AGORÀ
«Le visioni
dell’uomo possono variare moltissimo ma non può mai evaporare un
principio basilare: il rispetto assoluto del suo essere nel mondo, della
sua posizione unica e peculiare, per la quale non può essere confuso con
nessun altro essere vivente. Se la vita umana perde la sua intangibilità,
si apre la strada a malvagità inaccettabili, che la storia nel suo
svolgersi ci ha più volte mostrato: non c’è infatti alcun bisogno di
andarle a ricercare nel mondo fantastico. Sono sotto gli occhi di tutti»
Perché
la vita è sacra
1
Negare che nell’incontro di due gameti ci sia già un bimbo in nuce mi
sembra un’affermazione francamente incomprensibile
2
Si potrà discutere sul tipo di omicidio che si commette, ma non negare
che eliminare quelle due cellule sia negare una vita umana
3
Se anche quelle cellule fossero in grado di guarire malattie, sarebbe come
usare organi e vita di un uomo in favore di un altro
4 Non credo affatto che chiarire questi princìpi e richiamarsi ad essi
sia di ostacolo alla ricerca, che di per sé non va mai impedita
di
Vittorino Andreoli
Se non si accetta il principio della sacralità della
vita umana e del rispetto che le si deve viene a mancare la base di ogni
umanesimo, inteso come visione dell'uomo e del suo vero significato.
L'uomo è in primo luogo «qualcuno» da rispettare, che anzi è sacro, e
infatti richiama il mistero. Come un alone che si riesce a intuire e a
intravedere anche oggi, pur entro lo sviluppo delle scienze e della
fenomenologia che ci descrivono accuratamente ciò che l'uomo fa e come
vive. In realtà, è più appropriato parlare di «umanesimi», al
plurale, poiché le visioni dell'uomo possono variare anche se mai può
evaporare questo principio basilare: il rispetto sacro del suo «essere»
nel mondo, dove egli ha una posizione peculiare, per la quale non può
essere confuso con nessun altro.
Se la vita umana perde la sua dignità e sacralità, allora si apre la
strada a malvagità inaccettabili, che la storia nel suo svolgersi ci ha
più volte mostrato: non abbiamo infatti alcun bisogno di andarle a
ricercare nel mondo fantastico. Queste malvagità sono sotto gli occhi di
tutti.
In primis, ecco la possibilità di sopprimere la vita, ossia di uccidere.
Si può farlo applicando la pena di morte, che molti Stati in una logica
aberrante ancora prevedono nel proprio sistema giuridico quale punizione
estrema per chi commette particolari reati. Si può uccidere in guerra, ad
esempio in operazioni che si svolgano in centri abitati provocando vittime
tra donne, vecchi e bambini che non possono far altro che subire la
brutalità senza possibilità alcuna di difendersi, senza poter gridare il
proprio diritto alla vita. Si uccide per omissione: per non aver prestato
soccorso, per non aver dato a chi muore di fame un po' di quel cibo a noi
largamente disponibile e che potrebbe salvare molte povere vite; ma si
uccide anche quando si negano le cure necessarie per curare un disturbo o
vincere una malattia. L'omissione diventa causa di morte altrui anche
quando si ignora il proprio vicino che, se aiutato, fors e non avrebbe
preso la decisione di suicidarsi. In tal caso l'uccidere se stessi
coincide con una colpa sociale, una forma di eliminazione per
disinteresse: non ci importa nulla di te, puoi anche ucciderti.
La negazione di questo principio primo non si circoscrive soltanto alla
manifestazione estrema che è la morte, ma comprende anche la crudeltà di
ogni distinzione tra uomo e uomo. Il principio della vita infatti non è
rispettato quando si ritiene che qualcuno sia meno uomo di altri.
Perseguendo una suddivisione della società per caste, si arriva a
considerarne alcune fatte da «intoccabili», in quanto entrando a
contatto con questi si diventerebbe impuri. Una gerarchia tra gli esseri
umani, insomma, per cui si passerebbe dall'uomo completo a frazioni di
uomo, a residui umani che fatalmente diventano cose.
Proprio in questa cornice va letta la condizione di una parte dell'umanità
costretta in stato di miseria, in una povertà che toglie ogni dignità
poiché pone su un piano di dipendenza pressoché totale, costringendo a
vivere d'elemosina e quindi a condurre un'esistenza circoscritta alle
briciole altrui, legata all'arbitrio di chi quei miseri avanzi può dare o
negare.
La condizione che crea (e ha creato nel corso della storia) una
distinzione sostanziale della donna dall'uomo - anche questa è a suo modo
una divisione in caste - è prima di tutto una mancanza di rispetto della
persona, che non può vivere nello stato subalterno di chi deve sopportare
ogni angheria, ogni sopruso, ogni violenza.
Sempre in questo ambito si colloca il fenomeno razzista, in base al quale
un'etnia andrebbe considerata superiore a un'altra, dotata quindi del «diritto»
di esercitare su di essa una condizione di dominio, fino ad arrogarsi il
potere di vita o di morte. Un abuso che durante il nazismo è stato
esercitato nei confronti degli ebrei, ma anche degli zingari, considerati
razze impure, e in anni più recenti ha colpito popolazioni ed etnie
africane.
È interessante notare, sebbene si tratti di mostruosità, che
storicamente la «logica» seguita in questo processo di esclusione o di
diminuzione dello status umano è passata proprio attraverso il
decadimento dal livello di uomo a quello di «quasi uomo».
Dunque a un «qualche cosa» di totalmente privo di ciò che invece
possiede l'uomo di oggi che vive nelle società dello sviluppo avvenuto e
dunque del benessere. Sarà bene dire subito con chiarezza che queste «scale»
di umanità sono del tutto arbitrarie, perché dettate da una colpevole
prevenzione o da interessi puramente economici, cioè dal «guadagno» che
sottomettere razze ritenute «inferiori» porta nelle tasche di quelle che
si giudicano «superiori». Mentre è stato ampiamente provato come sia
possibile recuperare situazioni di gap culturale. Margareth Mead ha
dimostrato, per esempio, che un gruppo di giovani donne trasferito dalle
foreste della Nuova Guinea a New York aveva superato nello spazio di
venticinque anni ogni elemento che le differenziava, sul piano del sapere
e dello stile di vita, dalle loro coetanee di Manhattan, a riprova del
fatto quindi che un divario simile può essere eliminato in un tempo
relativamente breve.
TRE MORTI. È opportuno ricordare che si possono infliggere tre
tipi di morte. Quella fisica, che ovviamente è la morte totale, la fine
dell'esistenza su questo mondo, che invece sarebbe potuta continuare se
solo la si fosse rispettata. Quella psicologica, in cui la personalità
viene annientata, in soggetti che, ancora capaci di agire fisicamente e in
apparenza magari anche ben vestiti, in realtà non sentono più la loro
dignità: colpiti nella propria personalità, questa non sa dispiegarsi
compiutamente e neppure riceve considerazione dagli altri, i cosiddetti «normali».
E infine la morte sociale, il non poter godere della possibilità di
esprimersi, dello stare da pari a pari con gli altri, di scegliere per
amore il proprio partner col quale condividere l'esistenza. Proprio una
simile schiavitù, manifestatasi attraverso vari secoli e ritenuta «naturale»
da pensatori come Platone e Aristotele, è una condizione che si scontra
con quello che abbiamo chiamato principio primo.
La vita di un uomo non cambia dunque a seconda della classe sociale, del
livello di sviluppo intellettivo, del colore del pelle, della professione
di una fede piuttosto che di un'altra, ma è qualcosa che fa parte
dell'essere uomo o donna, vale a dire un individuo (un essere, una
persona) che oltre alla capacità di agire possiede anche quella di
riflettere. Egli ha capacità di esprimere pensiero, coscienza e
autocoscienza, cioè quello che caratterizza l'uomo dentro la storia e la
sua stessa evoluzione.
L'essere uomo è una condizione che lo definisce senza possibilità di
equivoci e che non può ammettere deroghe. Ciò non esclude che vi siano
differenze e caratteristiche - peculiari e distintive - tra i gruppi umani
come tra i singoli.
Anzi, all'interno del medesimo «essere-uomo» c'è un'evoluzione costante
e un suo continuo arricchimento. Diciamo, in altre parole, che non c'è
un'unica modalità di essere, data una volta per tutte; ma questo non
intacca né sminuisce il principio primo: le diversità infatti si pongono
nell'ambito della stessa cifra umana, e godono dello stesso grado
(massimo) di rispetto. La vita cioè è qualcosa di concreto, di noto, di
spiegabile, nello stesso tempo ha qualcosa di ineffabile, sempre nuovo, e
misterioso.
So bene che questo alone di mistero dentro cui mi ostino a vedere l'uomo
potrebbe sembrare ad alcuni un residuo di mentalità vecchia e
inaccettabile. Eppure mi sento di richiamare tutti, compresi i
razionalisti più incalliti, alla considerazione che di fatto rimane
sempre qualche interrogativo che non trova risposta se non nelle fedi. È
fede anche l'affermazione per cui non sappiamo ora ma sapremo: per taluni
è addirittura la scienza a garantire, per altri è il sapere in Dio, e
dunque in una verità altra che nella sua completezza sfugge oggi
all'uomo, e tuttavia gli sarà un giorno svelata, se non qui nell'altra
vita.
LA VITA. Non è facile definire la vita e in particolare quella
umana, un argomento - come si ricorderà - che ha impegnato a fondo
filosofi e biologi, animando discussioni anche recenti, che ora però non
è il caso di evocare. Vorrei porre almeno il problema, e farlo nella
maniera più articolata, dal momento che si tende più a dare risposte che
a porre correttamente le domande.
La prima questione riguarda la vita e il suo inizio nella storia del
singolo uomo. Vi sono a questo proposito sostanzialmente due posizioni tra
loro ben distinte: c'è quella di chi ritiene già presente la vita
nell'incontro tra la cellula uovo e lo spermatozoo maschile, e l'altra di
chi ne sposta l'inizio più avanti, a un più alto grado di divisione
cellulare, oppure a quando, oltre alla divisione, si giunge alla vera e
propria configurazione dell'uomo fetale.
Confesso che mi pare impossibile negare che la vita sia già presente
dentro l'unione tra le due cellule, e che anzi la disposizione alla vita
sia già nelle due cellule prese singolarmente le quali, unendosi, formano
un insieme vitale che - lasciato crescere - in nove mesi diventa un
bambino. Negare che nell'incontro di quelle due cellule ci sia un bimbo in
nuce mi sembra proprio un'affermazione incomprensibile, che forse è
preoccupata più delle conseguenze che del fatto in sé, innegabile.
E la differenza tra vita umana e persona? Anche qui le posizioni sono
varie. A me pare che la persona non sia semplicemente un fatto biologico,
ma una condizione in cui la biologia si unisce a un ambiente fisico, come
anche psicologico, e conduce a un determinato sviluppo in cui si
dispiegano le fondamentali caratteristiche umane. Ritengo cioè che si
possa culturalmente parlare di persona quando viene raggiunta una qualche
consapevolezza di essere, all'interno di un ambiente fisico e relazionale.
Tutto questo sarebbe puntualmente chiaro se non si ponesse la questione
della manipolazione della vita, e quindi d i interventi capaci di impedire
lo sviluppo di quelle cellule e poi dell'embrione, cosa che invece oggi
avviene, ed ecco che suscita preoccupazioni anche lessicali.
A tale proposito occorre evitare le strumentalizzazioni che sorgono quando
si dà la precedenza al dato pragmatico, operativo, e si è disposti a
mutare anche le proprie concezioni pur di avere moralmente il via. Una
manipolazione del processo di pensiero pur di dare una copertura «scientifica»
alle conseguenze.
Insomma, si potrà anche discutere sul tipo di omicidio che si commette,
ma non certo negare che eliminare quelle due cellule significa negare una
vita, e una vita umana. Che se poi quelle cellule fossero in grado di
guarire gravi malattie, l'impedir loro di diventare vita umana è del
tutto analogo al fatto di usare gli organi di un uomo vivo per mantenerne
in vita un altro.
Non credo affatto che chiarire questi princìpi e richiamarsi a essi sia
di ostacolo alla ricerca scientifica, che di per sé non va mai impedita,
benché essa non si debba ritenere una sorta di zona eticamente «franca»,
dove tutto è possibile.
Porre limiti al procedere scientifico non limita la scienza, semplicemente
la mette di fronte a nuovi aspetti anche tecnici da risolvere, e questo fa
parte della scienza e del suo procedere metodologico; anzi, la scienza è
prima di tutto metodologia e i suoi grandi progressi sono stati realizzati
sempre nel rispetto della vita. La vera scienza medica in particolare
agisce in questa direzione, raccogliendo la sfida di rendere la vita umana
sempre-più-vivibile, dunque qualitativamente sempre migliore.
I grandi progressi delle scienze psicologiche e cognitive hanno messo in
evidenza la ricchezza delle caratteristiche della persona e quindi le
incredibili capacità che vi si legano, e che permettono di parlare
appunto di qualità della vita. Hanno dimostrato che il risultato di una
persona è determinato anche dall'ambiente e dunque dalle relazioni con
cui viene a contatto a partire dall'in fanzia. A me pare bellissimo che
l'esito di una persona sia legato alle altre persone, e quindi a una sorta
di scambio affettivo che si trasferisce dall'una all'altra, in un mutuo
arricchimento. E si profila il caso anche di chi avendo bisogno dell'aiuto
dell'altro per una data fragilità e lo ottiene, trasmette forza a sua
volta in uno scambio che è positivo, per quanto contrassegnato dalla
fragilità. Così la fragilità dell'uno aiuta l'altro, e di conseguenza
crolla il mito della perfezione per aiutare l'imperfetto. Si arriva
persino all'elogio della fragilità, poiché mette nelle condizioni di
ricercare l'altro e di vincere il solipsismo.
La persona è il centro della società e su di essa occorre fondarci per
trovare anche quel rispetto che è possibile solo se si sa intravedere
nell'altro un uomo o una donna capaci e pieni di qualità che ci attirano
e spingono a scoprirle. La necessità della relazione con l'altro
distoglie anche da un consumo di tecnologia televisiva o da relazioni con
macchinette che non hanno nulla della persona.
SOCIETÀ CONTEMPORANEA. Che questo principio della sacralità e del
rispetto della vita umana sia oggi dimenticato o male interpretato è
agevole rilevarlo dal modo con cui s'intrattengono le relazioni
interumane.
Basta vedere la condizione in cui si trovano i vecchi, considerati dalla
società alla stregua di un inutile peso. Persino ai figli non viene
lasciato spazio in casa propria perché possano partecipare alla vita
familiare: non c'è tempo da dedicare alle loro esigenze. I vecchi sono
visti semplicemente come residui umani che, data l'età, mancano di quegli
aggiornamenti tecnologici propri di un sapere consumato con rapidità
vorticosa. Ne consegue che finiscono per non essere utili nemmeno come
baby-sitter, dal momento che non conoscono le direttive per impartire la
«nuova educazione» richiesta dai tempi.
Basta constatare alcune realtà sotto i nostri occhi.
Basta vedere - tanto per cominciare - il numero di aborti che in questa s
ocietà vengono praticati nel rispetto della legge oppure
clandestinamente: certo non si tratta di espressioni del rispetto per la
sacralità di una vita possibile...
Una considerazione, questa, che s'impone anche al di là del senso
attribuito all'aborto, che in ogni caso è di impedire una vita e il
mistero che essa contiene, un intervento cioè su qualcosa che sfugge e
che per questo è ancora più sacro.
Basta considerare, poi, il totale disinteresse delle società ricche per
le popolazioni afflitte da una povertà endemica e devastante che stronca
la vita di bambini e di anziani, e la mancanza di consapevolezza nei
confronti delle possibilità d'intervento quando invece sarebbe
sufficiente accettare una migliore distribuzione della ricchezza del
pianeta.
Basta constatare il livello raggiunto dalla violenza perpetrata dall'uomo
nei confronti dell'uomo, legata a una carica di odio per l'altro, alla
considerazione che il prossimo è fino a prova contraria un nemico, e
quindi uno da non salutare, da ignorare, da evitare, semmai da combattere.
Indubbiamente una parte della violenza è provocata dall'invidia, che
porta a considerare l'altro alla stregua di un competitore che va
raggiunto, superato, oppure negato. Un'invidia che usa ogni mezzo per
colpire utilizzando persino nobili professioni, e nascondendo
vigliaccamente la mano che ha scagliato il sasso.
E ancora. Basta considerare che il valore della persona umana viene oggi
misurato in base alla quantità di denaro che possiede, tanto da far
dipendere il livello umano dalla ricchezza posseduta o talora solo
esibita. Non contano la serietà, la coerenza, l'onestà, la dignità di
chi non è ricco ma giusto e rispettoso delle leggi: il criterio di
valutazione è il successo, oggi misurato con la capacità d'imporre la
propria immagine usando in maniera preminente la televisione o le pagine
dei giornali. C'è persino chi snobba la prima sapendo di poter contare
sulle altre, poiché paga per avere spazio, quando non fa persino parte
della proprietà. Ne sono un esempio quegli imprenditori che appaiono ogni
giorno sulle pagine d'informazione economica mentre mai cercherebbero
visibilità sul piccolo schermo, ritenuto troppo «popolare».
Ma non è finita. Basta considerare la prostituzione dilagante in questa
nostra società, un costume certamente antico ma che ha raggiunto
un'intensità e una modalità di sfruttamento che avvilisce la persona
umana.
Basta aver presente lo scempio della politica consumato da persone che
considerano il servizio alla collettività come un mezzo per
l'affermazione dei propri interessi o del proprio delirio di onnipotenza,
convinti di salvare il Paese mentre in realtà cercano di mettere in salvo
se stessi: non la propria dignità, ma il narcisismo di ciascuno.
Basta, insomma, verificare il rilievo che ha assunto la stupidità in
questa società per mostrare che la persona umana è spesso ridotta a un
oggetto che agisce, si muove, si mostra come se fosse una bellezza o un
portento mentre sa solo di putredine e manca persino dei connotati minimi
della persona: di chi, per l'appunto, è dotato di dignità rispettando
l'altro e la sua vita come qualcosa di interessante e significativo di per
sé, non già in base al conto bancario.
Confesso che rimango allibito quando misuro questo principio primo e lo
applico con la lampada di Diogene a talune cosiddette persone del mondo
contemporaneo, al cospetto delle quali c'è da chiedersi se siano
veramente persone o semplici, sciocchi manufatti.
Poiché abbiamo sostenuto che i princìpi primi appartengono alla moralità
di una persona e di una società, la triste panoramica che ho appena
compiuto dà ragione dell'odierna mancanza di senso morale, anche se si
continuano a insediare commissioni etiche che sono testimonianza del
paradosso di una società amorale convinta di recuperare questa dimensione
semplicemente discutendo o creando presidenti e segretari di simili
organismi. Spesso si tratta, invece, di semplici escamotage per difendere
l'immo ralità fingendo di essere morali.
PRINCIPI DA SALVARE. Questa è la vera emergenza sociale e
personale di ciascuno di noi: interrogarsi sul grado di moralità. Per
farlo non servono le affermazioni o i discorsi pubblici quanto piuttosto
il silenzio, la meditazione e la critica nei confronti del proprio
comportamento e del senso di ciò che si fa. Finché questo principio non
verrà applicato neppure sarà possibile educare le nuove generazioni,
poiché servono gli esempi e non le semplici affermazioni o le vuote
parole. E gli esempi non si inventano né si camuffano.
Su questa dimensione non si può imbrogliare: o si è rispettosi della
morale e di questo suo principio primo, oppure si è semplicemente
non-uomini privi di dignità. Si può essere indegni e allo stesso tempo
ricchi e di successo - gli esempi sono persino troppi - occupando
posizioni di potere che conferiscono al potere stesso una connotazione
amorale.
testo
integrale tratto da "Avvenire" - 8 settembre 2006