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Dispersione scolastica
Che anno sarà per quelli che siedono all'ultimo banco? Cesare Moreno,
coordinatore e maestro dell'unica scuola di strada riconosciuta in
Italia (il Progetto Chance dei Quartieri Spagnoli di Napoli), ha un'idea
chiara: «Se uno carica una nave con vasi di
coccio e di vetro, e durante la traversata trova il mare in tempesta,
può stare certo che all'arrivo avrà perso una parte del carico. Ecco
cosa succederà al 15-20% degli studenti più fragili, in una scuola nella
prospettiva di tagli, polemiche, supplenti demotivati e classi divise».
Non riesce a essere ottimista, Cesare Moreno. Degli ultimi della classe,
intrattabili e fragili come il vetro, Moreno se ne intende.
Ogni anno arrivano al Progetto Chance, seguiti da operatori sociali e
maestri, più di 100 ragazzi che con la scuola tradizionale non volevano
più avere niente a che fare. Sono la cartina tornasole di un problema
che in Italia riguarda circa 100mila ragazzi ogni anno, con percentuali
d'abbandono crescenti man mano che aumenta il grado d'istruzione,
fino a un picco del 14% di abbandono durante il
primo anno di scuola superiore (dati Istat).
«Un elemento grave, su cui la scuola deve interrogarsi.
Perché se l'abbandono durante le elementari e le
medie dipende da un contesto di disagio familiare, quello alle superiori
sposta il problema sulle capacità della scuola di istruire e motivare.
In questa fascia d'età, tra i 15 e i 18 anni, la dispersione è
volontaria e consapevole, alimentata al Nord da un mercato del lavoro
che tira, al Sud dal lavoro nero», spiega Moreno. «Per non parlare della
dispersione “da corridoio”, quella
dei ragazzi che non abbandonano la scuola ma è come se non la
frequentassero, tollerati e ignorati fino al diploma. è evidente che ci
troviamo di fronte a un problema d'integrazione
scolastica che s'intreccia con un problema d'integrazione sociale,
per il quale fino a ora non è stato fatto molto più che dichiarazioni di
principio».
Una critica che non riguarda solo l'attuale gestione di governo. «Sulla
dispersione era stata fatta un'ampia relazione anche un paio d'anni fa,
alla commissione Cultura della Camera, che ha rappresentato una forte
denuncia della situazione», sottolinea Moreno. All'indagine conoscitiva
aveva partecipato anche uno degli attuali sottosegretari, Valentina
Aprea: il testo che ne era risultato prendeva atto «di rilevanti tassi
di dispersione nella scuola superiore» e «di una ragguardevole distanza
tra il grado di scolarizzazione espresso dalle classi più giovani di età
in Italia e quello espresso dalle classi omologhe nei più avanzati Paesi
occidentali».
Tra gli obiettivi proposti nella relazione era stata fissata
l'importanza strategica di portare a 18 anni il “diritto allo studio”
dei giovani; reclutamento e maggiori incentivi per il personale
preparato a intervenire nelle zone più difficili; promozione di maggiori
scambi ed esperienze tra mondo della scuola e mondo del lavoro.
A tutti questi elementi propositivi, d'altra parte, non è ancora stata
data attuazione e le prospettive aperte dalla riforma Moratti lasciano
aperti molti interrogativi. Ciò che preoccupa maggiormente Moreno è la
dicotomia netta tra istruzione e formazione. «In questa “separazione
delle carriere” c'è più ideologia che buon senso», commenta Moreno. «Tra
puro fare e puro pensare ci deve essere una via di mezzo: sappiamo tutti
che chi non sa ragionare non è un buon operaio. Insomma, penso che la
formazione professionale sia un'ottima opportunità, ma solo quando è
inserita all'interno di un progetto educativo
globale».
Una sollecitazione importante per il governo, che però fino ad ora si è
mosso «in una prospettiva molto delicata senza dare spazio alla
riflessione e al dibattito», con il rischio di mettere a contatto solo
il peggio dei due fronti, «il peggio della scuola e il peggio del
lavoro, a uso e consumo di chi è troppo fragile per stare al passo con
gli altri», conclude il maestro.
I figli degli immigrati
Sull'ultimo banco stanno seduti anche i figli degli immigrati. Che non
sono più in pochi. Se nel 1983/84 erano 6.104, oggi (dati 2001) sono ben
147.406. Solo negli ultimi due anni si è registrato un balzo di circa
65mila unità che, però, non ha colto impreparato il sistema normativo
italiano. Da dieci anni a questa parte, infatti, il legislatore ha
ricamato alla perfezione l'abito dell'integrazione.
Silvana Cantù è consulente per il settore scuola della fondazione Ismu
(Iniziative e studio sulla multietnicità) e vanta un passato recente da
insegnante di italiano lingua 2 (ovvero per gli studenti che parlano
un'altra lingua madre) nella scuola elementare di via Bergognone a
Milano. E lei, insegnante di frontiera, ha solo parole al miele per
descrivere i passi in avanti che si sono fatti dal 1990, quando «per la
prima volta, e in anticipo rispetto ai nostri dirimpettai europei, in
Italia si è iniziato a parlare di insegnamento agli stranieri e di
integrazione interculturale». Il fiore all'occhiello di tanti sforzi è
stata la creazione della figura del mediatore
culturale che, assieme ai laboratori interetnici e al docente
facilitatore, «riuscivano a costruire obiettivi comuni a tutta la
classe, anche partendo da radici diverse», ricorda la Cantù.
Oggi però siamo di fronte a un paradosso. La nostra scuola è come una
Formula uno ferma ai box, in cui nessuno ha più intenzione di versare
una goccia di carburante. «è così«, conferma la docente milanese. «La
riforma Moratti non è ancora passata al vaglio delle Camere, ma sembra
proprio che il vento abbia cambiato direzione».
A livello di scuole superiori, il mediatore culturale sarà presto un
felice ricordo, ma l'era dell'integrazione scolastica potrebbe essere al
capolinea anche per le medie e per le elementari. «Fino a oggi ci siamo
serviti», argomenta la Cantù, «di un modello integrativo consolidato,
alimentato anche da investimenti economici importanti». La riforma
Moratti non tocca quest'impalcatura, è vero, ma rischia di tagliare i
rifornimenti. «La contrazione del numero dei
docenti e la scomparsa del mediatore culturale, determinate
dall'annunciato taglio delle risorse, comporteranno effetti dirompenti»,
ipotizza la Cantù. «Si va verso una scuola a
due velocità: una per i ragazzi italiani e una per cinesi, peruviani,
filippini e maghrebini che, non parlando bene l'italiano e avendo
abitudini diverse, saranno emarginati. «Ho paura di tornare a
sentire, nei collegi docenti, frasi del tipo:
“i nostri alunni, mentre gli altri..”. Ma tutti sono “nostri”
alunni!», si scalda la docente.
Una situazione che ha già destato i primi allarmi. Come in Lombardia,
dove la Regione ha voluto mettere le mani avanti. Un accordo firmato
dall'assessore all'Istruzione, Alberto Guglielmo con il sindacato
autonomo Snals annuncia nuovi strumenti per battere «la lotta alla
dispersione scolastica in relazione ai fenomeni dell'immigrazione».
Disabili e sostegno. L'aritmetica non torna
Salvatore Nocera, vice presidente della Fish - Federazione italiana
superamento handicap, malgrado l'anno scolastico sia iniziato da poche
ore, non si fa pregare e consegnando la pagella alla Moratti le assegna
un'insufficienza grave. Spiega Nocera: «Non l'abbiamo mai vista, un
fantasma. Si è sempre negata al dialogo con le associazioni». Latitanza
confermata anche da Nicola Quirico, presidente della Fadis, la
federazione che riunisce gli insegnanti di sostegno.
Così, mentre il numero degli studenti disabili aumenta («questo
dipende», spiega Nocera, «dal miglioramento delle tecniche mediche di
assistenza al parto, che ormai permettono di salvare la vita a un numero
sempre maggiore di bambini con handicap, e dall'innalzamento dell'età di
obbligo scolastico»), sul versante insegnanti di sostegno navighiamo a
vista. Per dirla con i numeri: per 129.154
studenti disabili certificati nel 2001, sono stati impiegati solo 43.260
insegnanti di ruolo e quasi 28mila docenti precari (una buona fetta dei
quali con incarichi annuali). «Il risultato», attacca
Quirico, «è che troppi ragazzi finiscono le
scuole medie dopo aver cambiato 10 insegnanti di sostegno. Mi dite voi
in queste condizione come si possono portare avanti progetti
pluriennali?».
Anche in questo caso dal ministero non sono arrivate risposte. Nocera
rincara la dose e getta sul piatto i tre pilastri di una possibile
riforma del comparto handicap. «Problema numero uno: la formazione delle
classi. Dobbiamo superare il rapporto di un
insegnante di sostegno ogni 138 frequentanti». Secondo il
vicepresidente della Fish, «il rapporto ideale sarebbe di un insegnante
di sostegno ogni 2 studenti disabili. Inoltre, deve essere rispettata la
proporzione, fissata per legge, secondo cui una classe con un disabile
non può avere più di 25 alunni; nel caso i disabili siano due, la classe
non può essere composta da più di 20 studenti».
Su questo punto Nocera è pronto a scatenare gli avvocati: «Non sono
ammissibili situazioni come quella di una scuola di Bologna dove c'è una
classe di 27 alunni, di cui cinque con handicap. O come quella di una
scuola milanese con 47 alunni disabili e solo 7 insegnanti di sostegno».
Secondo punto: l'assistenza educativa e il
trasporto a scuola. Ancora Nocera: «Questo servizio spetta ai
Comuni per le medie e le elementari, e alle Province per le superiori.
Di fatto, però, né gli né gli altri se ne fanno carico».
Il mirino di Nocera si sposta, infine, sui bidelli: «Il terzo punto è
l'assistenza igienico-sanitaria. Con l'attuale normativa ci troviamo di
fronte a un colossale cortocircuito: da una parte la legge impone ai
dirigenti scolastici l'obbligo di assistenza ai disabili indicando i
bidelli come esecutori materiali del compito, dall'altra si dice che i
bidelli hanno solo la facoltà, e non l'obbligo, di prestare questo tipo
di servizio, con un incentivo di circa 500mila euro nette all'anno.
Risultato, scontato: i ragazzi e i loro familiari
si devono arrangiare come possono».
L'inchiesta completa su “Quelli dell'ultimo banco”, su
Vita in edicola
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