23/07/02
Corte penale internazionale
Se non bastano 60
Pascual Ferrer
Superata la soglia delle
ratifiche, i crimini contro l'umanità saranno d'ora in
poi perseguibili da un'istituzione permanente. I timori
di alcuni paesi impegnati nelle missioni dell'Onu.
Nella contabilità dell'ordine mondiale, il numero 60 ha
assunto, dall'aprile scorso, un'importanza particolare.
È stata infatti superata la soglia di 60 ratifiche
prevista dallo "Statuto di Roma" per l'entrata in
vigore del tribunale penale internazionale.
Un evento che cambia sostanzialmente il modo in cui
la comunità internazionale perseguirà, d'ora in avanti,
i crimini contro l'umanità, come il genocidio, le
deportazioni di massa, l'apartheid.
Qual è la differenza di fondo rispetto ai vari processi
internazionali, come quello in corso a l'Aja contro
Milosevic, avviati proprio per le stesse ragioni?
La più rilevante è che mentre questi ultimi sono
"tribunali ad hoc", cioè istituiti esclusivamente per
eventi determinati (come i crimini commessi durante il
conflitto nella ex-Jugoslavia), sul modello, per
capirci, del processo di Norimberga, il nuovo
tribunale penale internazionale è un'istituzione
permanente.
Esso potrà intervenire, in via complementare, per
perseguire i responsabili di crimini contro l'umanità,
qualora i giudici nazionali omettano di farlo.
Anche se non sembra, il cambiamento è qualitativo.
Un tribunale permanente implica, in primo luogo, che non
saranno più sostenibili le critiche rivolte ai processi
ad hoc, tacciati (spesso ingiustamente) di amministrare
la "giustizia dei vincitori".
Un processo dell'oggettività e dell'imparzialità nella
giustizia internazionale, si potrebbe dire.
Ma è proprio questo il punto
critico. Per ragioni solo in teoria
comprensibili, gli stati che si ritengono più
"esposti" a causa della loro proiezione internazionale
(Stati Uniti in testa) o di situazioni conflittuali
interne (come la Cina e, per i noti motivi, Israele)
rifiutano categoricamente di sottomettersi a questa
giurisdizione universale.
Gli Stati Uniti,
avvalorando i timori della
comunità internazionale per i rischi del nuovo
unilateralismo dell'amministrazione Bush,
hanno detto a chiare lettere che
in nessun caso permetteranno che
il nuovo tribunale giudichi l'operato dei militari e dei
diplomatici statunitensi impegnati all'estero.
E con un gesto clamoroso, hanno addirittura minacciato
il ritiro del loro contingente dalla missione Onu in
Bosnia.
Decisione ora sospesa per un anno in cambio
dell'immunità concessa dall'Onu ai militari americani.
Inoltre, con una legge recentemente approvata dal
Congresso, hanno deciso il boicotaggio delle forniture
militari a tutti gli stati che collaboreranno con il
tribunale (ad eccezione dei paesi Nato).
Quali conclusioni trarre da questa vicenda. La
questione del tribunale penale internazionale evoca una
problematica ben più ampia, che è quella della
"democrazia internazionale".
Fino a quando pochi e potenti stati pretenderanno di
dettare le regole per tutti gli altri (prescindendo
totalmente dalle Nazioni Unite, sotto i cui auspici è
sorto il nuovo tribunale).
Allora non è certo il caso di parlare di "ordine
internazionale", né vecchio né nuovo. D'altra parte,
come si è visto in tutta la questione della
"giurisdizione universale", creare un organo
giurisdizionale i n t e r n a z i o n a l e mentre si
assiste all'indebolimento dell'organo politico (le
Nazioni Unite), ha poco senso.
E a ben guardare, più che di giudici e gendarmi, pur
necessari, il mondo ha più che mai bisogno di politici
che guardino ben oltre la "siepe" leopardiana.
SREBRENICA, 11 LUGLIO 1995
I sopravvissuti sono tornati a Srebrenica, per ricordare
il massacro di sette anni fa: una delle pagine più nere
dell'ultimo nerissimo conflitto jugoslavo. Non bastò
certo quel nome di luce - città d'argento, il suo - ad
illuminare quella tenebra fitta. Dei 28 mila musulmani
che l'abitavano,
ottomila uomini, fra i 12
e i 60 anni furono trucidati.Ventimila
fra donne, vecchi e bambini riuscirono a fuggire e
divennero profughi senza più identità. Appena un
centinaio di loro è ritornato nella propria casa.
Si trattò del più evidente esempio di quella
pulizia etnica che Milosevic
aveva inaugurato con l'intento di dare omogeneità
alla Grande Serbia che voleva costruire. Radovan
Karadzic e Ratko Mladic furono rispettivamente il leader
politico o il capo militare serbo-bosniaci che resero il
massacro esecutivo.
Ma un'altra grande ombra pesa su di esso, confermata dal
rapporto dell'Istituto della documentazione di guerra,
che ha accertato la responsabilità dei caschi blu
olandesi presenti sul posto, cui spettava il compito di
garantire la protezione delle Nazioni Unite per quell'area,
e che non mossero un dito. Notizia questa che ha fatto
addirittura cadere il governo dell'Aja.
Gravi responsabilità vengono
però addebitate anche all'inviato dell'Onu Yasushi
Akashi e al generale francese Bernard Janvier che
rifiutarono l'intervento aereo, dando così di fatto mano
libera ai serbi di compiere il massacro.
Oggi, come si sa, Milosevic è detenuto sotto processo
all'Aja dal Tribunale internazionale speciale per l'ex
Jugoslavia. Karadzic e Mladic sono ricercati dallo
stesso Tribunale. Ma responsabilità per le gravi
omissioni che portarono al massacro, potrebbero venire
imputate anche alle forze dell'Onu davanti al Tribunale
penale internazionale, il che spiega, ma non giustifica,
le perplessità che questa istituzione genera in alcuni
paesi. La giustizia, tuttavia
non può conoscere differenze di bandiere.
articolo integrale tratto da "CITTANUOVA" n.14/2002
- 23/7/2002