La
posta in gioco di una nuova laicità
di
Alessandro Barbano
Le
immagini del capo dei vescovi italiani, monsignor Bagnasco, costretto a
farsi accompagnare da un poliziotto di scorta, delimitano il perimetro di
un Paese dove il confronto delle idee accende tensioni pericolose. E
c'impongono di riflettere su quella laicità dello Stato, la cui
salvaguardia oggi coincide con la stessa difesa della democrazia. La quale
non esaurisce i suoi presupposti nell'esercizio incondizionato del diritto
di voto.
Ma si sostanzia invece - ci ricorda Amartya Sen nel suo La democrazia
degli altri - nella capacità di promuovere un dibattito reale sulle
decisioni della politica. La stanza di questo dibattito è proprio una
laicità intesa come il luogo decisivo del confronto tra soggetti e
identità diversi, che tuttavia si riconoscono un reciproco dovere di
ascolto.
La laicità non nasce fuori o contro, ma dentro il mondo cristiano. Come
segnalano due studiosi di diversa cultura ma di comparabile rigore e
apertura, Paolo Prodi e Claudia Mancina, la separazione tra etica e legge,
i principi liberali della dignità della persona, l'eguaglianza morale di
tutti gli individui, il rispetto per la vita umana hanno con il
Cristianesimo un rapporto di filiazione, anche se non sempre lineare né
pacifico, poiché è vero che la libertà individuale e di pensiero si è
affermata spesso in lotta con la Chiesa.
Questa interdipendenza di valori è ancora oggi l’architrave delle
nostre democrazie? Se è pacifico che la laicità dello Stato coincida con
la sua non identificazione con qualsivoglia visione del mondo, c'è
tuttavia da dubitare che ciò significhi anche neutralità o addirittura
indifferenza nei confronti dei suoi valori fondanti.
Il compito dello Stato, suggerisce il cardinal Angelo Scola nel suo ultimo
libro, Una nuova laicità, è quello di coinvolgere in una
relazione di riconoscimento e confronto reciproco tutte le culture che
segnano l'identità di un popolo, la sua storia e la sua sensibilità.
Ecco perché lo stesso Ratzinger, se pure non abbia mai rinunciato a
testimoniare la verità dei cattolici, ha più volte riconosciuto nei
primi due anni di pontificato la laicità dello Stato quasi come una
garanzia per la stessa professione di fede. Ciò dovrebbe far riflettere
chi vorrebbe confinare la religione nella sfera privata, scoraggiando i
credenti e le comunità religiose ad esprimersi come tali anche
politicamente.
Il rischio oggi è che la laicità assuma nella sua dimensione pubblica il
volto caricaturale di un'arena in cui i redivivi Peppone e don Camillo
regolano i loro conflitti personali. Perché ciò non accada, la politica
- da una parte e dall'altra - non deve rinunciare alle proprie idee, ma
deve sforzarsi di eleggere il confronto tra le varie anime del Paese come
l'obiettivo primario della sua azione.
Tanto più le posizioni sono distanti e il reciproco riconoscimento delle
parti è fragile, tanto più essa deve tessere la trama del dialogo. Ciò
vale per i Dico, per il testamento biologico e per tutti quei temi dove la
dialettica politica ridefinisce con le sue opzioni l'identità di un Paese
e il suo rapporto con la modernità.
La posta in gioco è molto più alta di quanto appaia superficialmente.
Sullo sfondo del fallito dialogo tra laici e cattolici nelle sedi
parlamentari e in tutta la sfera del discorso pubblico, si stagliano da
una parte le minacce al capo dei vescovi e allo stesso Papa, accompagnate
da un montante sentimento di intolleranza nei confronti della Chiesa e
della morale che essa propone; dall'altra la prospettiva di un partito
confessionale, la cui tentazione è pure presente in alcuni ambienti
cattolici. Disposti a utilizzare l’esclusione politica per radicalizzare
i toni.
E' il peggiore degli scenari, quello di un dialogo tra sordi condito da
estremizzazioni e complotti, di cui purtroppo si colgono già le
avvisaglie
testo
integrale pubblicato da "Il Messaggero" - 11 aprile 2007