le idee
COSA NOSTRA E LA SVOLTA FINANZIARIA


di GIOVANNI FERRO*

A dieci anni dalle stragi mafiose di Capaci e via D'Amelio, a consuntivo di un lungo periodo di altalenante e contraddittorio impegno dello Stato nella repressione del crimine organizzato, è certamente importante operare una valutazione attenta e approfondita delle condizioni in cui versa l'organizzazione criminale Cosa nostra, nella prospettiva di ricostruirne i possibili, futuri scenari; spetta, in primo luogo, agli inquirenti e alla magistratura dare delle indicazioni e fornire delle chiavi interpretative; un contributo di conoscenza possono darlo, poi, tutti quei ricercatori e studiosi che sull'argomento spendono con sacrificio energie e risorse intellettuali, e che soprattutto in questi ultimi anni hanno tentato di ricostruire le complesse cornici teoriche entro cui è possibile racchiudere le conoscenze sull'universo mafioso.
Sul tema esiste, tuttavia, anche un ambito di riflessione più squisitamente riservato alla politica.


La politica, a partire dal risultato delle attività di inchiesta della magistratura e dalle indicazioni che provengono dal mondo delle scienze sociali, ha il dovere di osservare se stessa, il territorio sul quale opera, le attività economicoproduttive con cui interloquisce, il delicato rapporto che la lega ai cittadini e alle istituzioni, per comprendere dove - anche al suo stesso interno - sia presente e quanto sia forte un'eventuale forma di condizionamento delle famiglie mafiose.
Sotto questo profilo, l'analisi di Giovanni Fiandaca appare piuttosto lontana dalla realtà che vivo dal mio modesto osservatorio politico. In questi mesi ho potuto constatare una rafforzata presenza del controllo mafioso del territorio; un controllo concreto e visibile che si vale della ritrovata presenza degli "uomini di rispetto" nelle strade di alcuni quartieri di Palermo, Catania, Trapani e Agrigento, e nelle piazze di piccoli e medi centri della provincia; un controllo che provoca una pesante ricaduta in termini di negazione dei diritti e delle libertà dei cittadini, a partire dal diritto a esercitare una libera attività economica, senza dover patire il sopruso dell'intimidazione e il ricatto dell'estorsione. Un controllo che attiva anche sotterranei flussi finanziari, che garantisce a vasti settori delle nostre città una ostentata e ingiustificata disponibilità di ricchezza. Un controllo che consente a Cosa nostra di esprimere anche una rappresentanza politica dei propri interessi, la cui consistenza se non si fa conto dei più recenti arresti operati dalle forze dell'ordine è stata più che efficacemente espressa dai detenuti di mafia sottoposti al 41 bis che hanno "richiamato" i loro referenti al rispetto dei patti elettorali.
Basta questo a prospettare il rafforzamento di Cosa nostra e il permanere immutato del suo potenziale criminale? No di certo; ma alla consapevolezza di un ritorno al solido controllo del territorio da parte delle famiglie mafiose, si accompagna anche la forte sensazione che il livello di condivisione degli interessi economicofinanziari di Cosa nostra si sia ormai notevolmente ampliato, fino a coinvolgere un'ampia fascia della classe dirigente del nostro Paese, molto più interessata al profitto e all'accumulazione del capitale, piuttosto che ai principi etici che richiamano legalità e trasparenza. Questo, si dirà, presuppone l'ipotesi che Cosa nostra nonostante i gravi colpi inferti dallo Stato fino alla prima metà degli anni Novanta disponga ancora di ingenti proventi economici, la cui gestione verrebbe pianificata con spregiudicatezza da raffinati consulenti e da alcuni settori dell'intrapresa economica. Questa, infatti, è l'ipotesi che noi riteniamo più plausibile.
Così come riteniamo che l'attuale fase di transizione di Cosa nostra all'insegna della sommersione e dell'invisibilità stia preparando la svolta mafiosa del nuovo millennio, con una riconversione e integrazione di gran parte dell'economia criminale nel circuito dell'economia legale nazionale ed europea. Già a metà degli anni Ottanta, le cronache e una serie di dati "oggettivi" (di natura economica, statistica e giudiziaria) mettevano in evidenza come Cosa nostra fosse già pronta ad affrontare il processo di globalizzazione dei mercati, accompagnandolo alla localizzazione di alcuni processi produttivi e di accumulazione, anche fuori dalla Sicilia e dall'Italia. Nel 1987, l'allora ministro degli Interni Fanfani metteva in guardia sugli investimenti in titoli operati da Cosa nostra che, asseritamente, gestiva oltre il 30 per cento del debito pubblico nazionale. Nel 1990 Giovanni Falcone lanciava l'allarme per la «mafia che investe in Borsa».
Ora vogliamo davvero credere che su questa strada, le potenzialità dell'organizzazione mafiosa si siano improvvisamente esaurite con l'arresto di Riina e di Bagarella? Davvero vogliamo tornare a considerare il problemamafia come un problema di ordine pubblico, che interesserebbe un esercito di assassini e grassatori? O vogliamo fare uno sforzo per interrogarci sulla consistenza delle responsabilità delle classi dirigenti del nostro paese rispetto all'affermazione del principio di legalità in economia e sui mercati finanziari? Per la verità, ho l'impressione che l'attuale maggioranza di governo a Roma come a Palermo non abbia alcun interesse a prodursi in cimenti di questo genere. Anzi, mi pare che Berlusconi e soci siano più preoccupati dall'emergenza prostituzione che dalle infiltrazioni mafiose nel mondo degli appalti e dell'economia. Né mi pare che una parte della sinistra mostri tanta più viva preoccupazione, essendo ben più angosciata dalle conseguenze che potrebbe sollevare il richiamo dell'impegno antimafia nel corso delle prossime campagne elettorali, che si è visto penalizzano non poco i candidati esposti sulla linea della moralizzazione e della difesa della legalità. E allora ben venga questo importante confronto acceso da Giovanni Fiandaca, a cui chiedo però di potere presto trovare un'occasione di approfondimento del dibattito, che certamente può presentare interessanti spunti di riflessione più propriamente "politica", anche in considerazione del ruolo di responsabilità che egli ricopre, quale riconosciuto leader del cosiddetto "movimento dei professori".


Giovanni Ferro
*Deputato all'Assemblea
regionale siciliana

testo integrale tratto da "Repubblica - Palermo" - 1 agosto 2002