Decide tutto la corsa all'oro
nero di Baghdad
di MANLIO DINUCCI
«Lo spodestamento, diretto dagli Stati uniti, del
presidente iracheno Saddam Hussein potrebbe aprire un filone d'oro per le
compagnie petrolifere americane a lungo bandite dall'Iraq, facendo
naufragare gli accordi petroliferi conclusi con Baghdad da Russia, Francia e
altri paesi, e provocando un rimescolamento dei mercati petroliferi
mondiali»: così conclude il Washington Post
(15 settembre), dopo aver intervistato dirigenti dell'industria
petrolifera e leader dell'opposizione irachena. L'Iraq possiede riserve
petrolifere accertate, economicamente sfruttabili, ammontanti a 112 miliardi
di barili, le seconde del mondo dopo quelle dell'Arabia saudita. La loro
durata, agli attuali ritmi di consumo, è stimata in oltre un secolo, più di
quelle saudite (83 anni). La durata delle riserve statunitensi è invece
stimata in appena 10 anni. Anche se gli Usa hanno continuato a importare
petrolio dall'Iraq (un milione di barili al giorno nella prima metà del
2002), le compagnie statunitensi, sin dalla fine degli anni `80, sono state
tagliate fuori dallo sfruttamento delle riserve irachene.
Dopo la guerra del Golfo, sono state altre compagnie ad assicurarsi
contratti con Baghdad. La russa Lukoil ha concluso nel 1997 un accordo da 4
miliardi di dollari per lo sfruttamento del campo petrolifero di Qurna e,
nell'ottobre 2001, un'altra compagnia russa, la Slavneft, si è assicurata un
contratto da 52 milioni di dollari per la trivellazione del campo di Tuba,
anch'esso nell'Iraq meridionale. Altre possibilità si aprirebbero per le
compagnie russe con il prospettato accordo economico da 40 miliardi di
dollari tra Mosca e Baghdad, tenendo conto che l'Iraq ha con la Russia un
debito di circa 8 miliardi di dollari. Contemporaneamente, altre compagnie
di una dozzina di paesi - tra cui Francia, Cina, India e Italia - hanno
concluso accordi per lo sfruttamento delle riserve petrolifere irachene, che
diverrebbero operativi con la cessazione dell'embargo (non a caso voluto
dagli Stati uniti).
Ora però tutto cambia. Le compagnie non americane temono di «essere
escluse dagli Stati uniti, che diverrebbero la potenza straniera dominante
in Iraq dopo la caduta di Hussein». I capi dei
gruppi di opposizione finanziati dagli Usa hanno annunciato che, con un
nuovo governo in Iraq, tutti gli accordi andrebbero rivisti e lo
sfruttamento petrolifero sarebbe affidato a un consorzio a guida
statunitense. L'Iraq potrebbe inoltre uscire dall'Opec,
indebolendo la sua influenza sui prezzi petroliferi. Le compagnie Usa
acquisterebbero un peso ancora maggiore nel mercato energetico mondiale,
così come è avvenuto con l'instaurazione di un
governo filoamericano in Afghanistan, che ha riavviato il progetto del
gasdotto Turkmenistan-Pakistan via Afghanistan, prima sfuggito di mano agli
Usa: il 16 settembre, i tre governi hanno presentato alla Banca
per lo sviluppo asiatico lo studio di fattibilità del gasdotto (con una
capacità annua di 15 milioni di metri cubi), che sarà controllato da un
consorzio a guida statunitense.
Nello stesso quadro rientra il petrolio iracheno, divenuto «una delle
principali monete nella contrattazione dell'amministrazione Usa per ottenere
dai membri del Consiglio di sicurezza e dagli alleati occidentali l'adesione
all'appello del presidente Bush per una dura azione internazionale contro
Hussein».
I termini
sono quelli di un ricatto: i paesi che
acconsentiranno alla guerra contro l'Iraq (anche se Baghdad ha accettato gli
ispettori) potranno avere dal governo filoamericano, in misura minore
rispetto agli Usa, contratti per lo sfruttamento del petrolio iracheno;
quelli che si opporranno saranno esclusi.
Per ottenere il consenso di Mosca alla guerra, l'amministrazione Bush
ha convocato, per gli inizi d'ottobre, un «summit sull'energia» a Houston,
al quale parteciperanno, insieme ad alti funzionari statunitensi e russi, i
rappresentanti di oltre 100 compagnie petrolifere dei due paesi.
I negoziati politici si svolgono quindi non al tavolo del Consiglio di
sicurezza Onu, ma a quello dell'industria petrolifera, dove si spartisce
l'oro nero dell'Iraq. Di ciò sono esperti il presidente Bush e il
vicepresidente Cheney che - ricorda il Washington Post - «hanno
lavorato nel business del petrolio e hanno legami di lunga data con
l'industria petrolifera
testo integrale tratto da "Il
Manifesto" - 18 settembre 2002