L'umanità violata dell'Africa
Il liberismo sta distruggendo il «continente nero».
Non soltanto le sue risorse ambientali ed economiche ma anche le relazioni
sociali legate al rapporto con la natura
di AMINATA D. TRAORE*
L'idea che la maggior parte degli africani ha finora
avuto del presente e dell'avvenire era che la morte, inevitabile, fosse tuttavia
tollerabile, purché non mancasse una generazione a sostituire l'altra. Durare
era la possibilità di sopravvivere a se stessi. Nessuna persona era considerata
povera fintanto ne esisteva un'altra su cui la prima potesse contare. Di qui
aveva origine, nelle nostre società, la decisiva importanza della procreazione:
in termini non soltanto di numero di figli, ma anche e soprattutto di persone -
uomini e donne - di qualità (salute fisica e mentale, socievolezza, moralità)
che prolungano la vita e la rendono perenne. Si prendeva ogni precauzione per
evitare che il fuoco si spegnesse. L'alleanza con la natura, le diverse forme di
solidarietà, erano la garanzia di questa perennità, ben più forte della capacità
di durare. Con un sacrificio (cola, latte, farina) si implorava il
perdono di un albero che si stava per abbattere, o, prima di arare, quello della
terra che si era in procinto di ferire. I primi raccolti erano l'occasioni di
manifestazioni culturali che raccoglievano la popolazione e ricordavano
l'imperiosa necessità di andare d'accordo con l'ambiente per governarlo.
Naturalmente erano forme di esperienza e di conoscenza di vita che fanno
sorridere più di un tecnocrate. Gli stati post-coloniali si sono convertiti alla
loro nuova religione, piena di promesse. Ma a tanti anni dalle indipendenze
aspettiamo ancora che vengano mantenute.
E' magnifico che il continente africano, a dieci anni dal vertice di Rio,
accolga la conferenza mondiale sullo sviluppo sostenibile nella sua
Johannesburg. Ma lo sviluppo, oltretutto sostenibile, non è che una parolona,
una parola d'ordine in più. Ed è tanto più dubbia poiché si iscrive nella
missione «civilizzatrice» delle potenze coloniali, ma questa volta con
l'appoggio e la complicità delle elite locali, che a loro volta, illudono e
assoggettano i loro popoli. La globalizzazione liberista è il quadro logico di
questa impostura. I suoi scacchi e le sue tempeste non ci scoraggiano,
soprattutto una volta che l'autorevole voce di Joseph Stiglitz, già capo
economista della Banca mondiale e premio Nobel per l'economia ha detto che «oggi
la globalizzazione non funziona per i poveri del mondo, come non funziona per
l'ambiente, come non funziona per la stabilità dell'economia mondiale».
L'Africa, più di ogni altro continente, avrebbe dovuto riassestarsi alla luce di
tutto ciò che sappiamo sul sistema economico dominante e dei mea culpa di
Fondo monetario internazionale e Banca mondiale. Niente. I nostri dirigenti
preferiscono perdere la sfida e riempire il granaio con i dividendi della
subordinazione. Gli investimenti eccessivi in infrastrutture costose e raramente
necessarie che però contribuiscono all'accumulo del debito estero, sono il loro
maggiore interesse. Lo testimonia l'ultima trovata: la Nuova associazione per lo
sviluppo dell'Africa (Nepad). I padri di questo progetto neoliberista, il più
ambizioso mai immaginato dai dirigenti africani, sono fiduciosi e sereni. E
questo nonostante le messe in guardia da parte di numerose organizzazioni della
società africana.
I soci che si sono trovati e che passano avanti ai loro popoli, come il G8, il
Fondo monetario, la banca mondiale, il Wto, non sono sinceri nelle loro
risoluzioni di lotta contro la povertà, o di protezione dell'ambiente. Le piogge
torrenziali che si abbattono su una parte del nord del pianeta, le siccità e le
carestie nell'Africa australe e che raggiungono ormai l'Africa dell'Ovest, non
bastano a far cambiare idea ai sostenitori del «mercato totale», in particolare
la potentissima amministrazione americana. La sua arroganza non ha limiti, che
si tratti della riparazione per i pregiudizi subiti dai discendenti di africani
deportati come schiavi (conferenza di Durban), delle sovvenzioni alle
esportazioni agricole (vertice di Roma dell'organizzazione dell'Onu per
l'alimentazione e l'agricoltura - Fao) del finanziamento allo sviluppo
(conferenza di Monterrey) , o delle emissioni di gas di serra (protocollo di
Kyoto), della corte penale internazionale, ecc.
Sono piaghe aperte e dolorose quelle causate da oltre quaranta anni di sviluppo,
compresi due decenni di aggiustamento strutturale sotto la guida dell'Fmi e
della Banca mondiale e dieci anni di preteso sviluppo sostenibile. Imbarcati, a
loro insaputa, in queste strategie, africani e africane vivono, in grande
maggioranza in situazioni di estrema precarietà. Analfabetismo, mancanza di
lavoro, sottoalimentazione, carestie e malattie continuano, devastanti. Le
popolazioni sono tanto più vulnerabili, quanto i loro riferimenti culturali sono
divenuti confusi o resi inoperanti. E' certo che le popolazioni si sforzano di
inventarne di nuovi, in ogni settore; e resistono come possono, con esiti più o
meno validi. Il ripiegamento identitario, l'individualismo, il fanatismo,
l'esilio, la violenza, la follia sono, in Africa, altrettanti luoghi di rifugio
per le vittime dello sviluppo e della globalizzazione mercantile.
Le migrazioni che tanto ossessiano le leadership dei paesi ricchi devono essere
rilette alla luce di questa tragedia. Se c'è insicurezza, essa colpisce
soprattutto donne, bambini, lavoratori, contadini, anziani e handicappati, che
continuano a essere maltrattati e impoveriti in nome dello sviluppo. Gli uomini
e le donne partono perché non sanno più come dare senso alla propria esistenza
sulla propria terra.
Nelle zone di partenza (città, quartieri, villaggi) gli africani privi di fonti
di reddito e di mezzi di sussitenza, vivono nel timore di scomparire fisicamente
a causa dell'aumento del prezzo della derrate alimentari e della privatizzazione
dei servizi pubblici, soprattutto delle cure sanitarie. I malati che non sono in
grado di pagare sono condannati a morire. La sopravvivenza deve fare i conti con
il lavoro minorile, lo sfruttamento delle donne, la miseria, la prostituzione
(malgrado l'Aids), le rapine a mano armata...
Allo stesso tempo, i legami sociali si sfilacciano, i punti di riferimento si
attenuano e le risorse naturali si rarefanno ad un ritmo spaventoso. Le foreste
vengono saccheggiate dalle multinazionali per il legno di costruzione, dalle
famiglie povere per il legno da riscaldamento e come fonte di guadagno. La
pressione demografica, a cui il discorso dominante imputa la responsabilità di
questa situazione, è certo un vincolo notevole, la cui soluzione può e deve
tuttavia essere trovata nell'educazione, soprattutto quella delle donne.
Quando ne va dei loro interessi, i potenti del mondo travestono i mali del
pianeta in soluzioni, confiscano le risorse finanziarie e imbrogliano, definendo
tra loro le regole del gioco. La fame - che colpisce 800 milioni di persone nel
mondo, la maggioranza delle quali si trova in Africa - lancia oggi più che mai
una sfida ai sostenitori dello sviluppo durevole. La pandemia dell'Aids, che sta
decimando le popolazioni del continente mentre potrebbe essere arginata, gliene
lancia un altra, diretta anche alle élite africane, che continuano a sbagliare
nella scelta dei propri partner.
Cosa ci possiamo aspettare dal vertice di Johannesbourg, in un contesto
internazionale così segnato dall'unilateralismo degli Stati uniti, dal doppio
linguaggio, dalle esitazioni e dai tradimenti dell'Europa, dall'onnipresenza,
dall'ingerenza e dall'impunità dell'Fmi e della Banca mondiale in Africa, dalla
corruzione, dalla miopia dei dirigenti africani e dalla strumentalizzazione dei
tenetivi di organizzazione delle società? E' poco probabile che gli stati
industrializzati, devastati dalle conseguenze dell'11 settembre e dalle valange
di scandali finanziari di questi ultimi mesi (Enron, Worldcom, Xeros, Vivendi
Universal, e così via) si mostrimo più attenti che in passato ai mali del nostro
continente.
Come definire, allora, questa speranza legittima di riacquisire i nostri diritti
economici, politici, sociali e culturali, quando le parole suonano false? Perché
non dare provare di creatività pescando, nel ricco patrimonio linguistico del
continente, concetti che parlano dell'umano e del suo ambiente e che abbiano
senso per i popoli? Quello dello sviluppo (antinomico alla nozione di durabilità)
e quello della globalizzazione liberale discendono dalla stessa logica
disumanizzante. Si tratta, per l'Africa, di opporgli principi di vita, oltre a
valori che privilegino l'umano: l'umiltà contro l'arroganza, la comprensione e
la preoccpuazione per l'altro, soprattutto nei confronti delle generazioni
future, di fronte alla logica dell'ognun per sé.
Questo sfrorzo di creatività compete soprattutto alle organizzazioni delle
società africane. Sono loro a dover far emergere una massa critica di cittadini
e cittadine che afferrino la vera natura del sistema mondo, e imprimano
all'apertura politica un senso diverso dalla mercificazione dell'Africa.
*Questo articolo di Traore, già
ministra della cultura del Malì, è stato scritto in occasione del vertice di
Johannesburg e uscirà tra qualche giorno nell'edizione francese di «Le Monde
diplomatique»
testo integrale tratto da "Il Manifesto" 29 agosto 2002