"Tempo Perso - Alla ricerca di senso nel quotidiano"

 FONTE: "La Repubblica del 06.09.2006

"Dieci anni per salvare la Terra"
Londra, l´allarme degli scienziati: "Ridurre subito l´effetto serra"

Londra - Intorno all´anno 2025 al Polo Nord farà così caldo che si potrà andare in barca a vela, la foresta delle Amazzoni sarà diventata un deserto, la Siberia sarà l´immondezzaio del mondo e la peste bubbonica tornerà a infuriare sull´Europa. Non tutti prendono sul serio le previsioni di James Lovelock, uno scienziato inglese già famoso per le scoperte sui danni subiti dalla barriera dell´ozono e per altre invenzioni: colleghi altrettanto autorevoli dicono che le sue sono esagerate profezie apocalittiche. Eppure l´ultimo best seller appena pubblicato da Lovelock, a cui il Wall Street Journal di ieri dedicava una pagina intera, The revenge of Gaia: earth´s climate crisis and the fate of humanity (La vendetta di Gaia: la crisi del clima della terra e il destino dell´umanità), giunge a conclusioni assai simili a quelle annunciate in questi giorni a Norwich, nel Regno Unito, dalla British Association of Scientists in occasione dell´annuale Festival della Scienza. Cioè che il cambiamento climatico della terra, il surriscaldamento comunemente chiamato «effetto serra», raggiungerà un punto irreversibile entro vent´anni, e che a noi terrestri restano solamente una decina d´anni per adottare drastiche misure in grado di invertire la tendenza, prima che sia troppo tardi. In un rapporto presentato al congresso, per esempio, gli studiosi del British Antartic Survey dell´università di Cambridge hanno scandagliato gli strati più profondi della calotta glaciale alla ricerca di bolle d´aria che potessero fornire informazioni sulla trasformazione dell´atmosfera. Dalle loro analisi hanno scoperto che i livelli di anidride carbonica e di metano nell´atmosfera non sono mai stati così alti da 800 mila anni, e che crescono ad una velocità senza precedenti. L´opinione dominante, perlomeno al Festival della Scienza, è che siamo perciò giunti alla vigilia di catastrofici cambiamenti climatici. Come avverte, nel suo libro, il professor Lovelock: «Entro un decennio o due, la Terra sarà più calda di quanto lo sia mai stata negli ultimi 5 milioni di anni, all´epoca in cui nell´oceano Atlantico nuotavano i coccodrilli. Duecento milioni di persone migreranno a nord, più vicino al Polo Nord, per sopravvivere. E anche se adottassimo da subito iniziative straordinarie per frenare questo mutamento, al mondo saranno necessari mille anni per riprendersi». Per di più, ammonisce un altro studioso al convegno di Norwich, è improbabile che l´uomo adotti misure «straordinarie» in risposta all´effetto serra, almeno fino a quando non accadrà qualche catastrofe degna di un film di fantascienza, tipo l´allagamento e il congelamento di una megalopoli come New York in The day after tomorrow. Dice il professor Peter Smith dell´università di Nottingham: «L´apatia dei governi cambierà soltanto in presenza di un grande evento, come sarebbe l´alluvione del Tamigi e l´inondazione di Londra, che potrebbe accadere in qualsiasi momento provocando 300 miliardi di euro di danni. Solo allora i politici si muoverebbero, ed è una doppia tragedia dovere aspettare una catastrofe per salvarci da quella che già incombe su di noi».

 

 

 

La vicenda di Hina, la giovane pakistana uccisa dai suoi stessi familiari per aver intrapreso una vita libera in un paese libero, ci ricorda tragicamente come non possiamo mai dare per acquisite una volta per tutte e da tutti le conquiste raggiunte nel campo dei diritti umani: non dobbiamo dimenticare, per esempio, che anche nel nostro paese le attenuanti per il “delitto d’onore” sono state abolite solo venticinque anni fa. D’altro lato ci interpella su cosa significhi integrazione, assimilazione, accoglienza, rispetto di chi è “altro” per cultura, tradizioni, religione all’interno di una convivenza civile e laica come quella che ci prefiggiamo di vivere in Europa e in Italia. Accoglienza e integrazione infatti non sono date solo da un posto di lavoro più o meno precario, ma includono la possibilità di un alloggio decente, di percorsi educativi per i bambini, socioculturali per gli adulti tali da permettere anche a questi “altri” di contribuire all’edificazione della polis comune. Altrimenti saranno passati dal loro inferno a un nuovo inferno, separato dalle nostre case da un muro di impenetrabilità quando non addirittura di cemento.

Ora, ogni società ha leggi, usanze, tradizioni proprie, ma questo non significa affatto che qualsiasi comportamento sia lecito per il solo fatto che tale viene considerato in un determinato ambito culturale: vi è infatti anche un patrimonio universale che si è venuto configurando nel corso dei secoli e che deve costituire un baluardo intangibile di civiltà da salvaguardare attivamente contro chi, all’interno di quella società, non sa o non vuole attingervi. A questo patrimonio di principi “non negoziabili” deve attenersi chiunque entri a far parte di una determinata convivenza civile nella nostra epoca segnata più di altre dall’incontro tra mondi un tempo non comunicanti.

In questo senso vi è un aspetto importante, eppure poco approfondito, nel recente disegno di legge che riforma tempi e modalità per l’acquisizione della cittadinanza italiana: il passaggio dallo ius sanguinis allo ius soli. Finora, in linea con un’usanza impostasi in Europa con il sorgere e l’affermarsi degli stati nazionali, si diventava cittadini italiani alla nascita se si aveva un genitore italiano: prevaleva cioè il “diritto del sangue”. Ora si fa strada, pur con alcune limitazioni, il “diritto del suolo” – in vigore da tempo nel mondo anglosassone, ma risalente addirittura al diritto romano – in virtù del quale diventa cittadino italiano chi nasce sul “suolo” italiano.

Più che a prendere atto di una mutazione sociologica da paese d’emigrazione a paese d’immigrazione, questo cambiamento ci porta a riflettere su cosa oggi determina una “eredità sociale”: il sangue, il patrimonio genetico, l’appartenenza a una determinata famiglia, oppure il suolo, la condivisione di un territorio fisico e uno spazio legislativo? Cosa ci consente di dire: “da noi questo non si fa”? Cosa definisce il “da noi”? L’abitudine ci porterebbe a rispondere appellandoci solamente alle “radici” cristiane, anche se magari nel frattempo le abbiamo lasciate seccare: tesoro prezioso, non solo per i credenti ma per l’umanità intera. Ma non possiamo fermarci qui: nelle nostre terre di antica cristianità,  l’incarnarsi del messaggio evangelico si è intrecciato, sovente anche in modo fecondo, con le ricchezze di altre culture e religioni fino a dar corpo a un insieme di convinzioni irrinunciabili esplicitate nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e, in Italia, nei principi fondamentali della Costituzione: è questo il “suolo” comune che ci è chiesto di difendere da perverse interpretazioni dei vincoli di sangue e di religione. La povera Hina non è forse stata una vittima del “sangue” tribale? E non avrebbe dovuto trovare protezione sul “suolo” di una legge condivisa, nell’humus vitale dei diritti dell’uomo che nessun codice ancestrale può e deve violare?

 testo integrale pubblicato da  "Famiglia Cristiana" -  27 agosto 2006