AGORÀPRINCIPIA
«Se domina il
principio che tutto è possibile, e che dipende solo da quando e da come,
è chiaro che parlare di princìpi come di qualcosa di fondamentale e di
ineludibile, a meno di non perdere la dimensione umana, diventa quanto
meno ridicolo o fuori del proprio tempo: si corre il rischio di essere
posti tra coloro che non hanno capito la vita e che sono destinati a
perire rinchiusi in una inflessibilità che di per sé è già morte; come
essere dentro una bara di marmo, e non in un abito che si può cambiare»
Dal
non-esserci all’ ESSERCI
La
possibilità che non avrei potuto avere una identità, che sarei potuto
non esistere, sia pure transitoriamente, mi sgomenta È incredibile sapere
che tutto è dipeso da un’eventualità che avrebbe potuto non
verificarsi, come l’incontro tra mio padre e mia madre Esserci significa
anche avere una corporeità, il che mi fa amare la mia fragilità, questo
corpo che invecchia giorno dopo giorno E io, senza fare niente, ma
solamente «essendo», avverto dolore e gioia, bisogno dell’altro e
paura di non essere adeguato
Di
Vittorino Andreoli
VISIONE DEL MONDO. L'affermazione
di un principio o di più principi dipende dalle convinzioni filosofiche
di chi li propone come sintesi semplice di concetti complessi. Li si può
rappresentare come distillato di filosofie, visioni del mondo "in
pillole". Alcuni di essi appartengono da molto tempo alla storia
dell'uomo; una fortuna alla quale spesso non è estranea l'efficacia della
loro espressione verbale. Ci sono principi che resistono nel tempo per la
capacità di colpire, per la loro forza semantica, per la facilità con
cui si ricordano.
I proverbi si situano a cavallo tra un sistema filosofico fondato
sull'elaborazione razionale di un tema con significato esistenziale, e il
principio, che è sempre sintetico, "scultoreo". I proverbi, pur
con l'abito di semplici consigli, contengono tuttavia esperienza,
segnalano comportamenti utili da seguire o, viceversa, dannosi se
adottati: sono esempi di una saggezza popolare che insegna a vivere in
situazioni spicciole e precise. I principi sono invece depurati di ogni
aspetto pratico, come se trascendessero la realtà del singolo che li deve
applicare. Non sono comandamenti o imperativi, ma riferimenti essenziali,
specchi impietosi che attestano se uno è un uomo e di quale sorta.
I principi concorrono a definire l'identità personale; chi si fa guidare
da essi e non li trasgredisce, è coerente. Ecco quindi che per valutare
un uomo, ne vanno individuati i principi e ne va saggiata la coerenza.
L'ideale supremo è rappresentato dall'uomo che per difendere i propri
principi è disposto a sacrificare la vita: meglio morire per coerenza che
vivere da incoerente, come una banderuola.
FLESSIBILITÀ. A questo proposito si può aprire una riflessione su
un termine oggi di moda: flessibilità. Parola che si potrebbe sostanziare
in un principio: l'uomo è un essere flessibile; oppure in altra forma: la
flessibilità aiuta a vivere; oppure in maniera più decisa: la
flessibilità è la base della vita.
La formula ingloba il concetto d i società mutevole, complessa, e di un
uomo che per vivere bene, o il meno male possibile, deve adattarsi,
disposto a rinunciare ad alcuni desideri e talora anche ad alcune virtù.
La formula richiama la teoria di Charles Darwin, secondo la quale è
l'adattamento che rende possibile la vita, consentendo di battere il
concorrente e quindi di non essere eliminati. E il principio primo per un
essere vivente risulta quello di vivere.
La flessibilità, l'adattabilità, la capacità di modificarsi in rapporto
alla situazione in cui ci si trova, finiscono per comporre un principio
che spiega, nello stesso tempo, il pericolo per altri principi, mostrando
come nel tempo presente le persone "rigide", ancorate a
imperativi forti e immutabili, fatichino a inserirsi con successo nella
società.
Un'altra concezione che la flessibilità richiama è di estrazione
sociologica: se l'uomo è parte di una rete di legami sociali, ma non
riesce a relazionarsi con gli altri, rimane un corpo estraneo, e se ciò
gli accade in virtù di principi sui quali non è disposto a transigere,
scendendo anche a compromessi, non potrà essere parte del contesto
sociale.
Da qui si potrebbe dedurre di dover assumere come unico principio certo,
quello di non accettare alcun principio "per sempre", di
ritenerli tutti mutevoli; accontentandosi semmai di semplici indicazioni,
da abbandonare quando risultassero inadeguate per inserirsi nel labirinto
di un mondo in cui è più semplice vivere da ameba piuttosto che da
soggetto corazzato e poco malleabile.
Potrebbe insomma essere giunto il tempo di affermare che l'unico principio
fondamentale e inattaccabile è di non averne alcuno, mentre il valore
degli altri è sempre subordinato e legato alle circostanze.
Se domina il principio che tutto è possibile, e che dipende solo da
quando e da come, è chiaro che parlare di principi come di entità
fondamentali e ineludibili, a meno di perdere la dimensione umana, risulta
ridicolo, fuori del tempo, e si corre il rischio di finire derisi,
relegati tra coloro che non hanno capito la vita, che per la propria
inflessibilità vivono come dentro una custodia di marmo, e non in un
abito che si può cambiare per gusto e non solo per necessità. Principi,
dunque, che dipendono dall'apparenza, dal "mi piace" e dal
"non mi piace".
Ci si può appoggiare al relativismo, alla negazione di una verità
assoluta da cui derivano principi tassativi. Se la verità è solo quella
storica, e dunque legata alle coordinate del tempo che scorre, allora i
principi sono mutevoli, e sarebbe inutile voler ricercare quelli propri
del presente: in esso si somma una tale varietà di visioni del mondo da
rendere impossibile un'analisi dettagliata e completa.
Noi conserviamo sensibilità per tale problematica perché apparteniamo a
questo mondo e agli umanesimi che in esso si sono sviluppati, e vogliamo
rimanere uomini che appartengono a questa terra. Non possiamo che cercare
di comprendere l'evoluzione dell'uomo e anche quella, tumultuosa, che la
società ha avuto negli ultimi decenni. Ma al tempo stesso non accettiamo
un relativismo "assoluto" (un'associazione di termini che
peraltro dà luogo ad un'antinomia), poiché allora resterebbe solo il
principio di François Rabelais : «Fa' quello che vuoi», senza
preoccuparsi di principi o leggi.
BISOGNO DI STABILITÀ. Una parte cospicua della personalità
dell'individuo e della società non è affatto mutevole; è sufficiente
osservare quanto ci circonda per averne conferma. La nostra anatomia ha
principi che se non vengono rispettati sviluppano patologie che
compromettono l'efficienza del corpo. Il non funzionamento del fegato non
è una condizione tollerabile, ma un deficit da correggere, e se possibile
da prevenire. Il glucosio nel sangue è regolato da un meccanismo che ne
assicura la giusta concentrazione: se questo meccanismo non si attiva, si
ha la morte, preceduta dal coma che può prodursi sia per un eccesso di
zuccheri nel sangue, ma anche per carenza degli stessi; la stabi lità è
dunque importante. Analogamente si può dire per la pressione arteriosa,
che può portare all'ipertensione e all'infarto, oppure all'ipotensione e
alla perdita di coscienza. Nemmeno il sonno, poi, ammette una variabilità
illimitata; senza di esso si è preda dell'ansia e si va incontro ad
alterazioni nella funzionalità psichica; così come un eccesso di sonno
porta a non vivere, a mantenere uno stato catatonico, come di morte.
L'uomo vive bene, cioè, solo se il sonno si mantiene entro parametri
definiti di qualità e di durata.
Gli esempi si potrebbero moltiplicare, ma continueremmo a trovarci di
fronte a un uomo descritto come sistema stabile, che segue il principio
della regolarità, caratterizzato da ripetibilità ed equilibrio, dal
muoversi entro determinati e ristretti margini di variazione. La mente,
invece, non appare condizionata in maniera analoga: la fantasia può
varcare ogni limite e pensare anche ciò che non esiste.
Si possono così formulare piani e immaginare principi anche non adeguati
alla vita reale, regolata da norme che devono valere per tutti: una città
(o civiltà) si fonda sul principio dei bisogni comuni, di regole che
tutti devono rispettare, altrimenti l'ordine risulterebbe compromesso e le
città non potrebbero nemmeno essere progettate per l'impossibilità di
definire linee guida.
Il sole sorge regolarmente ogni giorno e se, in ossequio alla flessibilità,
un giorno non spuntasse e non riscaldasse la terra, noi tutti moriremmo.
Analogamente per la luna e per i ghiacci dei poli: il loro scioglimento
provocherebbe un diluvio universale, con un innalzamento del livello degli
oceani che sommergerebbe gran parte di quanto l'uomo ha fatto sulla terra.
Attorno a noi e dentro di noi tutto converge sul bisogno sul bisogno di
stabilità e di principi di stabilizzazione. Certo, i meccanismi a cui
abbiamo accennato sono automatici, non dipendono dalle scelte dell'uomo, e
quindi non hanno bisogno di principi regolatori, ma ne esistono invece
altri che hanno necessità di essere gestiti consapevolmente e dunque
monitorati e regolati.
IDENTITÀ. Dal punto di vista psicologico e dunque di quell'ambito
umano che chiamiamo personalità, si osserva che il singolo ha percezione
di una propria individualità. La crescita è un percorso di maturazione
intellettuale e mentale verso l'identità. Dalla nascita fino ai tre anni
si ha una prima fase. Si scopre di aver un Io, anzi di essere un Io, che
da quel momento rimane fisso, stabile al punto da permettere di accorgersi
di variazioni, che non sono però mai tali da cancellare l'identità
originaria. Uno rimane se stesso dall'infanzia alla senescenza, pur tra i
mille cambiamenti che si susseguono e che coinvolgono anche l'immagine del
proprio corpo. L'identità, dunque, è la base su cui possono svilupparsi
le modificazioni dell'Io, le quali tuttavia non arrivano mai a plasmare un
Io sostanzialmente diverso da quello di partenza.
Questa presenza stabile si può perdere, e allora si entra nel campo della
patologia mentale, della psichiatria; e si parla di schizofrenia, di una
condizione in cui l'Io è diviso (schizós = diviso). Si può perdere la
propria dimensione e ignorare di essere, come nei casi di alterazione
della memoria che impedisce di ricordare la propria storia individuale,
che è anche continuità, filo conduttore; oppure nei casi di
degenerazione cerebrale (Alzheimer) in cui uno non sa di essere o chi
realmente è. In questi stati patologici scompaiono tutti i principi di
governo della propria persona e del proprio senso nel mondo, e nemmeno le
persone care vengono riconosciute o percepite.
Il principio di identità ammette quindi alcune variazioni, ma è stabile
la percezione del sé come singolo o addirittura come unicum.
ESSERCI. Ritengo si debba parlare di principi e, in riferimento
all'uomo del nostro tempo, parlarne allo scopo di immaginare un
comportamento più umano. Lo scarto tra l'ideale, l'uomo auspicato, e
quello di cui si fa esperienza nella quotidianità , è abissale, poiché
l'uomo di oggi è protagonista di un modus vivendi appiattito su obiettivi
e sogni che sembrano tradirlo o ridurlo a una sola dimensione: quella del
successo, del potere, rappresentati da un cifra scritta su una banconota o
su un conto corrente. E la degenerazione è talmente diffusa, che si
finisce per non accorgersene più e dunque per non avvertire l'aporia e
l'abisso rispetto a un umanesimo che, anche se non utopico, sia almeno più
dignitoso. È come avere di fronte una macchina che emette rumori strani e
che funziona in modo folle, ma che esige siano compresi i principi del suo
funzionamento per assicurare che resti macchina e che sia in grado di
raggiungere il suo scopo. Certo, l'uomo è differente da un'automobile, ma
si deve parlare, anche nel suo caso, di uno scopo preciso.
E questo rinvia ancora una volta alla visione del mondo, alla filosofia,
perché il senso è ben differente se colto dentro una visione
pessimistica o nichilista, o piuttosto entro una che dia valore all'uomo
proiettato entro un piano eterno.
Di nuovo emerge il bisogno di una filosofia per definire chi è e che
senso abbia l'uomo, ma occorre tenere presente che ci sono dei principi,
che potremmo definire elementari, che non possono essere dimenticati
indipendentemente dalle risposte sul destino dell'uomo e del mondo. Forse
occorre accontentarsi di definire anche poche regole per poter fondare un
comportamento umano che sia strutturato su un comun denominatore basilare,
un umanesimo - per così dire - minimo, da arricchire con aspetti e
dimensioni ulteriori, ma che senza questo fondamento rimarrebbero però
pure illusioni o addirittura finzioni.
Tornano alla mente gli autori che hanno osservato lo sviluppo dell'uomo
attraverso le fasi della crescita e della sua evoluzione come specie. Ogni
fase era premessa necessaria per la successiva e, se la prima non si
compiva, era inutile sperare che l'uomo fosse in grado di realizzare
quanto era prerogativa del livello seguente.
Ma i principi di cui ci occupiamo sono quelli di base, non vengono quindi
toccati tanti altri punti delicati e importanti ad essi subordinati.
Sarebbe errato costruire un sistema ricco di tanti soprammobili, ma privo
delle strutture di appoggio, senza le quali viene meno persino la
possibilità di identificazione delle decorazioni dei mobili.
Pur da tale limitata prospettiva, che trasmette solo qualche
considerazione di base della ricerca dei significati dell'uomo e degli
umanesimi, c'è un dato che si impone e che rivendica il primo posto, il
primo gradino del pensiero e della riflessione sul senso e sul significato
dell'uomo: l'esserci piuttosto del non-esserci, l'esserci piuttosto del
nulla.
Questa asserzione ha in me un riflesso emotivo forte, ancora oggi in grado
di commuovermi e di spaventarmi simultaneamente. Penso al mio non-esserci
stato, al nulla, giacché non ne avrei consapevolezza, ma immaginarlo ha
per me un sapore di tragedia, nonostante io non consideri la vita un parco
divertimenti e una gioia continua. Il pensiero che avrei potuto non avere
una identità, che sarei potuto non esistere, sia pur transitoriamente mi
sgomenta. Potrei persino ignorare il senso di questo mondo e i suoi
possibili significati, ma certo non mi può sfuggire quello che riguarda
il mio esserci oppure non-esserci. Che deve essere chiaro, non è il
non-esserci più, come accade fatalmente con la morte (almeno non-esserci
più in questa città terrena), dopo la quale comunque nella mente di
qualche persona persisterà il ricordo, e questo si potrà anche
tramandare, si potrà evocare attraverso qualche segno lasciato. Il
non-esserci stato, invece, significa il nulla nel senso più radicale, la
tavola bianca. Dà le vertigini poi sapere che io sono frutto di una serie
di eventualità che avrebbero potuto non verificarsi - prima fra tutte
quella del legame tra mio padre e mia madre, che certo potevano non
incontrarsi - Io non sarei stato, mancherei di tutte le esperienze che
invece hanno riempito la mia vita fino a questo momento, compreso il
dolore che, in questa prospettiva - ho proiettato sul nulla che era nelle
possibilità - acquista la dimensione e il valore della vita: dolore come
sostanza di un'esistenza invece che il non-dolore dovuto ad un'assenza,
quale non-creatura.
Da questa considerazione si può far partire la meditazione sul senso. Non
si tratta di una mia invenzione, poiché è riconducibile al «cogito ergo
sum», alla coscienza che è appunto l'esserci, e non può esistere la
coscienza del non-esserci, mentre si può essere e non aver coscienza. Ma
ecco ancora la differenza: il poter non essere mai arrivato a questo
mondo, mai arrivato all'esserci, e invece constatare che sono, anche se in
un modo che non mi soddisfa e che vorrei cambiare. Il poter decidere di
cambiare, l'elaborazione di progetti, si legano proprio all'esserci e non
sarebbe possibile non essendoci, essendo nulla non perché finito, ma
perché mai cominciato, mai concepito, mai nato, mai esistito.
Questo pensiero che si riempie di corporeità, poiché esserci significa
anche avere corpo, ha un effetto strano, che mi porta ad amare persino
questo corpo che si sta rompendo per vecchiaia, mi fa amare persino la mia
fragilità.
Riesco a commuovermi per il semplice fatto di esistere, anche se confesso
che non mi propongo mai come esempio, se non di chi vorrebbe essere meglio
di me e fare di più; ma sulla base di questa considerazione ammetto di
amare anche quello che abitualmente non apprezzo di me, semplicemente
perché c'è e potrebbe non esserci affatto: l'essere invece che il nulla.
E a questa constatazione si associano tante domande che possono rimanere
senza risposta, ma si legano tutte a quell'esserci senza il quale non
potrebbero venire formulate. Su questo sfondo io ho stima, rispetto e amo
tutto quanto esiste. L'esistente mi commuove per il solo fatto di essere e
perché io vedo, perché io sono. E vorrei aver la consapevolezza di tutto
quanto è.
Tutto potrebbe non es sere stato mai, e ciò è ben diverso da come è
stato e ora, e solo ora, non c'è: in quanto esistito continua a esserlo
nella memoria di qualcuno o comunque in un segno che, pur disperso, è tra
i granelli di sabbia di un deserto infinito. Un granello che è testimone
di un'esistenza che è stata, e che è diversissima da quella
non-esistenza che non è stata mai e che poteva essere perché anch'io
sono, ma potevo non essere. Da qui la vita, il suo senso prima di ogni
senso, che in quanto c'è, è sconvolgente. Da qui anche la meditazione
sulla possibilità di dare la vita, o sul non averla data mai, mentre era
possibile farlo. Una vita mai giunta a vivere e che noi avremmo potuto far
essere.
Forse mi sto intossicando di parole, ma non so sottrarmi a questo
balbettare che ha però il sapore della vita, mentre il mutismo è nulla,
e io non sono e non sono mai stato solo nulla.
Da qui peraltro muovono le grandi filosofie e la ricerca del senso della
vita, ma questo può essere anche il punto di arrivo, poiché in questa
semplice affermazione, anzi in questa constatazione, molto e forse tutto
ciò che viene in seguito, diventa solo uno svolgimento, il dipanarsi
delicato di un essere qualcosa, piuttosto che il nulla. Ogni sistema
filosofico per quanto completo non potrà certo dimenticare questo fatto.
Potrà magari non esplicitarlo, ma è impossibile escluderlo: è un dato
implicito senza il quale le parole possono girare e esaltarsi, ma
rimangono attaccate al vuoto e si perdono come in un caleidoscopio in cui
si sciolgono in consonanti e vocali senza senso, delle quali resta solo il
rumore, ecolalia.
Io, senza fare niente, semplicemente essendo, avverto dolore e gioia,
bisogno dell'altro e paura di non essere adeguato. Qualcosa di quel
qualcosa e non del nulla.
ESSERCI CONSAPEVOLMENTE. Molte cose esistono ma non tutte sono
consapevoli di essere, e forse vivono come se non ci fossero affatto, e
dunque come se non ci fossero state mai. Per questa categoria di esseri,
l'esserci non ha dimensione, non ha percezione, coscienza. Io ho coscienza
e proprio questa analisi su di me, questa autoriflessione, il potermi
guardare, essere uno che si vede, segna una dimensione del tutto
particolare. Credo però che la consapevolezza non sia prerogativa
dell'uomo e che livelli diversi di autocoscienza siano presenti anche in
altri esseri viventi. Ma più che il tema dell'evoluzione della coscienza,
peraltro pieno di fascino, colpisce il fatto di essere qualcosa e non
nulla, e in aggiunta il fatto di essere e di accorgermi di essere e di
chiedermi chi mai io sia. Una sorta di doppio, tra chi mi guarda e io,
l'identico, che è guardato.
La condizione dell'esserci è straordinaria anche se drammatica, poiché
constato che la coscienza mi permette di accorgermi che ci sono, mi
permette di chiedermi perché mai io sia, e di essere consapevole, ma a
queste domande, o a molte domande, non so darmi una risposta.
Ecco la peculiarità: mi chiedo e non mi rispondo. Come se le domande
fossero lecite, ma le risposte rimanessero nascoste, fuori di me, o a me
precluse.
PRINCIPI DELL'ESSERCI. A me pare che da questa constatazione, anche
fermandomi a questo stadio dello svolgimento del mio essere, si ponga la
necessità o il desiderio di continuare a esserci e di stabilire dei
principi perché io sia e continui a essere. Però anche la percezione
della presenza dell'altro pone la necessità di principi che mi permettano
di essere, consentendo a tutti di esserci, poiché il mio esserci non mi
appare diverso dall'esserci dell'altro. La consapevolezza dell'esserci
comporta così principi che riguardano il continuare a esserci.
Penso alle spiegazioni del mondo: l'uomo è parte dell'universo, il cui
inizio con un "big bang" attiva una materia inerte e,
all'interno di una serie di processi che da quel momento si dipartono, si
giunge all'uomo. Ma esiste la questione della materia, che, pur inerte,
c'era e che comincia, ma in un caso e nell'altro è alla base dell'uomo
che non c'era, eppure era dentro quella materia di cui mi chiedo perché
mai era, invece che non essere affatto. E anche spostando la questione del
divenire, il quesito dell'esserci piuttosto del non-esserci vale pure per
quella materia inerte che conteneva però potenzialmente l'universo e
l'uomo.
Oltre al "big bang", che sempre più acquista una dimensione
figurata e potente, si presenta il caos che, in modo analogo, coagula un
potente destino che riesce a creare e a organizzare l'universo e persino
la coscienza, conservando un ordine tale da contenere in sé il mondo
intero e l'organizzazione del mio cervello. Questo, oltre a ricordare e a
porre questioni, avverte i sentimenti e persino la paura di essere
incapace di comprendere e di sapere perché mai l'uomo è e perché invece
non sia affatto, come il nulla.
Cominciamo, così, di nuovo, e io percepisco la sensazione straordinaria
dell'esserci, e semmai temo il momento in cui, pur essendoci stato, non
sarò più.
testo
integrale tratto da "Avvenire" - 3 settembre 2006