"Tempo Perso - Alla ricerca di senso nel quotidiano"

I laici alla prova dei Dico

di Edmondo Berselli

LA NOTA del Consiglio permanente della Cei sui Dico era attesissima: su di essa si era appuntata tutta l'attenzione del mondo politico, e già questo è sintomatico del peso e degli effetti che i pronunciamenti della gerarchia ecclesiastica possono avere all'interno di partiti e schieramenti. Specialmente se un documento viene annunciato come una parola "impegnativa" per i cattolici. Si tratta di vedere quanto può essere impegnativa per un rappresentante del popolo, eletto senza alcun tipo di vincolo o di mandato, insediato in nome della Repubblica. E la risposta deve essere semplice e radicale: nulla è impegnativo per un deputato o un senatore, se non la sua coscienza. In ogni caso, a leggere la nota dei vescovi, si ha la sensazione di una lineare quanto irriducibile continuità: sulle coppie di fatto, il primo atto dell'arcivescovo Angelo Bagnasco, neo presidente della Cei, non si differenzia in modo significativo dalle ultime attestazioni del cardinale Ruini. Sarebbe stato per la verità irrealistico aspettarsi prese di distanza o differenze nette. Le richieste di un tono meno espressamente politico e più "pastorale", manifestatesi in seno all'assemblea dei vescovi, hanno smussato alcune asprezze della bozza precedente (che definiva "un atto gravemente immorale" la concessione del voto al riconoscimento legale delle unioni omosessuali). Tuttavia la nota dei vescovi è destinata a provocare ripercussioni intense nel mondo politico. Se si sostiene che in base a concezioni antropologiche, filosofiche e istituzionali "la legalizzazione delle coppie di fatto è inaccettabile sul piano di principio, pericolosa sul piano sociale ed educativo e avrebbe effetti deleteri sulla famiglia", non si vede quale sia la possibilità di interlocuzione, e neppure di elaborazione giuridica. Se sulle coppie di fatto "nessun politico che si chiami cattolico può appellarsi al principio del pluralismo e dell'autonomia dei laici in politica", il discorso è chiuso. I parlamentari cattolici che intendessero contribuire a regolare le unioni non formalizzate dal matrimonio sarebbero "incoerenti". E se si aggiunge che per avvalorare la propria verità la Cei ricorre con chiare citazioni all'autorità di Joseph Ratzinger, il cerchio si completa senza apparenti possibilità, per le componenti cattoliche della nostra politica, di trovare una via d'uscita. O l'obbedienza, o l'errore. Ora, dato che proprio la laicità è un principio ordinatore della politica, nonché degli assetti istituzionali, si può già immaginare quali saranno le ripercussioni di questo aut aut episcopale. Non tanto a destra, dato che l'ex Casa delle libertà è comunque unita in un sostegno indiscusso, per quanto sospettabile di strumentalità, alla gerarchia ecclesiastica. Ma nel centrosinistra, e in particolare nella sua parte centrista, il pronunciamento dei vescovi avrà implicazioni vistose. E' vero che dopo lo sforzo strenuo di mediazione e duttilità politica con cui la cattolica Rosy Bindi si era impegnata nella stesura del disegno di legge sui Dico, oggi quel testo si è inabissato al Senato, dove la Commissione Giustizia ha cominciato a valutare soluzioni legislative diverse, di tipo privatistico, connesse all'estensione di garanzie da iscrivere nel Codice civile. Ma con il documento di ieri la Cei ha segnato un solco profondo nel terreno della politica. Ha fissato criteri, ha sancito vincoli. Come potrà, un qualsiasi parlamentare cattolico, affrontare l'accusa di "incoerenza" rivoltagli dalla Chiesa? E come potrà argomentare la sua laicità a fronte della "devozione" del fronte opposto (che pure comprende avversari e alleati)? L'effetto di confusione che il chiarissimo dispositivo della Cei determinerà sulla politica italiana sarà poi amplificato dal cosiddetto "Family Day", la manifestazione convocata in San Giovanni in Laterano il 12 maggio. Che a dispetto delle migliori intenzioni, e anche di sporadiche e volenterose adesioni a sinistra, assumerà facilmente l'aspetto di una contrapposizione frontale tra l'Italia del cattolicesimo, dell'ortodossia matrimoniale, del tributo ai vescovi e al Papa, e l'Italia della laicità: in cui a soffrire con maggiore intensità saranno proprio gli esponenti politici cattolici legati a un'idea - diciamo degasperiana? - ferma e civile di separazione tra l'ordinamento statuale e la religione organizzata. Per tutti loro, di qui in avanti, si prepara un cammino accidentato. Ed è prevedibile che sarà molto accidentata anche la strada della politica nel suo insieme: perché è vero che la Chiesa ha il diritto di manifestare i suoi principi, e di sostenerli pubblicamente; ma l'intervento diretto e vincolante dei vescovi sui legislatori non sarebbe stato possibile se l'intero arco politico fosse unito dalla condivisione di un principio fondativo e solidale di laicità. Cioè se la politica non fosse indebolita non tanto da legittime contrapposizioni ideali e di valore, quanto dalla presenza di strumentalismi, convenienze, da quella specie di opportunismo del sacro, o dell'etica, che trasforma valori altissimi in moneta politica sonante. Dietro la rigidità ecclesiastica si avverte forse l'assenza di quel realismo giuridico e politico che aveva fatto stilare al cardinale Pompedda, un conservatore, una sentenza non proprio ovvia per un ecclesiastico di alto livello: "Le unioni di fatto sono un fatto". Ma dietro gli opportunismi politici si avverte un antico sentore di simonia. E un cedimento tendenziale non alle guerre di religione, non è il caso di esagerare, ma a una sorta di vastissimo voto di scambio, dove la ricerca dell'appoggio della Chiesa può valere anche l'abbandono della dignità laica.

 testo integrale pubblicato da  "La Repubblica" - 29 marzo 2007