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GLOBALIZZAZIONE, DEBITO DEI PAESI POVERI, INVESTIMENTI DEI RICCHI: LE SFIDE APERTE AL VERTICE DI JOHANNESBURG
di Chiara Saraceno
Per questo richiede comportamenti,
iniziative, sistemi di priorità che pongano al proprio centro
la questione dell'interdipendenza - tra paesi, ma anche tra
dimensioni e sfere diverse. Non si tratta solo di
considerare gli effetti sociali (sulle disuguaglianze, sulla povertà) e
politici (sui conflitti intra- e inter-nazionali) delle decisioni
economiche. Si tratta anche di considerare gli effetti sociali e ambientali
sia dei comportamenti economici, che di quelli demografici che di consumo.
Certo la storia dei vari vertici mondiali non apre a grandi speranze sul successo di questo. Esso fa seguito al vertice mondiale di Rio nel 1992, dal titolo ambizioso di «Vertice sulla terra». Da quest'ultimo era scaturito un altrettanto ambizioso documento - l'«Agenda 21» - che impegnava tutti i paesi a intraprendere iniziative in pressoché tutti i campi pensabili e allo stesso tempo li impegnava a stanziare finanziamenti consistenti, in particolare per aiutare i paesi in via di sviluppo ad accedere alle tecnologie rilevanti e a garantire ai propri abitanti l'accesso al cibo, all'acqua, all'abitazione, all'istruzione, alla salute. Dieci anni dopo, un documento preparatorio dell'ONU per la conferenza di Johannesburg deve ammettere che il sostegno dei paesi allo sviluppo non solo non è aumentato, ma è diminuito: dallo 0.33% del prodotto interno lordo dei paesi donatori allo 0.22% - ben al di sotto dello 0.7% stipulato, appunto, a Rio. E' vero che nello stesso periodo, i flussi finanziari privati ai paesi in via di sviluppo sono più che triplicati, arrivando ai 185 bilioni di dollari nel 1999. Ma l'80% di questi investimenti è andato a solo 10 paesi in via di sviluppo, mentre i paesi meno sviluppati sono riusciti ad attirarne solo il 2,5%, in una riedizione planetaria della parabola evangelica dei talenti: quanto meno uno ha, tanto meno riceverà. Complessivamente il peso del debito da parte dei paesi in via di sviluppo è aumentato da 1.3 trilioni di dollari nel 1991 a 2.2 trilioni nel 2000, nonostante qualche limitata iniziativa di cancellazione. E si è molto lontani dall'obiettivo di dimezzare la povertà - che riguarda chi vive con meno di 2 dollari al giorno - entro il 2015, benché vi sia qualche piccolo indicatore di miglioramento. E' per altro difficile pensare che paesi tenuti a ripianare debiti così gravosi possano effettuare quegli investimenti in istruzione, servizi per la salute, per l'accesso ad una quantità sufficiente di acqua pulita e di cibo, necessari non solo per far sopravvivere una popolazione che continua a crescere, anche se in modo più contenuto del previsto, ma per evitare un uso incontrollato delle loro risorse, la desertificazione e la deforestazione dei loro territori, oltre che una crescita enorme della popolazione urbana e delle periferie più degradate. Come segnalano i documenti ONU e il documento preparatorio della Banca Mondiale, infatti, nonostante la crescita demografica abbia subito un rallentamento smentendo le previsioni più pessimistiche, nel 2030 oltre il 60% della popolazione del mondo vivrà in città, e spesso in mega-città con oltre 10 milioni di abitanti. Una grossa quota vivrà nelle bidonvilles in rapida espansione in America latina come nei paesi africani e nell'estremo oriente. Se non si possono ignorare le responsabilità dei paesi in via di sviluppo stessi e dei loro governi rispetto a questi fallimenti e a questi rischi, non si possono neppure negare quelle del mondo sviluppato. Non mi riferisco solo alle responsabilità del passato, ma ai comportamenti del presente. Gli obiettivi della Agenda 21 sono stati smentiti dall'accordo sulle tariffe e sul commercio della Organizzazione mondiale del commercio (WTO). Esso ha imposto l'apertura delle frontiere dei paesi in via di sviluppo alle importazioni agricole, anche di prodotti che possono uccidere la bio-diversità, vanificare le competenze locali, creare dipendenza; viceversa non ha impedito ai paesi sviluppati di continuare a sussidiare la propria produzione agricola, con effetti di concorrenza sleale rispetto ai paesi meno sviluppati. E la situazione di monopolio in cui operano i mediatori tra i prodotti dei paesi in via di sviluppo e il resto del mondo è tutto fuorché un mercato, cieco ma neutrale. Per altro, la vertenza giudiziaria tra il governo del Sudafrica e le case farmaceutiche sulla possibilità di superare il vincolo dei brevetti per accedere a medicine essenziali per curare l'AIDS ha mostrato come non ci si possa affidare puramente alle leggi del mercato e che questo è ben lungi dall'essere automaticamente un equilibratore e suscitatore di risorse - neppure nel mondo sviluppato. Se non ci si può affidare solo al buon cuore né dei governi e delle loro popolazioni né tanto meno dei mercati, forse è più conveniente puntare sull'egoismo in un mondo consapevole di essere interdipendente. L'illusione di potersi rifugiare in fortezze imprendibili da cui guardare da lontano alle vicende degli altri, e imporre loro le proprie convenienze; è finita, anche se taluni comportamenti dell'Occidente e in particolare degli USA fanno pensare il contrario. E' giunto il momento in cui "farsi carico" di uno sviluppo sostenibile per tutti non può più essere più il fragile frutto di un atto di buona volontà, ma una scelta intenzionale di auto-conservazione: per se stessi e per i propri figli e nipoti. Un summit, pur con tutta la sua retorica e inevitabili delusioni, può aiutare a sviluppare questo tipo di atteggiamento, dall'alto, ma anche dal basso. Non si tratta infatti solo di stanziare risorse, ma anche di modificare comportamenti di consumo e modelli di benessere. E' interessante da questo punto di vista che accanto agli impegni che dovranno prendere i governi la conferenza di Johannesburg si propone di definire anche una serie di impegni tra imprese, associazioni, governi locali, intesi a metterli concretamente in pratica. Gli uni non sostituiscono gli altri, ma sono mutuamente necessari: sia per dare seguito sul terreno alle decisioni prese dai governi, sia per costruire un ambiente sociale favorevole alla maturazione di atteggiamenti culturali e comportamentali più adeguati ad un modello di sviluppo sostenibile perché consapevole delle interdipendenze. Tutto ciò richiede certo tempi lunghi, pazienza, attenzione e rispetto reciproci. E il tempo manca a chi nel frattempo non ha da mangiare o da curarsi. E forse comincia anche a mancare all'ambiente sempre più degradato. Ma se non ci si mette in questa prospettiva prevarrà solo la fretta delle operazioni di polizia internazionale e delle interminabili guerre locali e civili. testo integrale tratto da "La stampa" - 24 agosto 2002 |