EDITORIALE
Il fantasma della crescita
GALAPAGOS
Alle previsioni macroeconomiche «fasulle»
ormai abbiamo fatto il callo. Più difficile da digerire gli «errori» nei
consuntivi e non solo quando i bilanci sono truccati per rendere più appetibili
agli investitori determinate società. La notizia arrivata ieri dagli Usa è
quantomeno stupefacente: negli ultimi anni la
crescita del Pil è stata meno straordinaria di quanto finora era stato vantato,
soprattutto in Europa (e in particolare in Italia) per cercare di
imporre un modello «miracoloso» fondato sulla flessibilità. Per
limitarci al 2001, ci hanno fattosapere che il prodotto lordo non è aumentato
del modesto 1,2% sul 2000, come comunicato in precedenza, ma di appena lo 0,3%.
Di più: l'economia era in recessione (-0,6%) già dal primo
trimestre e la caduta si è approfondita (-1,6%, invece del +0,3% che ci avevano
fatto credere) nel secondo trimestre e anche nel terzo (-1,3%).
Insomma, quando le twin tower vengono abbattute, gli
uomini di bin Laden non hanno affatto bloccato una ripresa in atto, ma
paradossalmente l'hanno favorita. E questo grazie alla spinta fornita da una
straordinaria impennata della spesa pubblica per larga parte destinata
all'industria bellica.
Ieri il Dipartimento al commercio ci ha fatto anche sapere che nel secondo
trimestre dell'anno il Pil è cresciuto dell'1,1%. Il dato, com'è consuetudine
delle statistiche Usa, oltre che destagionalizzato è anche annualizzato. Il che
significa proiettare la crescita del trimestre, rispetto al trimestre
precedente, su base annua. Il che si ottiene, molto banalmente, moltiplicando
per quattro la crescita del secondo trimestre. L'1,1% di incremento annualizzato
del Pil è una variazione estremamente contenuta e deludente. Non solo inferiore
alle attese, ma (ammesso che i dati dicano il vero) preoccupante perché deriva
da una forte frenata dei consumi (nonostante la generosa politica monetaria e in
particolare dei bassi tassi di interesse), da una nuova caduta degli
investimenti e delle vendite. In forte crescita, invece, le importazioni, che
hanno fatto un balzo del 23,5%, la maggiore performance dal 1984. Importazioni
favorite da un dollaro ancora forte, la cui forza, però, non ha radice nella
salute dell'economia, ma ha un retroterra imperiale.
E Washington non sembra intenzionata a mollare il suo ruolo imperiale. Un po'
perché all'Europa e al Giappone esportare non dispiace; un po' perché se il
dollaro abdica sono guai sul fronte dei prezzi dei prodotti importati e di
riflesso sui prezzi al consumo: uno dei maggiori rischi dell'economia Usa è
ripiombare in recessione, ma se cede il dollaro la caduta del Pil sarà
accompagnata da una impennata dei prezzi. Una miscela esplosiva che spinge
l'amministrazione Usa a far esplodere prima altri paesi. L'Iraq, ad esempio. E
non per la difesa della democrazia.
tratto interamente da "Il Manifesto" - 1 Agosto 2002