Gli avvenimenti dell11
settembre 2001 hanno molti significati. Ma a me sembra che il loro significato più
profondo e duraturo sia, in ultima analisi, quello della fine simbolica dellera
dello spazio. Essi hanno drammaticamente evidenziato e imposto allattenzione
dell'opinione pubblica un'evoluzione sotterranea già in atto da diverso tempo. Hanno
mostrato in modo spettacolare e drammatico la portata mondiale degli avvenimenti,
materializzando l'idea fino ad allora astratta dellinterdipendenza e della
globalità del pianeta.
FINE DELL'ERA DELLO SPAZIO
Lera dello spazio era iniziata con la
muraglia cinese e il vallo di Adriano degli antichi imperi, continuata con i fossati, i
ponti levatoi e le torri delle città medievali, culminata nelle linee Maginot e Sigfrido
degli stati moderni e sfociata nel Patto atlantico e nel muro di Berlino dei blocchi
militari sovranazionali. Nell'era dello spazio, il territorio era la risorsa più
ambita, la posta in gioco di ogni lotta di potere, il segno distintivo tra vincitori e
vinti. Ma era soprattutto la principale garanzia di sicurezza. L'era dello spazio
era il tempo del "vasto territorio", del Lebensraum, delle "cinture
sanitarie", dei castelli al centro di ampie proprietà terriere. Il potere era
territoriale e tale era anche la vita privata e la libertà dalle interferenze del potere.
Il chez soi la patria, la casa era un luogo con confini ben definiti
ed insuperabili; si poteva efficacemente far rispettare il divieto d'accesso e controllare
e regolare l'ingresso degli estranei. Il territorio era rifugio e nascondiglio al tempo
stesso, un luogo nel quale ci si poteva rifugiare e trincerare, "entrare in
clandestinità" e sentirsi al sicuro.
Tutto questo è finito. Era finito già da qualche tempo, ma solo gli
avvenimenti dell11 settembre lo hanno dimostrato senza ombra di dubbio. Essi hanno
dimostrato che nessuno, per quanto ricco, ingegnoso, lontano e distaccato può isolarsi e
proteggersi dal resto del mondo. Lo spazio ha perso la sua capacità protettiva.
Per quanto armati e fortificati i luoghi non sono più in grado di proteggere. Non solo è
impossibile nascondersi, ma gli attacchi possono essere portati anche da molto lontano.
Ora forza e debolezza, minaccia e sicurezza sono diventate essenzialmente questioni
extraterritoriali (e fluide) che sfuggono a soluzioni territoriali (e focalizzate).
Non è più possibile affrontare il problema della sicurezza in
modo territoriale, creando cioè alcuni spazi sicuri e trincerandosi in essi. Si
pensi, ad esempio, allenorme domanda di rifugi atomici familiari al tempo della
guerra fredda e della cosiddetta strategia della "reciproca distruzione
assicurata" o alla grande popolarità delle "comunità sbarrate" in
situazioni di crescente violenza e criminalità urbana. Gli avvenimenti dell'11 settembre
hanno dimostrato l'assoluta inutilità e inefficacia di soluzioni del genere.
La possibilità di un attacco terroristico stile 11 settembre era
prevedibile ormai da molto tempo, a causa della massiccia insicurezza globale esistente
all'interno di uno spazio extraterritoriale non-colonizzato, politicamente
non-controllato, completamente de-regolamentato. E, d'un tratto, quell'attacco ha
evidenziato la nuova situazione di vulnerabilità reciprocamente assicurata di tutte le
parti politicamente separate del pianeta. Ora è evidente che il grado di vulnerabilità
non può più essere misurato in base alla consistenza dellarsenale di armamenti ad
alta tecnologia sviluppati in vista di guerre territoriali (ormai passate di moda). Come
ha osservato Eric Le Boucher, l11 settembre ha dimostrato che il mondo non può
dividersi in due parti separate, una ricca e sicura dietro il suo moderno sistema
antimissile, e laltra abbandonata alle sue guerre e ai suoi arcaismi.
L11 settembre ha dimostrato che i paesi lontani non possono più essere lasciati
alla loro anarchia, se i paesi ricchi e ipoteticamente sicuri vogliono continuare a essere
ricchi e veramente sicuri.
TERRA DI FRONTIERA GLOBALE
Si può riassumere la nuova situazione in
questa tesi: lo spazio globale è diventato una terra di frontiera.
Nella terra di frontiera, lagilità e lastuzia valgono
più dei fucili. Le recinzioni e le palizzate hanno un valore più simbolico che reale.
Gli sforzi di dare ai conflitti una dimensione territoriale, di demarcare il territorio,
raramente producono dei risultati. Nelle guerre combattute nella terra di frontiera,
raramente si scavano trincee. Gli avversari sono estremamente mobili e assolutamente
extraterritoriali; la loro forza è la rapidità, l'invisibilità, la segretezza dei
movimenti. Conquistare il territorio che occupavano il giorno prima non significa vincere
la battaglia e tanto meno porre fine alle ostilità. E quella vittoria non garantisce
certamente un avvenire sicuro.
Nella terra di frontiera, le alleanze e le linee del fronte sono
fluide e mobili da entrambe le parti. I combattenti cambiano facilmente
bandiera e anche la linea di demarcazione tra civili e militari è sottile e in continuo
movimento. Le alleanze sono passeggere e di comodo; non esistono matrimoni stabili, ma
solo convivenze temporanee e di convenienza. L'ultima cosa che si offre, è la fiducia; e
l'ultima cosa che ci si aspetta, è la fedeltà. Le coalizioni si fanno e si disfano con
estrema facilità, a seconda dei vantaggi che se ne sperano e degli svantaggi che ne
derivano.
Su entrambi i fronti, le parole d'ordine sono
"flessibilità", "adattabilità", "alleanze mobili",
come sta dimostrando la guerra in Afghanistan, iniziata dagli Stati Uniti con lo slogan
"con i pakistani contro i terroristi [e i talebani]", proseguita con lo slogan
"contro i terroristi e contro i pakistani", ricorrendo per spianare la strada
all'intervento di terra agli uzbeki e tagiki, fieramente anti-pakistani,
dellAlleanza del Nord. In preparazione alla guerra in Afghanistan, il segretario di
stato americano, con l'aiuto del primo ministro britannico, ha fatto la corte ai governi
arabi sollecitandoli a partecipare alla lotta al terrorismo, ma subito dopo si è
accettato di buon grado il massacro dei militari volontari arabi in Afghanistan da parte
delle truppe vittoriose dell'Alleanza del Nord e la richiesta di ripulire il paese dagli
"stranieri". E il gioco è ben lungi dall'essere finito. La conseguenza della
guerra in Afghanistan sarà certamente meno sicurezza e più massacri nella terra di
frontiera planetaria.
Nelle condizioni della terra di frontiera, qualsiasi guerra contro
i terroristi può essere vinta, disponendo di un numero sufficiente di aerei per sganciare
bombe e di danaro per stimolare e/o corrompere gli alleati "fluttuanti" e
"flessibili" per il lavoro sul terreno. Ma la guerra contro il terrorismo non
può essere vinta (in modo definitivo), finché lo spazio globale conserva il suo
carattere di terra di frontiera. Il mantenimento delle alleanze "fluttuanti" o
"flessibili" è uno dei principali fattori che contribuiscono a mantenere lo
spazio globale in condizioni di terra di frontiera.
Il vuoto politico
La strategia delle alleanze passeggere, il
rifiuto di strutture istituzionalizzate in grado di esigere il rispetto di regole
universali, la resistenza contro l'assunzione di impegni a lungo termine vincolanti e
monitorizzati sono altrettante realtà che rafforzano la terra di frontiera e
ostacolano l'adozione di un ordine globale, politicamente consolidato e controllato.
Purtroppo non c'è alcun interesse a introdurre e consolidare strutture giuridiche e
politiche globali, quando, grazie alla superiorità militare e all'esistenza di risorse
apparentemente inesauribili, si può raggiungere, senza di esse, più velocemente e a
minor costo, qualsiasi obiettivo. L'esistenza di un'autorità a livello mondiale può
costituire un ostacolo per il raggiungimento dei propri obiettivi e limitare la libertà
di movimento o perlomeno complicare le cose.
Non è difficile comprendere il motivo per cui gli stati che confidano
nella loro superiorità competitiva e non vogliono condividere i possibili vantaggi di
un'operazione con stati meno ricchi e fortunati, siano tentati dalla strategia delle
"alleanze flessibili" e da un deciso rifiuto di qualsiasi struttura a lungo
termine ed universalmente vincolante. Ma quella strategia può servire più di un padrone
ed essere usata anche da altri attori, del tutto imprevisti e indesiderati. In realtà, il
perpetrarsi del disordine mondiale serve anche ai terroristi e non solo a coloro che
li combattono.
Una delle ragioni principali per cui la guerra contro il terrorismo è
in-vincibile è il fatto che entrambe le parti hanno interesse a perpetuare le
condizioni della terra di frontiera. Su questo punto le parti concordano, anche il
loro linguaggio è diverso. C'è per così dire un accordo che nessuna delle due parti
della "guerra al terrorismo" vuole infrangere: il rifiuto di qualsiasi
imposizione e limitazione nella nuova situazione di extraterritorialità dei cieli o la
rivendicazione della libertà di ignorare o scavalcare le "leggi degli stati",
quando ostacolano il raggiungimento del proprio obiettivo. L'unica cosa che sembra
caparbiamente resistere alla "flessibilità" e alla generale
"fluttuazione", è proprio quest'alleanza contro un ordine mondiale equo,
universalmente vincolante e democraticamente controllato.
Attualmente non c'è in vista alcuna "politica di ordinamento
globale", alcuna visione che oltrepassi il distretto di polizia. In mancanza di
una tale visione ci si accontenta di far rispettare la legge e assicurare l'ordine,
inseguendo e punendo coloro che profittano eccessivamente della licenza concessa dalla
terra di frontiera. Finora si è riflettuto ben poco sulle possibilità di un controllo
democratico delle forze che sfuggono al controllo delle attuali istituzioni giuridiche ed
etiche e attaccano obiettivi scelti in assoluta autonomia.
Clausewitz affermava che la guerra è la continuazione della politica
con altri mezzi. Riguardo alla guerra al terrorismo dichiarata dagli Stati Uniti e dalla
Gran Bretagna, Jean Baudrillard ha affermato che essa è la continuazione
dellassenza di politica con altri mezzi. In mancanza di una politica globale e
di un'autorità politica mondiale, ci si possono attendere scontri violenti. E ci sarà
sempre qualcuno disposto a etichettare la violenza come terrorismo, cioè come atto
illegale, criminale e perseguibile. Il termine "terrorismo" e l'espressione
"guerra al terrorismo" continueranno a essere concetti animatamente e
essenzialmente contestati e gli atti che provocano, pur inconcludenti, si
auto-perpetueranno e auto-rafforzeranno.
GUERRE DI RICOGNIZIONE
In un ambiente fluido, nel quale le vecchie
abitudini vengono rapidamente abbandonate e alle nuove non si lascia praticamente il tempo
di attecchire (e tanto meno di consolidarsi), si brancola nel buio e si può procedere
solo per tentativi, per esperimenti, sperando di azzeccare la mossa giusta fra le
tante sbagliate. Si procede per tentativi, errori, nuovi tentativi e nuovi errori, finché
un tentativo non dà il risultato che, tutto sommato, può essere considerato
soddisfacente. Naturalmente si moltiplicano i tentativi, prevedendo già in partenza che
molti non riusciranno e serviranno solo a restringere il ventaglio dei tentativi futuri.
La moltiplicazione degli esperimenti non garantisce il successo, ma induce a sperare che
tra i molti tentativi falliti e sprecati almeno uno centrerà il bersaglio. Si fa come il
fotografo che scatta una quantità di foto, sperando che almeno qualcuna riesca perfetta o
almeno accettabile.
Un tipico esempio di questo comportamento sono le guerre di
ricognizione, probabilmente la forma più comune di guerra (e di violenza in genere)
nell'attuale terra di frontiera mondiale. Le guerre di ricognizione (o la
ricognizione-attraverso-la-guerra) hanno un solo scopo: distinguere il possibile da ciò
che è impossibile o irrimediabile. Le guerre di ricognizione "fotografano" la
situazione e preparano la scelta degli obiettivi da colpire e della strategia più
adatta. Le squadre che vengono inviate non hanno il compito di conquistare il territorio
nemico, ma di esplorare la determinazione e resistenza del nemico, le risorse di cui
dispone e la rapidità con cui può dispiegarle in battaglia. Le squadre devono scoprire i
punti forti e i punti deboli del nemico, gli stratagemmi e i calcoli sbagliati dei
comandanti nemici. Analizzando il corso di una guerra di ricognizione, gli ufficiali
possono in qualche modo valutare la forza di resistenza del nemico e la sua capacità di
contrattaccare ed elaborare piani di guerra realistici.
Le guerre di ricognizione sono la principale forma di violenza in
un ambiente insufficientemente regolamentato. Oggi l'insufficiente regolamentazione è
la conseguenza del progressivo collasso delle tradizionali strutture di autorità o della
comparsa di nuovi ambiti, nei quali la domanda sulla legittima autorità non è mai stata
posta e tanto meno ha ricevuto una risposta. Il collasso delle tradizionali strutture di
autorità colpisce tutti i livelli di integrazione sociale, ma è particolarmente evidente
a due livelli: quello globale e quello politico. Entrambi hanno assunto una particolare
importanza per l'organizzazione della vita personale e comunitaria, ma in entrambi i casi
mancano tradizioni e modelli su cui potersi basare per affrontare situazioni nuove e
inedite.
Equilibri di potere in continuo cambiamento
A livello planetario, il vuoto politico
che ha rimpiazzato il mondo fortemente strutturato (secondo il modello delle cattedrali
gotiche piuttosto che quello dei palazzi classici) prodotto dalle tensioni derivanti dal
reciproco contenimento e bilanciamento dei due blocchi contrapposti offre un altro spazio
naturale alle guerre di ricognizione. Il vuoto politico è un continuo invito a
ricorrere alla forza per il raggiungimento dei propri obiettivi. Né gli esiti del
gioco mondiale, né le regole del gioco sono prestabiliti e non esistono a livello
mondiale istituzioni politiche in grado di limitare le scelte dei giocatori e obbligarli o
convincerli a rispettare i confini. Le risposte agli attacchi terroristici dell11
settembre hanno evidenziato ancora maggiormente la sostanziale illegalità della terra di
frontiera mondiale e lirresistibile seduzione della tattica della lotta libera.
Nella guerra dell'Afghanistan, ad esempio, gli Stati Uniti erano unicamente interessati a
catturare Bin Laden e a distruggere Al Qaeda, senza minimamente preoccuparsi del futuro
del paese. Sono ricorsi sempre più all'uso della forza e a tutte le possibili alleanze di
comodo, anche a costo di lasciare il paese nel caos.
La condizione di illegalità propria di tutte le guerre di
ricognizione si aggrava sempre più. A ogni atto di violenza si risponde con azioni di
rappresaglia che provocano a loro volta azioni di rappresaglia. Gli equilibri del
potere cambiano continuamente. Da un giorno all'altro, i nemici si trasformano in
alleati e gli alleati in nemici e si stringono sempre nuove alleanze per conservare i
propri privilegi o cercare di conquistarli. Da entrambe le parti si perde la capacità
dell'autocontrollo. Le offese vanno vendicate e le controparti hanno un'opinione troppo
alta di se stesse per pensare di aver sbagliato e rinunciare a rendere pan per focaccia.
La spirale delle guerre di ricognizione può interrompersi solo se non
cè più nulla da esplorare, solo se si adottano a livello mondiale regole di
condotta vincolanti che impediscano scelte unilaterali e comportamenti lesivi del diritto
internazionale, solo se il rispetto dei diritti umani non viene più lasciato in balia
di convenienze politiche e militari in genere di breve durata. Solo se, ad esempio, il
principio della parità delle donne, sfruttato per dare una parvenza etica
allattacco in Afghanistan, viene applicato anche alla discriminazione delle donne in
Kuwait o in Arabia Saudita.
GUERRE ASIMMETRICHE
L'espressione "guerra asimmetrica" è
entrata nel vocabolario corrente insieme ad altre espressioni finora sconosciute come
"guerre non statuali" e "guerre di quarta generazione". Le guerre
asimmetriche attuali sono "non statuali". Può accadere che dietro una guerra
asimmetrica vi sia il governo di uno stato, ma la cosa riveste un'importanza del tutto
secondaria, poiché i "nemici asimmetrici" uniscono le loro forze e collaborano
per indebolire ulteriormente la sovranità degli stati-nazione. Alcuni combattenti possono
farlo volutamente, altri inavvertitamente, ma tutti promuovono la supremazia delle forze
mondiali extraterritoriali. Tutti i partecipanti alle guerre asimmetriche sono in
ultima analisi "trans-nazionali". E lo sono anche nelle loro strategie: sono
mobili, non legati ad alcun luogo, cambiano facilmente i loro obiettivi e non riconoscono
limiti né la sacralità di alcuna legislazione locale.
Le controparti delle guerre asimmetriche hanno molte cose in comune e
cose essenziali. Stante questo parallelismo a livello di comportamenti, strategie e
conseguenze, in che senso le loro ostilità possono essere definite
"asimmetriche"?
L'asimmetria riguarda, anzitutto, le armi e il potenziale distruttivo
delle parti impegnate in una guerra asimmetrica. Ciò induce la parte "debole" a
evitare lo scontro diretto e a preferire la guerriglia, la tattica del mordi e fuggi,
sperando che la scarsità di armi si risolva in un vantaggio. In realtà, la mancanza di
un equipaggiamento pesante e quindi la maggiore facilità a scomparire, a nascondersi e a
sottrarsi allo scontro diretto compensa egregiamente l'inferiorità in materia di
armamenti. Ma, paradossalmente, la riluttanza della parte "debole" allo scontro
diretto è molto conveniente anche per la controparte, per cui anch'essa non è
interessata allo scontro diretto e preferisce la tattica del mordi e fuggi, che permette
di non dover tener conto delle conseguenze sul terreno e di lasciare ad altri il compito
di riparare i danni.
Manca il bersaglio e fuggi
La vera asimmetria delle "guerre al
terrorismo" consiste nella diversa, anzi opposta, influenza che la condizione
globalizzata esercita sulla situazione e sulla gamma di scelte disponibili per i
contendenti. Nellera della globalizzazione, la mobilità e la velocità diventano i
fattori principali della nuova stratificazione globale. È la velocità della trasmissione
a distanza (di informazioni e azioni) a porre lélite mondiale (extraterritoriale
grazie alla rapidità dei suoi movimenti) al vertice della gerarchia del potere. Ed è
l'assenza di mobilità e l'incapacità a bloccare o perlomeno rallentare la velocità
delle trasmissioni a distanza dell'élite mondiale a relegare i perdenti in fondo alla
gerarchia del potere.
Ora è proprio questa radicale differenza a spingere i terroristi e
coloro che li combattono a perseguire scopi contrapposti. I terroristi vogliono dimostrare
di non essere completamente immobilizzati e che l'élite, nonostante la sua superiore
mobilità, è vulnerabile. Gli atti terroristici vogliono dimostrare, fra l'altro, che
la reclusione non è assoluta, che è inefficace come strumento di riduzione
all'impotenza. Comunque, essi possono difficilmente minare i fondamenti della dominazione
mondiale dei loro avversari. E, d'altra parte, è praticamente impossibile sradicare il
terrorismo con la forza delle armi. Perciò, molto spesso il mordi e fuggi si riduce a
un "manca il bersaglio e fuggi".
Le guerre asimmetriche sono un fattore concomitante del processo di
globalizzazione. Sono commisurate allo spazio mondiale, condotte sulla scena mondiale e
rinunciano esplicitamente a pretese territoriali. Non è in gioco il territorio, ma il
principio di territorialità e la sua abolizione, anche se consapevolmente o meno entrambe
le parti contribuiscono a consolidare la nuova extraterritorialità della condizione
umana.
GUERRA COME VOCAZIONE
La fine delle guerre territoriali ha
coinciso con la fine della leva obbligatoria. Entrambe le cose sono strettamente
legate al passaggio dallo stato solido allo stato fluido della modernità, allo
smantellamento della dominazione globale, alla fine dellera dello spazio ed
allavvento dell'era della velocità, caratterizzata dalla svalutazione dello spazio
e dalla spinta della velocità della tele-visione e della tele-azione verso i suoi limiti
estremi, quelli della velocità della luce.
Gli eserciti di leva sono stati sostituiti con unità professioniste e
altamente specializzate, la cui funzione principale (almeno in teoria) è quella di
distruggere e neutralizzare analoghe unità professioniste dell'esercito nemico e i nuovi
"gangli bellici" dell'era della modernità fluida, cioè i centri di raccolta ed
elaborazione delle informazioni, le stazioni televisive e i depositi di carburante o di
armamenti. Gli eserciti diventano più snelli, più agili e più mobili. I militari
vengono addestrati a operare in piccoli gruppi o individualmente, più simili a uno sciame
che alle colonne in marcia del passato.
Il rapporto fra attrezzatura tecnica e forza umana è radicalmente
cambiato a vantaggio della prima e una parte sempre maggiore delle capacità un tempo
affidate alla memoria dei soldati e alle tecniche di addestramento viene passata agli
strumenti elettronici di puntamento e sempre più anche le decisioni tattiche e
strategiche. Viene in mente la storiella sulla fabbrica automatizzata del futuro: userà
solo esseri viventi, un uomo e un cane; l'uomo si limiterà a nutrire e ad accarezzare il
cane e il cane dovrà impedire alluomo di toccare le macchine. Da come stanno
andando le cose sul fronte degli eserciti professionisti, un tale futuro non sembra tanto
lontano.
Il nuovo stile militare tende a escludere, possibilmente del tutto, lo
scontro diretto, faccia a faccia con il nemico, con tutte le conseguenze che esso
comporta: rischio di fraternizzare con la popolazione locale; indottrinamento ideologico
della truppa; necessità di elevare il morale dei soldati in caso di difficoltà
impreviste, ecc. La nuova tattica colpire e uccidere a distanza, affidando la
scelta dell'obiettivo a apparecchiature prive di sentimenti e moralmente neutre ha
permesso di eliminare dall'azione militare la maggior parte delle valutazioni etiche e
inibizioni morali.
Il soldato, come ogni altro professionista, ha un "lavoro da
svolgere". La correttezza della prestazione viene misurata, come nelle altre
professioni, indipendentemente dalla sua dimensione morale. Le uniche regole etiche
ammesse nella valutazione della prestazione professionale sono due: si è seguita
rigidamente la logica del comando gerarchico; si è portato a termine il compito con i
minori costi possibili e con la maggiore aderenza possibile al comando ricevuto? La
tattica del mordi e fuggi e la mediazione elettronica tra gli attori umani e i loro
obiettivi umani hanno congiuntamente realizzato quello che per le burocrazie del tempo di
Max Weber continuava a restare ostinatamente solo l'orizzonte inaccessibile del "tipo
ideale".
Da soldati ad impiegati
Lavvento degli eserciti
professionisti ha disinnescato il fervore patriottico e la retorica della patria. Ciò
consente al comandante supremo delle forze armate di sferrare un attacco rapidamente, se
necessario anche nel giro di ventiquattro ore, qualora lo giudichi desiderabile e
promettente, il che rende più che probabile una proliferazione delle guerre. La guerra
del Vietnam è stata probabilmente lultima guerra combattuta da un esercito di leva.
Il ricorso a un esercito professionista non comporta rischi politici paragonabili a quelli
assunti da Johnson o da Nixon ed è poco probabile che scateni un risentimento popolare
analogo a quello seguito alla guerra del Vietnam. D'altra parte, quel risentimento era
dovuto in gran parte alla sconfitta militare e non alla vergogna e all'immoralità dei
bombardamenti a tappeto dei villaggi e all'uso del napalm contro la popolazione civile.
Soggetti alle richieste di un servizio professionistico, i soldati
sono assurti alla condizione di impiegati, con tutte le norme di sicurezza vigenti nel
mondo del lavoro e il diritto di risarcimento in caso di mancato rispetto degli standard
contrattuali. Grazie allalto livello di conoscenze e professionalità richiesto
dall'uso di apparecchiature sofisticate e al notevole consumo di energie mentali e
psichiche causato dai rischi connessi con la loro professione, i soldati appartengono a
quel settore del mercato del lavoro relativamente privilegiato che offre una sicurezza del
posto di lavoro superiore alla media e una certa gratificazione.
Ma forse leffetto più sorprendente delle nuove forme di guerra
è il fatto che, durante le azioni militari, a beneficiare del massimo livello di
sicurezza personale sono proprio i soldati. I rischi per la loro vita e la loro
incolumità sono ridotti al minimo. Del resto, in una guerra che si vince spingendo
dei bottoni, il coraggio non conta e non serve. Non è né richiesto né desiderato. Nella
guerra in Afghanistan hanno perso la vita solo sette soldati e uno solo nel corso di
un'azione militare, gli altri per incidenti sul lavoro. Gli attuali soldati professionisti
non sono più matadores coraggiosi e spacconi; assomigliano maggiormente a
operatori freddi e professionali di un mattatoio con tutte le carte in regola.
Alla fine della giornata, ciò che conta, e di cui si tiene conto,
sono solo gli incidenti di personale militare. E quando si afferma che la prima e
principale preoccupazione dei comandanti e dei loro capi politici è "salvare
vite" si pensa esclusivamente alle vite dei soldati e al loro benessere. Gli altri
morti e feriti sono solo "danni collaterali", che non vanno tenuti presenti
nel calcolo finale. Sono una sorta di spiacevole, inevitabile, effetto collaterale di una
potente medicina che serve a salvare la vita. La devastazione etica causata da tale
approccio è enorme!
Lespulsione della guerra e delle "uccisioni" in
genere dal centro del dibattito etico, nel quale sono rimaste per la maggior parte della
storia umana e, cosa ancor più significativa, la rimozione delle azioni che causano le
guerre dal controllo delle limitazioni morali e delle convinzioni etiche degli operatori
sono forse gli aspetti più deleteri del nuovo esercito professionista. Essi spianano la
strada a un nuovo genere di orrori, decisamente diversi da quelli compiuti sui
campi di battaglia. Finora non cè alcun segno di una nuova Convenzione di Ginevra
che possa contrastare e limitare la devastazione umana che questi nuovi orrori lasciano
presagire.
VIVERE IN UN MONDO SATURO
Già nel 1784 in Idee di una storia
universale dal punto di vista cosmopolitico, Emmanuel Kant aveva scoperto che la
tendenza dei tempi moderni era contraria alla "suprema intenzione della natura".
Kant osservava che il pianeta che noi abitiamo, è una sfera, e traeva le conseguenze di
questo semplice dato di fatto: noi tutti abitiamo e ci muoviamo sulla superficie di questa
sfera e non abbiamo altro posto in cui andare, per cui siamo costretti a vivere per sempre
gli uni accanto agli altri e gli uni con gli altri. Quindi la natura ha previsto che gli
uomini vivano insieme secondo ragione e secondo l'istinto di auto-conservazione. Prima o
poi non ci sarà più alcun spazio vuoto sul pianeta, dove possano avventurarsi coloro che
trovano il luogo in cui abitano già troppo popolato o poco congeniale ai loro gusti.
Perciò, la natura ci chiede di considerare la (reciproca) ospitalità come il precetto
supremo che dobbiamo accettare per cercare di porre fine alla lunga serie di tentativi
ed errori, di catastrofi che questi errori hanno prodotto e di rovine che hanno lasciato
sul loro passaggio.
Già Kant aveva scoperto questo principio basilare, ma agli uomini
sono occorsi altri due secoli per convincersi che aveva ragione, due secoli pieni di nuovi
errori, catastrofi e rovine. Per 200 anni il mondo si è sforzato di riconoscere agli
stati un'unica prerogativa: quella di controllare i movimenti delle persone, erigendo
barricate e presidiandole con guardie armate, introducendo passaporti, visti, controlli
doganali... Lavvento dello stato moderno ha coinciso con la comparsa degli
"apolidi", dei sans papiers, della "vita priva di valore",
della possibilità di distruggere impunemente certi esseri umani, in quanto ritenuti privi
di qualsiasi valore etico o religioso.
Se negli ultimi due secoli esistevano ancora terre vergini da popolare
e spazi vuoti da occupare, ora il mondo è saturo. E la conseguenza più sorprendente,
come hanno dimostrato drammaticamente e senza ombra di dubbio gli avvenimenti dell11
settembre, è la scomparsa della sicurezza e dell'intimità. Ormai nessun luogo è
più sicuro e anche l'intimità della "casa" è violata. Questo ci ha colti di
sorpresa e ci ha trovati impreparati. È venuta meno quella sacrosanta distinzione tra dentro
e fuori, che garantiva il campo della sicurezza esistenziale e indicava la strada
verso la trascendenza futura. Non esiste più il fuori. Siamo tutti dentro e
non è rimasto nulla fuori. O piuttosto ciò che era fuori è entrato "dentro"
senza bussare e si è installato senza chiedere il permesso.
Le soluzioni locali ai problemi planetari sono saltate, linganno
dellisolamento territoriale è stato smascherato. Permettetemi di ripeterlo: non
esistono soluzioni locali a problemi mondiali, nonostante che le attuali istituzioni
politiche le sole che abbiamo collettivamente inventato finora e le sole che
abbiamo si affannino, ma invano, al cercare soluzioni locali. E non cè da
meravigliarsi visto che tutte queste istituzioni sono locali e che il loro potere sovrano
è localmente circoscritto.
I RIFUGIATI IN UN MONDO SATURO
Negli ultimi due secoli, si è dato per
scontato che i rifugiati, i migranti volontari o costretti, le persone al di fuori del
loro paese in genere, fossero un affare del paese ospitante e dovessero essere trattati
come tali. Volenti o nolenti, tutti gli stati hanno dovuto accettare la presenza di
stranieri nei loro territori e tutti hanno dovuto aprire le porte a ondate successive di
migranti in fuga o cacciati dalle autorità di altri stati sovrani. Una volta entrati, gli
stranieri vecchi e nuovi si sono trovati sotto lesclusiva e indivisibile
giurisdizione del paese ospitante, il quale era libero di applicare le versioni
aggiornate, moderne, delle due strategie di gestione della presenza degli stranieri
descritte in Tristes tropiques da Claude Lévy-Strauss: soluzione antropofagica o
antropoemica.
La prima soluzione consisteva nel "mangiare gli
stranieri", sia letteralmente, come nel cannibalismo praticato da certe tribù
del passato, sia metaforicamente, attraverso un'assimilazione e un inserimento nel corpo
nazionale spinti al punto che gli stranieri cessavano di esistere in quanto tali. La
seconda soluzione consisteva nel "vomitare gli stranieri", inseguendoli
ed espellendoli (proprio come consiglia di fare Oriana Fallaci con le persone che adorano
altri dèi e seguono norme igieniche sconcertanti) sia dall'ambito dello stato sia dal
mondo dei viventi.
Ma tutto questo era possibile solo perché esisteva una chiara
divisione territoriale tra il "dentro" e il "fuori" e lo stato
possedeva una sovranità piena e indivisibile all'interno del proprio territorio, due
realtà decisamente in via di estinzione nell'attuale situazione fluida e globale.
Perciò, le possibilità di applicazione dell'una o dell'altra strategia classica sono
veramente minime.
In mancanza di una strategia per gestire i nuovi arrivi, i
governi si limitano a chiudere le porte in faccia a tutti coloro che bussano chiedendo
di entrare. L'attuale tendenza a ridurre drasticamente il diritto dasilo politico,
accompagnata da un assoluto divieto di ingresso agli "immigrati per ragioni
economiche" evidenzia la mancanza di una qualsiasi strategia per affrontare il
fenomeno dei rifugiati e unicamente il desiderio dei governi di evitare spiacevoli
ripercussioni politiche. In questa situazione, lattacco terroristico dell11
settembre è stato un vero dono di Dio per i politici. Oltre alle tradizionali accuse di
parassitismo e di sottrazione di posti di lavoro, ora gli immigrati vengono accusati di
fungere da "quinta colonna" della rete terroristica mondiale. Prima negli
Stati Uniti e poi in Gran Bretagna, nel quadro della "campagna contro il
terrorismo" gli stranieri sono stati prontamente privati anche di quegli essenziali
diritti umani che avevano resistito a tutte le vicissitudini dal tempo della Magna
Charta e dellHabeas Corpus. Ora gli stranieri possono essere detenuti
indefinitamente per accuse dalle quali non possono difendersi, in quanto non si dice loro
in che cosa consistano.
Si possono chiudere le porte, ma non per questo il problema è
risolto. La chiusura delle porte non serve a indebolire le forze che causano
l'emigrazione. Può solo tenere il problema fuori dalla vista e dalla mente, ma non
impedirgli di esistere.
Così, sempre più, i profughi si trovano fra due fuochi: vengono
espulsi dai loro paesi o spaventati al punto da scappare e viene rifiutato lingresso
in tutti gli altri. Non cambiano di posto, ma perdono il loro posto sulla terra; vengono
catapultati in "non-luoghi", in "navi fantasma", in "carrette del
mare", in "luoghi senza luogo", che esistono per se stessi, chiusi in se
stessi, consegnati all'immensità del mare o a un deserto che è per definizione non abitato,
terra rifiutata dagli uomini e raramente visitata. I rifugiati sono diventati la
personificazione stessa della extraterritorialità.
Milioni e milioni di "zombi"
Secondo lAlto Commissariato delle Nazioni
Unite per i rifugiati (Unhcr), i rifugiati che lottano per la sopravvivenza al di fuori
dei loro paesi di origine sono fra i tredici e i diciotto milioni (senza contare i
milioni di sfollati interni in Burundi e Sri Lanka, Colombia e Angola, Sudan e
Afghanistan, condannati a una vita randagia dalle continue e interminabili guerre
tribali). Di questi, oltre sei milioni sono in Asia, da sette a otto milioni in Africa,
tre milioni (profughi palestinesi) in Medio Oriente. Sono certamente stime per difetto,
poiché non tutti i rifugiati sono stati riconosciuti (o hanno chiesto di essere
riconosciuti) tali. Solo una parte dei rifugiati ha avuto la fortuna di essere iscritta
nei registri dell'Unhcr e posta sotto la sua protezione. Riguardo a questi ultimi,
l83,2% è sistemato in campi in Africa e il 95,9% in Asia (finora nei campi in
Europa è stato confinato solo il 14,3% dei rifugiati).
I campi sono soluzioni rese permanenti dalla chiusura delle porte
di uscita. Gli internati non possono ritornare nei paesi "da dove sono
venuti", poiché quei paesi non li vogliono più indietro, i loro mezzi di
sostentamento sono stati distrutti, le loro case bruciate o occupate da altri. D'altra
parte, nessun governo vuole aprire le porte a milioni di senzatetto. Nella loro nuova
situazione "permanentemente provvisoria", i profughi non appartengono neppure al
paese sul cui territorio sono sistemate le loro capanne e piantate le loro tende. Essi
sono separati dal resto del paese ospitante dall'invisibile, ma spessa e impenetrabile
cortina del sospetto e risentimento. Sono sospesi in un vuoto spaziale, in cui il tempo
si è fermato. Non si sono stabiliti e non sono in movimento, non sono né sedentari
né nomadi.
È impossibile usare al loro riguardo il vocabolario che si usa
abitualmente parlando degli uomini. Essi sono gli "indicibili", gli
"intoccabili", gli "impensabili", gli "inimmaginabili", gli
"extraterritoriali" per eccellenza, i "non appartenenti realmente a un
posto", coloro che sono "nel", ma non "del" posto che occupano
fisicamente. Nei campi profughi, il tempo è sospeso; è tempo, ma non è storia.
Nei campi, i rifugiati imparano a vivere, o piuttosto a sopravvivere, giorno dopo giorno
nellimmediatezza del momento, bagnandosi nella disperazione che cresce
allinterno delle mura.
Colpevoli fino a prova contraria
Le autorità che governano il territorio
attorno al campo, fanno tutto il possibile per impedire ai reclusi di uscire e riversarsi
sul territorio circostante. Lesterno del campo è, essenzialmente, off limits
per gli internati del campo. Nel migliore dei casi è inospitale, popolato da gente
diffidente e sospettosa, costantemente in agguato per scoprire e denunciare qualsiasi
errore vero o presunto e qualsiasi passo falso dei rifugiati. I residenti li considerano
una minaccia per la loro sicurezza, una fonte di pericolo per la loro vita e la loro
visione del mondo, e tendono ad avvolgerli in una fitta rete di stereotipi che non lascia
spazio alle diversità. I rifugiati sono colpevoli finché non viene provata la loro
innocenza, ma, poiché sono i residenti a svolgere i ruoli di pubblico ministero,
giudice e giuria popolare, le possibilità di assoluzione sono praticamente nulle.
Avendo abbandonato il loro ambiente di origine, o essendone stati
cacciati, i rifugiati tendono a perdere le identità che quellambiente definiva,
sosteneva e riproduceva. Socialmente, essi sono degli "zombi": le loro
vecchie identità sopravvivono in genere come fantasmi e incubi notturni. Anche
l'identità più confortante, prestigiosa e desiderata fra le vecchie identità diventa un
ostacolo: scoraggia la ricerca di nuove identità più confacenti al nuovo ambiente,
impedisce di affrontare la nuova realtà e ritarda il riconoscimento della permanenza
della nuova condizione
Ogni comunità è frutto dell'immaginazione e anche la comunità
mondiale non fa eccezione a questa regola. Ma limmaginazione diventa una forza
tangibile, potente e integrante solo se è sostenuta da istituzioni di
auto-identificazione e di auto-governo collettivi prodotte e sostenute dalla società. Ora
riguardo alla comunità mondiale manca finora una tale rete istituzionale, formata
da organi mondiali di controllo democratico, un sistema giuridico e legislativo vincolante
a livello mondiale e principi etici di portata mondiale. È questa, a mio avviso, la causa
principale di quello che viene eufemisticamente definito il "problema rifugiati"
e il maggiore ostacolo alla sua soluzione.
Lunità della specie umana postulata da Kant può essere, come
egli affermava, in linea con l'intenzione della natura, ma non sembra "storicamente
determinata". La continua incontrollabilità della rete mondiale di reciproca
dipendenza e "reciproca vulnerabilità assicurata" già esistente non aumenta
certamente la possibilità di una tale unità. Ma ciò significa solo che oggi la
ricerca, e la pratica, di un'umanità comune è assolutamente urgente e imperativa.
Nell'era della globalizzazione, la causa e la politica di una comune umanità devono fare
i passi più decisivi che abbiano mai fatto nel corso della loro lunga storia.
ZYGMUNT BAUMAN