

Mi pare invece che la festa della Pasqua, colta soprattutto nell’unità teologica dell’intero triduo pasquale – passione, morte e resurrezione di Gesù di Nazaret, riconosciuto dai discepoli come Signore, Messia e Figlio di Dio – riporti ogni cristiano alla concretezza quotidiana della sua adesione non a un “corpo” dottrinale ma al corpo di Cristo e al corpo della chiesa e, nel contempo, proponga a chi cristiano non è, una diversa e liberante lettura del nostro rapporto con il proprio e l’altrui corpo. Quando i cristiani proclamano la propria fede nella “risurrezione della carne”, riaffermano che il nostro essere uomini e donne in carne ed ossa è stato assunto una volta per tutte nella dimensione divina dall’incarnazione del Figlio di Dio e che, quindi, una promessa di riscatto e liberazione attende anche i nostri poveri corpi. E’ attraverso il corpo che noi viviamo e comunichiamo, soffriamo e gioiamo, percepiamo gli effetti del bene e del male, ci prendiamo cura o trascuriamo l’altro, lo consoliamo o l’offendiamo. Allora comunicare al corpo e al sangue del Signore morto e risorto e formare così un unico corpo con i fratelli non è per i cristiani un rito esoterico esclusivo, ma un’esperienza inclusiva, vissuta in un certo senso in nome e a beneficio di tutti. E’ l’annuncio di una speranza universale: i nostri corpi non sono destinati alla corruzione ma a una pienezza di vita, non li attende una rianimazione di cadavere ma un disvelamento del loro essere finalizzati alla comunione e all’amore, cioè alla pienezza di una vita degna di tal nome.

Ovunque dei cristiani confessano Gesù Cristo a loro salvezza sale nel giorno di Pasqua un canto di gioia perché quel Risorto – che nel corpo ha sofferto la passione, la morte e la discesa nella tomba e nel regno della non-vita – è primizia di tutta l’umanità, perché la vita regna definitivamente, perché per ogni creatura in quell’alba pasquale di duemila anni fa si è dischiuso un processo segreto ma reale di redenzione, di trasfigurazione. Le sofferenze, le ferite, le offese recate o subite dai nostri corpi, fino alla più estrema e insopportabile, la morte, sono una dominante di questo mondo, una vera potenza efficace. Ma nel mattino del primo giorno della settimana ebraica, risuscitando da morte quel Gesù di Nazaret che non aveva esitato a offrire il proprio corpo per la vita degli amici, Dio ha affermato che proprio quell’uomo era il suo Figlio amato e lo ha mostrato vincitore della morte. Sì, Gesù ha trionfato al di là della morte e con la risurrezione non ha sconfitto la propria morte, ma la Morte: “Con la morte ha vinto la Morte”, canta oggi la liturgia!

L’umanità intera, anche quanti non conoscono né Dio né il suo disegno, ospitano in cuore il senso dell’eternità, si chiedono “cosa sperare?”, anelano a che nulla di quanto hanno tanto amato in questa esistenza vada perduto. Essi attendono, cercano a fatica, come a tentoni, a volte per strade tortuose, la buona notizia della comunione più grande delle divisioni, della vita più forte della morte, dell’amore più forte dell’odio e della violenza. Il mondo attende ancora oggi cristiani che sappiano narrare questa buona notizia, che sappiano svelare con la loro vita che “il solo e vero peccato è rimanere insensibili alla risurrezione”, come esclamava Isacco il Siro, che sappiano cantare a tutti e per tutti: “Non temete, non abbiate paura, non provate angoscia! Cristo è risorto e vi precede!”. Sì, Pasqua è annuncio, anche contro ogni malvagia evidenza, che non vi è più alcuna situazione umana senza sbocco, condannata alla tenebre, che anche i nostri corpi non sono destinati alla corruzione per sempre: la risurrezione del Signore spinge il cristiano a render conto della propria speranza nella salvezza universale, a pregare affrettando la venuta del Regno, ad attendere il giorno radioso in cui le lacrime di tutti i sofferenti saranno asciugate e gli stessi corpi “mortali” saranno trasfigurati a immagine del corpo del Risorto e vivente. Non la chiesa soltanto, ma l’umanità tutta, la creazione intera è destinataria delle energie che sgorgano incessantemente da quel sepolcro vuoto: poiché il Signore è risorto ci è possibile credere “la resurrezione della carne e la vita eterna”. E’ questa loro salda convinzione che i cristiani vogliono offrire agli uomini tutti in questo giorno di Pasqua.

 

testo integrale tratto da "LA STAMPA" -  16 aprile 2006

 

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