Quasi otto milioni di italiani in difficoltà

La povertà non è né di destra né di sinistra

 di Giovanni Sarpellon

Il terzo millennio, per quanto riguarda la povertà, è cominciato così come è finito il secondo. E’ una constatazione desolante, ma non sorprendente. Da poco più di vent’anni anche in Italia viene misurata la diffusione della povertà fra le famiglie e, anno dopo anno, le statistiche danno, grosso modo, gli stessi risultati. Eppure, in vent’anni, il benessere è continuamente aumentato nel nostro paese. Difficilmente, nei tanti dibattiti televisivi, si trova qualcuno che parli di povertà, che la presenti come un problema dei nostri giorni. La cosa non è poi tanto strana, poiché il "soggetto sociale" che attira l’attenzione di tutti è la classe media, quel conglomerato di persone che, in mille modi diversi, hanno trovato la loro strada verso un discreto benessere, conquistato con fatica e al quale sono, ovviamente, molto attaccate. La difesa della classe media è anche diventato il maggiore obiettivo della politica. In politica la classe media assume il fatidico nome di "centro". E infatti, sia i partiti di destra, sia quelli di sinistra si affannano a premettere alla loro qualificazione l’attributo di "centro". Ma la povertà non è né di destra né di sinistra. Essa, in verità, è di nessuno. Perché la povertà, per una classe media sempre più preoccupata a difendere il proprio benessere da mille parti minacciato, è come il rischio di una malattia indicibile che va negato.

I poveri non sono più i mendicanti, i disgraziati, i menomati descritti nei romanzi dell’Ottocento.

Essi sono 7.828.000 persone che vivono in mezzo a noi, come noi, nella casa accanto. Sono quelli che, nella corsa verso il benessere, sono rimasti indietro. Ci sono, certo, alcune differenze importanti.

Per i due terzi si trovano nel Mezzogiorno;

fra essi sono relativamente più presenti le famiglie numerose con tre o più figli,

quelle con un anziano o un disoccupato in casa.

Anche un basso titolo di studio si accompagna più frequentemente con la presenza della povertà.

Ma queste sono, complessivamente, caratteristiche che si trovano anche nelle altre famiglie, che povere non sono. La drammaticità della povertà sta proprio nella sua normalità. Questa constatazione dovrebbe far paura alla classe media che, se avesse coscienza del rischio al quale è esposta, non si accontenterebbe di soccorrere in qualche modo i poveri (aumentando, per esempio, le pensioni minime), ma si preoccuperebbe invece di affrontare le cause della povertà. Ma questo, probabilmente, non avverrà mai, perché è la ricchezza di alcuni che crea la povertà di altri. Essere poveri, infatti, non significa avere poco, ma avere meno. Si è poveri quando si ha molto meno di coloro in mezzo ai quali si vive.

Anche le statistiche sulla povertà che l’Istat ci ha fornito sono costruite in questo modo:

povero è colui che ha una spesa media mensile inferiore alla metà della spesa media pro-capite.

Il povero, in termini di capacità di spesa, è come un "mezzo cittadino".

Il problema, allora, è quello della disuguaglianza.

Un paese non diventa più ricco solamente aumentando la propria ricchezza.

Ciò che conta è come la ricchezza è distribuita.

Oggi, nell’ideologia dominante, queste affermazioni non trovano credito. Si sostiene che l’importante è produrre anzitutto la ricchezza e che, solo dopo, si può pensare a distribuirla. Non è vero. Ci sono 7.828.000 persone, che vivono nella casa accanto, che lo dimostrano.

interamente tratto da "Avvenire" - Giovedì 18 luglio 2002