"Tempo Perso - Alla ricerca di senso nel quotidiano"

Il rispetto dell’uomo è assoluto

di Enzo Bianchi

Un uomo “abbandonato in Dio”, un musulmano afgano conosce Cristo prestando assistenza a suoi compatrioti profughi in Pakistan e si converte al cristianesimo. Quindici anni dopo, tornato nel suo paese, viene accusato di aver rinnegato l’islam e rischia la condanna a morte in quanto si rifiuta di abiurare la fede cristiana liberamente abbracciata. Le notizie sull’Afghanistan erano quasi scomparse dai nostri media: rovesciato il regime dei talebani, il paese non era stato normalizzato, non si stava avviando verso strutture e istituzioni democratiche, verso il reinserimento nel consesso delle nazioni civili che rispettano i diritti umani, e gli “stati canaglia” non erano diventati altri? Ora giunge questa notizia agghiacciante, che ci ricorda brutalmente come ci siano ancora luoghi in cui la dignità dell’essere umano è calpestata, in cui l’intolleranza religiosa miete vittime, in cui i cristiani conoscono il perdurare della stagione del martirio. E sappiamo che ci sono luoghi da cui notizie come questa non trapelano nemmeno, realtà in cui non si aspetta neanche la sentenza di un tribunale per mettere a morte chi testimonia una vita altra.

Ed è ai luminosi esempi dei martiri nei primi secoli del cristianesimo che va il nostro pensiero: come allora, alcuni non cristiani scoprono il volto di Gesù nel fratello bisognoso del loro aiuto, nell’uomo che si china sull’uomo sofferente, e da quel volto di giusto rifiutato da un mondo ingiusto non vogliono più staccarsi. Così, semplicemente, attratti in un flusso di amore più forte dell’odio, pronti a porre fine alla violenza assumendola su di sé senza moltiplicarla in una catena infinita di ritorsioni.  E’ anche agli esempi dei testimoni a noi contemporanei che va la nostra mente: a don Andrea Santoro in Turchia, al vescovo John Joseph di Faisalabad in Pakistan che non resse al peso che portavano i suoi fedeli e lanciò la sua vita come ultimo grido di protesta, ai religiosi e alle religiose che in Algeria accolsero a cuore aperto nella pace quei fratelli in umanità che li uccidevano senza sapere quello che facevano. “La mia morte – scriveva nel testamento fr. Christian, il monaco trappista che finirà rapito e poi sgozzato assieme a sei suoi confratelli – sembrerà dar ragione a quelli che mi hanno rapidamente trattato da ingenuo o da idealista: ‘Dica adesso quel che ne pensa!’. Ma costoro devono sapere che sarà finalmente liberata la mia più lancinante curiosità. Ecco che potrò, se piace a Dio, immergere il mio sguardo in quello del Padre, per contemplare con lui i suoi figli dell’islam come lui li vede, totalmente illuminati dalla gloria di Cristo, frutti della sua passione, investiti del dono dello Spirito”.

Anche da noi ci sarà chi riprenderà a invocare la reciprocità, a pretendere che il nostro comportamento verso i musulmani si adegui a quello che alcuni paesi adottano nei confronti dei credenti di altre fedi, ma il rispetto della dignità dell’uomo deve essere assoluto, non subordinato al fatto che anche altri lo osservino. Mettere in atto tutte le forme civili, diplomatiche, economiche e giuridiche per forzare quei regimi che ancora non applicano la carta dei diritti dell’uomo a farlo, è compito alto della politica, ma non è rivendicazione delle comunità cristiane in quanto tali, non è istanza indispensabile per poter vivere e testimoniare il vangelo. Non sorprende, allora, che in questi cristiani vittime della violenza non vi sia nessun desiderio di vendetta, nessun appello alla rivolta armata e neanche nessuna fuga o cedimento di comodo: solo la ferma consapevolezza di aver trovato in Cristo qualcosa per cui vivere, abbastanza grande per cui morire.

Non sappiamo e forse non sapremo mai cosa ha risposto quest’uomo di 41 anni, Abdul Rahman, ai suoi accusatori; non sappiamo se l’indignazione e la protesta internazionale riusciranno a fermare l’iter processuale e la condanna capitale. Sappiamo solo che un cristiano si è rifiutato di rinnegare quella vita più forte della morte che ha scoperto nella “buona notizia” di Gesù di Nazaret, sappiamo che sta lasciando anche a noi, credenti e non credenti di un occidente che smarrisce il senso ultimo dell’esistenza, un segno di cosa significhi essere radicati in Cristo: questo discepolo di un Signore crocifisso ci sta dicendo che le radici cristiane possono anche essere giovanissime – appena quindici anni – ma, quando affondano nell’amore, sanno produrre frutti abbondanti.

testo integrale tratto da "La Stampa" - 22  Marzo 2006