FEDE, POLITICA, PREGIUDIZI: PERCHÉ DALLE TRE
RELIGIONI MONOTEISTE NASCE L’INTOLLERANZA
Dio, un solo padre e tante
violenze
11
settembre 2002
di Enzo Bianchi
A un anno di distanza dai
tragici eventi dell'11 settembre - che, più che cambiare
radicalmente la storia e il mondo, ci hanno reso tutti più
consapevoli della violenza mortifera di cui sono carichi i conflitti
planetari in atto e dell'imbarbarimento nei rapporti tra interi
popoli e singole persone - credo sia opportuna una riflessione sulle
tre religioni monoteiste come potenziali veicoli o, addirittura,
istigatrici di intolleranza.
Ritengo si possano distinguere
tre ambiti in cui si è storicamente manifestata l'intolleranza: nei
rapporti dei monoteismi fra di loro, all'interno di ciascun
monoteismo e nei rapporti tra i monoteismi e gli altri uomini: i
«pagani», i «non credenti», gli «infedeli».
Innanzitutto, se ebraismo,
cristianesimo e islam si rifanno all'unico Dio e si riconoscono
discendenti di Abramo, padre di tutti i credenti nel Dio unico,
questa comune eredità è divenuta, come spesso nelle famiglie, motivo
di gelosia, di opposizione e perfino di violenza.
Ciascuno dei tre monoteismi è
stato persecutore e perseguitato nei confronti dell'altro monoteismo
- certamente in misure molto diverse e da valutarsi storicamente in
maniere differenziate (si pensi al rapporto ebraico-cristiano, in
cui non vi è la ben che minima comparabilità tra le persecuzioni
ebraiche contro i primi cristiani e il plurisecolare antigiudaismo
cristiano, la cui influenza non è stata estranea alla Shoah) - o
comunque è stato in rapporto conflittuale e di rivalità con esso.
Per il secondo ambito, va
osservato che molti periodi storici insegnano che le tre religioni
hanno saputo convivere pacificamente tra loro e hanno invece rivolto
al loro interno l'attitudine inquisitoria e persecutoria. Mostrando
così che il rapporto del monoteismo con la tolleranza non è solo il
problema dell'altro, ma anzitutto il problema del medesimo.
Si può pensare, in campo
cristiano, alle cruente repressioni degli eretici e alle lotte fra
cattolici e riformati e, in campo islamico, alle violente
repressioni dell'ortodossia islamica nei confronti di sette
eretiche, per esempio, durante l'Impero ottomano.
Nell'ambito ebraico, così
pluralista e tollerante al proprio interno, si può pensare alla
questione delle sette giudaiche all'epoca del secondo tempio, alle
opposizioni e agli ostracismi conosciuti dal movimento chassidico al
suo sorgere o ai difficili rapporti tra ortodossi, riformati e
conservatori in epoca moderna e contemporanea.
Lo stesso affermarsi di
divisioni, scismi, scissioni e il nascere di sette e movimenti
all'interno di ciascun monoteismo risponde in definitiva a una
radicalizzazione della coscienza del primato della propria credenza
e alla volontà di esprimere al meglio e in pienezza il messaggio
autentico della religione stessa.
Infine, il problema
dell'intolleranza verso «gli altri» riguarda essenzialmente il
cristianesimo e l'islam, in quanto l'ebraismo, pur avendo conosciuto
qualche sussulto di proselitismo, non ha sostanzialmente mai
interpretato la propria vocazione a essere «luce delle genti» nel
senso di quello zelo missionario che ha suscitato in cristiani e
musulmani la volontà di «rendere gli altri uguali a sè» convertendo
l'umanità alla propria fede.
Detto questo, non ritengo
tuttavia sostenibile l'accusa di autoritarismo, violenza, fanatismo,
integrismo, intolleranza rivolta alla forma monoteista in quanto
tale. Questo è certamente uno dei rimproveri che i contemporanei
propugnatori di una rinascita del politeismo pagano rivolgono al
monoteismo. Nella lettura che costoro fanno, il monoteismo vorrebbe
imporre un solo cammino di verità alla molteplicità della vita,
rifiutando le differenze e imponendo il proprio punto di vista come
l'unico «vero» ed esercitando così una tirannia sulle coscienze.
Esso veicolerebbe l'ossessione
dell'unico e dell'omogeneo, condurrebbe alla svalutazione
dell'altro, generando società totalitarie e ponendosi come garante
ideologico a servizio di un potere politico. Al contrario, sempre a
giudizio di questi pensatori, il politeismo rifletterebbe la
molteplicità di popoli, culture e valori e perfino della mente
umana.
In realtà risulta difficile non
notare la funzionalità politica del politeismo alla religione
imperiale romana e l'intolleranza mostrata nella reazione
persecutoria contro i cristiani. Quando la Roma pagana condannava a
morte i cristiani per il loro rifiuto di professare il politeismo,
era forse più umana dei monoteismi che hanno obbligato chi ancora
restava pagano a rinnegare la propria fede?
Per quanto riguarda il
cristianesimo, che nei primi secoli è stato essenzialmente religione
di martiri e confessori della fede, si può affermare che la svolta
verso il monoteismo politico è avvenuta con il teologo di corte
Eusebio di Cesarea, nel IV secolo. Per Eusebio l'imperatore
Costantino rappresenta Cristo e ne manifesta il ruolo unificatore:
vi è un solo imperatore come vi è un solo Cristo e un solo Dio.
L'alleanza fra religione e
potere politico ha così segnato l'epoca della cosiddetta cristianità
ed è stata all'origine di intolleranza, violenze, guerre. Ma è anche
vero che non questa è la verità del cristianesimo, bensì una sua
forma di realizzazione storica che oggi molti cristiani sono pronti
a dichiarare indebita.
Il problema non mi pare allora
risiedere nel monoteismo in quanto tale, ma nel suo uso: è questo
che lo può rendere funzionale a un regime politico e dunque fattore
di inimicizia e divisione tra gli uomini. La deriva ideologica del
fatto religioso è sempre in agguato: lo stesso cristianesimo conosce
oggi la tentazione della sua funzionalità sociale nella forma della
«religione civile».
Deriva ideologica, sempre
potenziale fomentatrice di violenze, che si registra quando il
connotato di evento della religione passa in secondo piano rispetto
all'aspetto istituzionale, quando si strappa l'immaginario religioso
dal suo orizzonte mistico per renderlo funzionale a un orizzonte
etico.
E' sul piano dell'autenticità
della testimonianza che si manifesta come i monoteismi intrattengono
con il potere rapporti non solo di connivenza o di giustificazione,
ma anche di critica.
Non è questa la lezione dei
profeti biblici e dello stesso Gesù di Nazaret?
Non è ciò che hanno vissuto i
martiri cristiani di ogni epoca?
E nell'islam non troviamo forse
figure come quella di Hallâj, consigliere di corte, incapace di
qualsiasi piaggeria al punto da finire messo a morte come martire?
E come dimenticare, in tempi più
vicini a noi e all'interno del monoteismo ebraico alla lotta di
Martin Buber contro la strumentalizzazione politica della teocrazia
biblica presente nel sionismo politico?
Forse è di testimoni come questi
che ha bisogno, oggi più che mai, il nostro mondo globalizzato.